Giornata internazionale delle persone con disabilità

«Se loro non possono farlo, non lo faccio neanch’io»

La scuola dovrebbe garantire il diritto allo studio anche ai ragazzi con disabilità e le famiglie dei compagni dovrebbero intervenire quando non lo fa, secondo Nico Acampora di PizzAut

di Monica D'Ascenzo

2' di lettura

Marco, 17 anni, cieco dalla nascita, nel maggio scorso non ha potuto andare in gita con i compagni. I due insegnanti di sostegno dell’istituto torinese non hanno dato la loro disponibilità e l’educatrice dell’Istituto per la Ricerca la Formazione e la Riabilitazione, l’Irifor, che lo segue, non è stata autorizzata ad accompagnarlo. L’unica soluzione percorribile era che uno dei genitori andasse in gita con lui. Ma come sanno bene le mamme e i papà degli adolescenti, una scelta simile sarebbe stata troppo imbarazzante. Così Marco è rimasto a casa. In febbraio, invece, era stata la volta di Sofia (nome di fantasia), che non aveva potuto andare in viaggio studio in Spagna, nonostante il padre si fosse offerto di accompagnarla. In questo caso la scuola secondaria di primo grado non ha neanche aperto all’ipotesi di quello che viene definito “accomodamento ragionevole”.

Se un paio di episodi come questi guadagnano l’onore delle cronache per le denunce delle famiglie, ci sono centinaia di situazioni ogni anno scolastico in cui il diritto allo studio e alle pari opportunità dei bambini e dei ragazzi con disabilità viene calpestato. Le leggi, i finanziamenti, i regolamenti di istituto possono fare molto ma non tutto. E in una situazione imperfetta come quella italiana la differenza continuano a farla le persone: la preside che si prende la responsabilità di decidere, l’insegnante di sostegno che si aggiorna e lavora a stretto contatto con famiglia e specialisti, il personale scolastico che comprende le situazioni e supporta il corpo insegnanti.

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Ma c’è un altro attore che resta sullo sfondo, come se non fosse chiamato in causa. Lo racconta bene Nico Acampora, fondatore di PizzAut, che ha denunciato come il figlio in prima superiore abbia dovuto aspettare due mesi prima di avere un insegnante di sostegno e quindi poter andare a scuola regolarmente. «La colpa è anche un po’ vostra, perché quando succede che un bambino con disabilità non può venire a scuola o avere le opportunità degli altri studenti, non alzate la mano e dite: “preside, se non può farlo lui non lo fa neanche mio figlio”».

Le famiglie dei compagni di scuola tirano dritto come se il problema non li riguardasse. Quando invece proprio a scuola sarebbe opportuno iniziare a gettare i semi della società che vogliamo costruire. Se ci fosse più attenzione per chi ha meno possibilità (che sia a causa di una disabilità, ma anche di bisogni educativi speciali, di povertà o altre condizioni di fragilità) probabilmente si riuscirebbe a creare una comunità più forte, che non lascia indietro nessuno. Allora forse dovremmo fare tutti l’esercizio di alzare la mano e dire quando capita «se non può farlo lui, non lo faccio neanch’io». Solo così l’articolo 3 della Costituzione italiana potrà avere davvero un senso. Per tutti.


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