La comunità del tempo condiviso nel mondo post-digitale
L’antropologo Tim Ingold vede gli umani come linee intrecciate, lontano dalla metafora della Rete. E rilancia il rapporto con i territori
I punti chiave
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Passiamo la vita a cercare di capire chi siamo, quale la relazione con l’altro, poi arriva uno dei più importanti antropologi contemporanei e vedi qualcosa che era lì da sempre. «Siamo linee» (Treccani, trad.it. Daria Cavallini, 21 euro) scrive Tim Ingold: non esiste soltanto il concetto di rete dominante - Google e il paradigma social network - le relazioni umane sono linee che s’intrecciano: «Quando descriviamo una rete raffiguriamo ogni essere o cosa come un punto, un nodo, con linee di connessione. Ma questo significa comprimere la storia della vita in un punto fisso in cui nulla vive, nulla si muove», invece «la persona è una linea, che va di qua e di là, improvvisa un percorso, come la radice di una pianta».
Quale significato hanno le relazioni?
Ogni relazione è un legame di linee, scrive il docente di Antropologia sociale ad Aberdeen, che possono “salvarci” dalle crisi del presente: «Dando un significato diverso all’idea di contemporaneità, che coglie il presente solo come “tempo dell’adesso”. Invece, contemporaneità significa tempo condiviso. Nella vita, condividiamo il tempo portando avanti le nostre vite insieme». Se poi «seguissimo le vie dei nostri antenati ed educassimo i nostri discendenti a seguire le nostre orme, la “comunità del tempo condiviso” sarebbe una stirpe e le generazioni potrebbero lavorare insieme per assicurare la continuità - invece di vedere minacce e crisi, allora, vedremmo prove e tribolazioni -. Il compito incessante della vita, del resto, è cavarsela. Il futuro è una vita da vivere, non un problema da risolvere».
Il rapporto con il territorio
Uno degli aspetti più interessanti del libro (arricchita da una nuova prefazione) è il legame fra viventi e territorio: «Nel farci strada nel mondo - il più delle volte a piedi - assistiamo e rispondiamo ai modi di vita intorno a noi. È come se, camminando, infilassimo una linea nel groviglio di tutto il resto». Questo reticolo è un milieu in cui le persone-linee non vivono dentro o fuori: «Abitare il milieu - il “luogo di mezzo” - significa essere in mezzo alle cose». Di più: «Ogni essere respirante è un luogo in cui l’immersione atmosferica si trasforma nelle linee proliferanti della rete. È qui che il tempo si trasforma. Questa trasformazione è fondamentale per tutta la vita animata».
Economia ed ecologia sono legate, dice Ingold: «L’uomo è parte integrante di un mondo naturale che non è mai finito, ma sempre in divenire. È un mondo che si mondifica continuamente, nello svolgersi delle vite, attraverso le relazioni che stringiamo con gli altri esseri, umani e non umani, con cui condividiamo il pianeta».
La vera questione è come possano gli umani coesistere con tutti gli altri esseri: «È una domanda che i governi, gli Stati, gli economisti, sembrano incapaci di comprendere. Pensano ancora alla natura come a un mondo separato dall’umanità, che esiste al solo scopo di soddisfare i bisogni umani con servizi ecosistemici». La sostenibilità, in questo modo, consiste solo nel far quadrare i conti: «Se le relazioni uomo-ambiente sono in crisi, questa visione della natura - radicata nella storia del capitalismo globale e del progetto coloniale - è necessario che se ne vada». L’autentica sostenibilità per Ingold è «fondere l’economia con l’ecologia come studio dell’oikos, la dimora terrena, non può essere raggiunta da interventi governativi, dall’alto verso il basso, né dai singoli individui. Può essere raggiunto solo dalle comunità, che hanno intima conoscenza dei luoghi che abitano. Un primo passo, quindi, sarebbe quello di restituire alle comunità il potere e la responsabilità di prendersi cura della loro terra».
Una ondata di postumani
Il mondo cambierà di qui al 2050: «La bolla dell’intelligenza artificiale scoppierà, probabilmente entro questo secolo», anche perché per Ingold è insostenibile: «In termini di richiesta di energia e materiali, emissioni e residui tossici. Invece di fantasticare su come gli umani di oggi saranno soppiantati dalla nuova ondata di postumani digitali, dovremmo preparare la strada alle prossime generazioni post-digitali che avranno ancora bisogno di mangiare e ristabilire un rapporto con la terra per coltivare il cibo». Se vorranno continuare a vivere ad alta densità, «le città dovranno diventare luoghi di produzione di cibo oltre che di abitazione». Gli esseri umani del futuro post-digitale, chiosa l’autore di «Siamo linee», «avranno mani e voci. Capacità di percezione sensoriale, manipolazione e vocalizzazione perfezionate nel corso di migliaia di anni. Eppure sembra che ci accontentiamo di lasciarle morire nel giro di una generazione. È un atteggiamento miope. Non c’è dubbio che le generazioni future, in un mondo post-digitale, dipenderanno da queste abilità tanto quanto le generazioni passate. È necessario alimentarle e sostenerle, anziché liquidarle come obsolete. Una delle grandi tragedie dell’età moderna è la perdita dell’amor mundi. Il nostro impulso è quello di rifiutarlo e sostituirlo con qualcos’altro. Vorrei vedere il futuro come un modo per riparare, rinnovare e ringiovanire il passato, in esso si nasconde la possibilità di un nuovo inizio».