Via col Vento

9 febbraio 2025

Nonostante qualche grattacapo personale, anche quest’anno sono riuscito a partecipare al Free Open Source Developers European Meeting (in sigla: FOSDEM) di Bruxelles, la maggiore conferenza europea (e mondiale?) dedicata al software libero e aperto. E come ogni anno ne trascrivo qui le mie impressioni, in quanto – come uso spesso dire – la parte più interessante del FOSDEM non sono i talk (ce ne sono più di 1000 in programma, sarebbe comunque impossibile seguirli tutti) quanto vedere ed osservare quali sono i temi affrontati, quali sono quelli maggiormente partecipati, e come si distribuisce l’interesse della vasta ed eterogenea platea.

Dal mio punto di vista, l’outsider di quest’anno è stato il progetto Zephyr, sistema operativo realtime destinato all’uso in ambito IoT, che nel programma 2025 è stato soggetto di svariati talk in numerose diverse devroom tematiche e che mi è capitato di sentir menzionare da più di una persona in più di un contesto (tra le altre cose: sono stato edotto sul fatto che pure Arduino sta aderendo al progetto). Stando a quanto mi è stato spiegato, la peculiarità di Zephyr è di essere riuscito ad emergere e ad aggregare interesse (e dunque: risorse e competenze) in un settore – appunto quello dell’IoT – che per lungo tempo è stato frammentato tra soluzioni open source non ottimali e soluzioni closed source. Si potrebbe dire che Zephyr stia diventando, nell’ambito del software embedded e dell’elettronica, quello che Linux è per i server: la scelta di default.

Ed il rinnovato interesse nei confronti dell’hardware – inteso come piattaforma su cui eseguire il software – si nota anche nella proliferazione dei banchetti a tema, un tempo relegati al building AW ed ora distribuiti un po’ in ogni area (compresa la nuova zona per gli stand allestita in un corridoio di passaggio tra le diverse strutture): i led delle schede – alcune delle quali a loro volta open hardware – occhieggiano su numerosi tavoli, segnalando l’attività di una qualche applicazione a codice aperto intenta a leggere sensori, trasmettere dati o innescare attuatori. Certo, l’impatto del modello di sviluppo open difficilmente potrà mai essere determinante sull’hardware quanto lo è stato sul software, ma è comunque interessante vedere come anche questo settore industriale sta venendo “democraticizzato” in funzione della condivisione dei saperi.

L’amico Michele, certamente più addentro di me in quel che concerne il mondo AI, LLM e similari, mi ha fatto notare che al FOSDEM 2025 ci sono stati molti più talk di approfondimento tecnico su come funzionano e come si realizzano i modelli che stanno alla base di questo genere di applicazioni. Se fino allo scorso anno ci si è limitati ad usare i modelli – più o meno “open source” – pubblicati da soggetti terzi, e a fornire soluzioni che ne facilitassero l’utilizzo a più alto livello ma senza intaccarne il nocciolo, evidentemente nell’ultimo anno è diventata più accessibile e popolare la possibilità di creare i propri modelli AI, eventualmente ottimizzati e verticalizzati sui propri casi d’uso e sui propri contenuti. Di fatto si sta avverando la profezia secondo cui la rivoluzione AI non si manifesta con un simpatico chatbot che, alimentato da ciclopiche basi di dati ed ospitato in costosi data center, risponde a tutte le domande possibili e compie tutte le operazioni pensabili, ma con piccoli modelli ad-hoc costruiti per fare solo quello che serve, più economici da eseguire anche su risorse locali.

Per quanto invece concerne il folklore collaterale del FOSDEM, va segnalato che anche quest’anno non è stato convocato il tradizionale “beer event” al venerdì precedente alla manifestazione presso il Delirium Village, sospeso negli anni immediatamente successivi al COVID e mai più reintrodotto. Pure nell’anno in cui si sono celebrati i 25 anni dell’evento. Forse anche per questo motivo le serate alcoliche in Impasse de la Fidélité sono state molto meno partecipate e caotiche. Viceversa, pare che una parte del pubblico si sia spostata presso la ByteNight, after-party non ufficiale della conferenza ma comunque abbondantemente promosso presso la stessa; il prossimo anno credo che toccherà anche a me adeguarmi ai tempi che cambiano, o quantomeno andare a dare una occhiata.

Un’ultima nota relativa al “Caso Dorsey” che ha animato le settimane precedenti. Risulta che Jack Dorsey (co-fondatore di Twitter e fondatore di Bluesky, tra le altre cose) avrebbe dovuto tenere un talk, ma che qualcuno abbia minacciato rumorose ed ingombranti proteste nei confronti del miliardario statunitense – in questa sede, personificazione degli odiati BigTech – al punto da far sparire l’intervento dal programma. Nel corso del talk dedicato ai 25 anni del FOSDEM non ci si è potuti esimere dal sollecitare ad un approccio costruttivo anziché distruttivo nei confronti di un evento organizzato essenzialmente da volontari: il summenzionato fatto non è stato citato, ma a tutti è risultato evidente il riferimento. Non ho gli strumenti per entrare nel merito della questione, o determinare chi abbia più ragione dell’altro, ma questo episodio non può passare del tutto inosservato e lo appunto qui per futura referenza.

Come spesso capita, sono rientrato a casa con numerosi progetti e idee da sviscerare ed analizzare. Non avrò mai il tempo per fare tutto, ma forse il bello dell’esperienza FOSDEM sta proprio nel sognare quello che non sarà mai implementato.


Uno Per Cento (2024)

29 dicembre 2024

Finisce l’anno, ed è ora di tirare le somme. Letteralmente, dovendo fare i conti con la classica distribuzione dell’1% del mio fatturato annuo ai progetti open source con cui, nel corso dell’anno stesso, ho lavorato (e grazie ai quali, per l’appunto, quel fatturato l’ho generato in qualità di sviluppatore software freelance).

Il 2024 non è stato particolarmente ricco, ed altrettanto poco ricchi sono stati pertanto i miei dividendi. Anche per questo motivo, pure per questa iterazione ho un poco modificato il mio personale “algoritmo” di selezione dei progetti da sostenere tagliando le quote da 25 euro – che ovviamente intaccano notevolmente il budget a disposizione, e ne limitano la portata – ed adottando un approccio più conservativo nei confronti delle dipendenze indirette. Spiace dover tagliare qualcosa, ma la disponibilità è quella che è.

10 euro/dollari li ho destinati a strumenti ed applicazioni che adopero pressoché ogni giorno, o che hanno comunque un impatto quotidiano sul mio operato:

10 euro/dollari sono stati riservati agli strumenti di sviluppo:

5 euro/dollari allocati alle dipendenze indirette (di cui qui spesso indico non il nome del progetto ma il nome dell’autore, magari coinvolto in molteplici componenti e pacchetti inclusi nella mia supply chain) estrapolate, come sempre, con i comandi “composer fund” e “npm fund“. Quest’anno, date le ristrettezze, ho dovuto escludere diverse tra le dipendenze minori che in passato sono ricadute in questa categoria.

Infine, nel 2024 ho fruito della mia stessa opera di mappatura delle donazioni per i pacchetti inclusi nei repository Debian per supportare anche il software che più o meno direttamente uso – consapevolmente o meno – sul mio PC. Contribuire a tutti sarebbe alquanto difficile, pertanto – in modo forse poco equo, ma tant’è… – ho estratto 10 progetti a caso tra quelli proposti dal comando apt-give e a ciascuno ho mandato 10 euro/dollari.

Il buon proposito per il 2025 è certamente quello di fatturare di più, al fine di avere più fondi da poter distribuire, ma anche quello di completare la suddetta mappatura delle modalità di donazione per i pacchetti Debian: ho superato la metà del totale, ma garantisco che revisionare circa 60mila pagine web alla ricerca di riferimenti e links non è affatto semplice né veloce.

Inevitabilmente invito nuovamente tutti i miei colleghi operatori del settore IT – programmatori e sistemisti, freelance e dipendenti, tecnici e capitani d’impresa – a ripartire parte dei propri profitti ai progetti open source che più o meno consapevolmente, direttamente o esplicitamente usano per i propri prodotti, i propri servizi e le proprie infrastrutture. Non per generosità o misericordia, ma per poter continuare a lavorare con essi e trarre beneficio (economico, non meno che tecnico) da essi. Tantopiù alla luce dell’imminente entrata in vigore del tanto dibattuto Cyber Resilience Act, secondo cui tra tre anni tutti saremo diretti responsabili per la sicurezza del software che produciamo e vendiamo, inclusi i componenti open source che abbiamo incluso nel nostro stack; bella o brutta che sia la norma, confido che questa iniziativa porterà ad un poco più di consapevolezza nei confronti della sostenibilità del software da cui tutti traiamo vantaggio.


Quarantatre

23 giugno 2024

Solitamente frequento poco le conferenze in ambito tech (con le debite eccezioni), ma recentemente ho avuto modo di partecipare al WordCamp Europe 2024 in virtù dell’invito ricevuto dall’amica Luisa, la quale – oltre ad aver partecipato all’organizzazione dell’evento – è anche nel team di traduzione italiana di WordPress, frequenta assiduamente la community, ne conosce dinamiche e personaggi, ed ha voluto farmi partecipe di questa esperienza.

Per quanto WordPress sia un nome noto a chiunque abbia frequentato l’internet anche solo marginalmente negli scorsi vent’anni, è necessario dare un contesto: è un progetto open source, formalmente appartiene ad una fondazione, all’atto pratico lo sviluppo viene indirizzato da una azienda, ed intorno vi orbita una vasta community fatta di volontari, professionisti ed imprese che – a vario titolo, con varie motivazioni ed in vari modi – partecipano e collaborano per la crescita del progetto nel suo insieme. C’è chi realizza siti web grandi e piccoli, chi implementa e vende plugin, chi implementa e vende plugin per i plugin, chi offre consulenza e servizi verticali – dall’hosting alla SEO – su questa specifica piattaforma, chi partecipa a tempo perso e chi viene pagato dal proprio datore di lavoro per partecipare. Tutti questi si trovano annualmente presso la maggiore conferenza europea dedicata al progetto, da cui emerge la forte componente commerciale dell’ecosistema, evidenziata anche dal fatto che tra i presenti ho trovato più di un individuo che si trovava lì per puro e semplice networking.

Da una parte, WordPress rappresenta una utopia del modello open source. Il progetto è libero, il codice aperto (peraltro, è distribuito in licenza GPL e non è richiesta la sottoscrizione di una CLA per contribuire; sarebbe tecnicamente impossibile chiuderlo, come successo in altri casi più o meno recenti), ed esiste una gran quantità di realtà imprenditoriali in competizione tra loro ma che ci investono sopra tempo e denaro con l’intento di consolidare una piattaforma utilizzabile e sfruttabile da tutti gli altri. Dinamiche in parte comuni anche ad altri grandi progetti open source – ad esempio, buona parte dei progetti afferenti ad Apache Foundation sono mantenuti da persone pagate dalle numerose aziende che su quegli stessi progetti vendono consulenza e servizi – ma che raramente coinvolgono un bacino così ampio di soggetti, che va dall’impresa multi-milionaria al freelance sotto casa.

Dall’altra parte, la mole di sviluppatori coinvolti per gestire, mantenere ed arricchire una piattaforma di queste dimensioni – che, come ricordato nel keynote di chiusura, funge da base per oltre il 43% dei siti web online dell’intera internet – va ben oltre quella attualmente supportata e sponsorizzata dai maggiori soggetti commerciali che ne traggono profitti. Ed il tema è stato toccato in un paio di circostanze anche nel corso della conferenza. Ci sono i volontari che contribuiscono al core, ci sono gli autori dei plugin “community” (che, come ho avuto modo di discutere in privata sede con Francisco Torres – membro del Plugin Review Team, cui ha dedicato un talk – sono sviluppatori, non imprenditori, e non tutti hanno gli strumenti o semplicemente la volontà di diventare il prossimo WooCommerce pur avendo ovviamente la necessità di sostenere la propria attività), e naturalmente ci sono tutte le dipendenze da cui WordPress ed i relativi plugin dipendono. Inutile dire che, anche in questa occasione, ho avuto modo di stressare tutti coloro cui ho parlato con la questione dell’1% del proprio fatturato da distribuire ai progetti open che vengono utilizzati per svolgere il proprio lavoro, e anche in questa occasione confido nell’aver convinto almeno qualcuno.

Confesso di non essermi mai interessato particolarmente alla figura di Matt Mullenweg, fondatore (anzi: co-fondatore, come precisa sempre, benché l’altro “co” sia essenzialmente sparito non avendo preso parte al successo di Automattic) del progetto WordPress, ed è stato curioso vederlo dal vivo. Nonostante la sua posizione ed il suo ruolo mi ha dato l’idea di essere “uno di noi”, uno smanettone prima ancora che un imprenditore, uno che crede davvero a questa storia della libertà del codice e dei dati, uno che si è dato una missione. Non dubito che debba ogni tanto render conto agli investitori (che esigono risultati economici, spesso a prescindere dal modo in cui vengono ottenuti), ma altrettanto non dubito che un personaggio di tal fatta sia un bene all’interno dell’universo open source e che la sua opera dovrebbe essere presa a modello.

In questi due giorni ho avuto modo di spacciare qualche biglietto da visita, conoscere diverse persone nuove (italiane e non), raccattare qualche complimento internazionale sulla città di Torino (che, in qualità di torinese d’adozione, fa sempre piacere), godere di una conferenza di alto livello (anche e soprattutto dal punto di vista organizzativo), farmi una idea più precisa di quel che è il mondo WordPress, e decidere che forse dovrei prestargli maggiore attenzione, sia in veste professionale che di promotore delle libertà digitali.


La Prossima Definizione

27 Maggio 2024

Il tema del cosiddetto “post-opensource” non gode di grandi attenzioni mediatiche – soprattutto nel momento in cui è più comodo e rapido distorcere il significato del termine “opensource” stesso, senza ulteriori prefissi – ma tra i suoi estimatori se ne trova uno d’eccezione: Bruce Perens, ovvero l’autore proprio della definizione originaria di “open source” e co-fondatore di Open Source Initiative. E il supporto di Perens non si limita a qualche occasionale tweet di commento, ma si manifesta con la pubblicazione di una pagina web che propone una formalizzazione del concetto.

In modo invero un po’ scomposto. La cui essenza è: costringiamo a pagare solo coloro che d’altro canto avrebbero le risorse per reimplementare ogni cosa per conto proprio, aggirando senza problemi i nuovi vincoli, e per farlo istituiamo un sistema burocratico universale che gestisca in modo centralizzato tutti gli aspetti economici, legali e operativi. Persino io, che non nego la mia inclinazione marxista, sono alquanto scettico del fatto che siffatto piano possa funzionare.

Alcuni degli spunti offerti dal – per così dire – “Manifesto Post Open” sarebbero applicabili da oggi al modello open source così come è.

La distribuzione dell’1% dei profitti ai progetti open source che hanno avuto un ruolo nel generare i profitti medesimi è, ovviamente, un proposito che non posso non apprezzare, applicando io stesso questa pratica da anni. Sono lieto che Perens sia giunto alla stessa conclusione cui sono giunto io nel 2017, ma tocca far presente che per raggiungere tale obiettivo non sarebbe necessaria una nuova licenza bensì “solo” un po’ di buona volontà da parte di coloro (tutti coloro) che traggono beneficio dal lavoro altrui.

Avere una organizzazione che aggreghi l’erogazione di servizi cloud, fungendo da marketplace e fornendo un unico punto di riferimento (e dunque un unico account, un unico pannello di amministrazione, una unica fatturazione, un unico help desk…), sarebbe assai auspicabile e permetterebbe di costruire una alternativa reale e appetibile ai vari AWS, Google Cloud, Azure e similari, presso cui i soggetti che sviluppano applicazioni middleware e SaaS open source (e che spesso già erogano sottoforma di servizi cloud, ciascuno per conto proprio) potrebbero serenamente vendere i propri servigi e trarre profitti diretti, mettendo a fattor comune marketing e costi operativi. Per fare questo non sarebbe necessaria una nuova licenza (men che meno in mancanza di una effettiva organizzazione aggregatrice, menzionata nel documento ma non ancora esistente), ma “solo” un po’ di buona volontà, di dialogo, e di sana capacità imprenditoriale.

Il grattacapo della sicurezza della filiera open source, minacciata dalle scarse risorse a disposizione degli sviluppatori, periodicamente torna tristemente in auge (l’ultimo caso eclantante è stato quello di XZ) pur restando irrisolto. Laddove gli strumenti per distribuire i fondi in modo proporzionale, magari anche facendoli fluire dai progetti di maggior successo ai progetti meno visibili e dunque più vulnerabili, in parte esisterebbero. Fermo restando il requisito primo: smettere di frignare sempre, solo ed esclusivamente nei confronti dei “Big Tech” ed iniziare ad immettere, in prima persona, denaro contante nel sistema. Per fare questo non sarebbe necessaria una nuova licenza, ma “solo” un po’ di buona volontà.

Un concetto del tutto inedito è invece quello di trattare l’intero patrimonio “post-open” come un unico oggetto contrattuale, cui si perde diritto di accesso nel momento in cui viene riscontrata una violazione su uno solo dei progetti coinvolti. Spunto interessante, che può essere letto come un approccio alla sindacalizzazione del movimento nel suo complesso, ma che – come scritto sopra, e come del resto riconosciuto da Perens stesso – prevede uno strato di burocratizzazione decisamente invasivo e scarsamente gestibile.

Inoltre, non è ben chiaro in che modo l’applicazione di una licenza software dovrebbe impattare sulle “esigenze degli utenti non tecnici”, che qui vengono identificate come una mancanza da parte del classico modello open source. Forse non è concesso distribuire una applicazione in licenza PostOpen se non ha una interfaccia grafica bella e semplice? Oppure non posso adottare tale licenza per un database (tipologia di software sconosciuta agli utenti domestici) ma solo per applicazioni end-user? Se non scrivo della documentazione esaustiva, vengo portato in tribunale?

Insomma: Perens, nel suo documento, enumera idee buone ed idee pessime in ordine sparso, le condisce con una buona dose di populismo, e le spaccia per rivoluzione ideologica.

Fintantoché l’unica suggestione di soluzione all’intera questione della sostenibilità del modello open resta l’obbligo di far cacciare, forconi alla mano, i quattrini ad un manipolo di operatori (ovvero: una soluzione inapplicabile), dubito che se ne trarrà mai qualcosa. In questo filone di pensiero vedo una ben scarsa auto-critica alle responsabilità individuali, un facile capro espiatorio, e – come spesso capita – una foglia di fico atta a nascondere la volontà di intervenire da parte dei singoli.

E questo è il medesimo messaggio che ho voluto trasmettere, a chiare lettere, nella homepage dell’iniziativa apt-give, in cui mi sono imbarcato qualche giorno fa. Il progetto, ispirato dai più volte su queste pagine citati npm fund e composer fund (si, avrei potuto chiamarlo “apt fund”, ma mi piaceva il contrasto col canonico “apt-get”, e poi il dominio “apt.fund” era già registrato…), non è altro che un indice delle pagine di donazione di ciascun pacchetto presente sui repository Debian – e pertanto anche Ubuntu, Mint e similari – ed un banale script Bash che mostra le suddette pagine per i pacchetti attualmente installati sul proprio sistema. Insomma: un modo veloce per sapere a chi dare i soldi per fare in modo che il proprio PC (e i propri server…) continuino a ricevere aggiornamenti e miglioramenti. L’ho annunciato sui social (su Twitter e su Mastodon) l’altro giorno e, stando ai log del web server, ho ricevuto più cuoricini e stelline che download.

Ma non mi lascio scoraggiare: lentamente proseguo con la mia opera di indicizzazione delle pagine di donazione (opera svolta in larga parte a mano, ispezionando i siti web uno a uno in cerca di un link a PayPal o a OpenCollective…), continuo ad assillare i miei lettori con la storia dell’1%, e ogni volta che mi è possibile continuo a ripetere l’importanza di distribuire qualche soldo.

Perché non è con le lamentazioni che si potrà aggiustare un movimento fondato sulla partecipazione.


L’Eterno Condono

23 marzo 2024

A seguito di un toot di Stefano Maffulli – attuale direttore di Open Source Initiative, già recentemente citato su queste pagine – ho avuto modo di articolare un breve scambio di messaggi. Terminato senza particolari conclusioni, ma da cui ho tratto qualche riflessione non molto confortante.

Il riassunto spannometrico dell’argomentazione di Maffulli – in quella sede sostenuta anche da Luis Villa, che non è proprio l’ultimo degli scappati di casa – è che la nascente definizione di “Open Source AI” debba necessariamente includere in modo esplicito i parametri previsti dalla (già esistente, per quanto ancora in costante divenire) normativa vigente in tema di AI. Di fatto, estendendo formalmente i requisiti già iscritti nelle regolamentazioni per aggiungere quel che concerne strettamente l’attribuzione della qualifica “Open Source”.

La domanda sottoposta tra le righe: è davvero indispensabile che la suddetta definizione sia legata e vincolata a leggi che devono comunque, a prescindere, essere applicate da chiunque – open o non open che sia il prodotto finito – e che comunque variano sia da Paese a Paese che nel tempo? La risposta erogata tra le righe: si, perché sinora ci è andata bene, ma un giorno qualcuno potrebbe non fare più eccezioni dedicate al modello open e pretendere che le regole siano puntualmente applicate anche in questo contesto.

L’implicito riferimento è al Cyber Resilience Act, la stringente regolamentazione europea sulla cyber sicurezza che ha fatto molto discutere negli scorsi mesi per la sua incompatibilità con le dinamiche proprie del modello di sviluppo collaborativo e più in generale con l’oramai universalmente consolidata pratica di attingere a piene mani dal patrimonio collettivo di codice libero disponibile online. In quel frangente, la massiccia mobilitazione di community, organizzazioni, stakeholders pubblici e privati ha permesso di introdurre ampie ed abbondanti eccezioni nel testo della direttiva, che nella formulazione attuale esonera gli sviluppatori (ed i contributor occasionali, ed i distributori) da oneri legali e burocratici per imputarli ai fornitori commerciali. Ma la scampata sorte dello sviluppo open source – che qualcuno già dava poco verosimilmente per “spacciato” nel Vecchio Continente – ha comunque posto la collettività di fronte a nuovi dubbi esistenziali (come se già non ce ne fossero abbastanza). Un po’ sulle effettive responsabilità morali dei developer che pubblicano con leggerezza codice potenzialmente non sicuro, e un po’ sulla tolleranza degli organi legislativi nei confronti di un modello produttivo essenziale per gran parte dell’impianto industriale contemporaneo ma troppo “fluido” per essere normato, monitorato, e per essere oggetto di vincoli e restrizioni.

In virtù della crescente attenzione dei suddetti organi governativi nei confronti dell’ancor più crescente impatto delle tecnologie digitali, e dunque della progressiva necessità di porre limiti, identificare responsabilità e interdire comportamenti dannosi, qualcuno inizia – a torto o a ragione – a domandarsi quanto ancora possano essere accettate delle deroghe specifiche per il modello open source. Che da una parte viene romanticamente narrato come un innocuo passatempo da smanettoni, ma dall’altra parte è di fatto un processo oramai pressoché inalienabile del moderno apparato produttivo, il quale deve dare garanzie e risposte certe.

Per quanto possa comprendere queste titubanze, ho delle perplessità sulla possibilità di iscrivere nome e regole dentro la definizione stessa di “open source”. Ufficialmente dal software open non ci si aspetta neppure che debba funzionare (“the software is provided ‘as is’, without warranty of any kind” è una formula canonica di qualsiasi licenza), proprio perché essendo – per definizione – pubblicamente accessibile e modificabile da chiunque non è possibile pretendere che l’autore debba (e possa) essere anche solo conscio di qualsiasi utilizzo, qualsiasi alterazione, qualsiasi uso ed abuso del proprio codice; figuriamoci se uno sviluppatore, per poter legittimamente dichiarare il proprio software “open source”, dovesse non solo fornire delle garanzie universali ma essere pure certificato e vidimato.

Viceversa, credo che la definizione in sé debba essere limitata alla sostanza propria: quattro libertà, e fine. Affinché tutti possano pubblicare quel che vogliono, senza lacci e lacciuoli, e continuare ad innovare senza chiedere il permesso a nessuno. E sia poi onere di chi sceglie di usare tali componenti in un contesto formale (ad esempio: quello commerciale) verificarne la conformità con le leggi vigenti. O, magari, adoperarsi per ottenere tale conformità, tramite contributi al codice o – più prosaicamente – finanziando lo sviluppo. E continuando a condividere lo sforzo del mantenimento con gli altri fornitori, finalizzato a conservare un reciproco vantaggio, come del resto ha sempre funzionato il modello in sé.

Può forse esistere il remoto rischio di una stretta legislativa sul modello open, che porti a dubbi e incertezze sulle sue dinamiche e possa minare la base del suo funzionamento ed incepparne alcuni meccanismi. Ma la sua istituzionalizzazione coatta, dettata da una visione esclusivamente economicistica dello stesso (quella per cui l’unica porzione dell’eterogeneo mondo open che conta è appunto quella di rilevanza commerciale e industriale, con tutti i relativi annessi legali), equivarrebbe alla certezza della sua fine. Perché non tutti i suddetti progetti di rilevanza industriale nascono a priori con questo fine, non tutto il codice libero viene pubblicato in prima istanza con l’obiettivo esplicito di essere integrato in soluzioni professionali da parte di terzi, e se davvero queste fossero condizioni sine qua non per poter pubblicare software lecitamente “open source” – ovvero: se, oltre alle già diffuse perplessità nel “regalare” il proprio codice, si sommasse pure l’obbligo di accollarsi oneri burocratici e legali – davvero dubito che qualcuno si prenderebbe ancora la briga di aprire un qualsiasi nuovo repository su GitHub. Azzerando quello che è uno dei massimi vantaggi competitivi del caotico modello aperto: la capacità di innovare – per dirla con le parole di Torvalds – “just for fun”.


Il Nome della Rosa

25 febbraio 2024

La narrazione post-opensource emersa nel recente passato ha – a suo modo – tentato di sollecitare una “evoluzione” del modello open source stesso, che (sulla carta) potesse far convivere la trasparenza del codice con una presunta garanzia di sostenibilità economica. Idea poi formalizzata in una variegata serie di licenze software di ispirazione classica (GPL in primis) ma tutte sistematicamente epurate dall’odiata Libertà 0. Per i profani: quella che permette a chiunque, non solo all’autore, di trarre profitto economico dal codice stesso. E sebbene l’intero sistema dialettico sia stato innescato e sia sempre stato corroborato da una forte e spesso scomposta contestazione del modello capitalistico, opprimente sfruttatore dell’altrui lavoro erogato volontariamente in modo gratuito (…), è curioso notare come esso abbia invece gemmato e concimato nuove forme di acrobazie comunicative da parte dei più raffinati esponenti del capitale stesso.

Il primo esempio interessante è quello di HashiCorp, azienda rea di aver cambiato da un giorno all’altro la licenza di Terraform – popolare strumento di automazione dei processi cloud – rendendolo un prodotto proprietario. Il CEO Dave McJannet, intervistato dopo l’annuncio del fork promosso da Linux Foundation inteso a preservare l’originario progetto libero e aperto, reagì sdegnato invocando “the realisation that the open source model has to evolve“. Una posizione piuttosto diversa rispetto a quella espressa dai suoi omologhi in circostanze analoghe (rispetto ai quali ha comunque dimostrato maggiore onestà intellettuale, adducendo come motivo del cambio di rotta non presunte ed infondate perdite economiche ma un diretto interesse degli investitori), in quanto non esprime biasimo per i sedicenti vincoli propri dell’open source ma arriva a proporre una diversa concezione del modello open source stesso. O, almeno, un diverso significato comunemente applicato a questo termine.

Come, mesi dopo, ha suo malgrado spiegato con maggiori dettagli Scott Chacon, CEO di GitButler, nell’accrocchiare su TwiXter giustificazioni sul fatto che la piattaforma da esso rappresentata era appena stata rilasciata con una licenza “diversamente open source” che proibisce l’utilizzo commerciale della stessa. Ed esplicitamente ha scritto che, stando al suo punto di vista, per tutti (?!) “open source” vuol letteralmente dire “public on GitHub“, e per evitare incomprensioni (??!!) questo unico significato dovrebbe essere quello comunemente in uso – ignorando qualsiasi altra definizione che Open Source Initiative pretenderebbe di dare senza averne diritto alcuno (???!!!).

McJannet in modo più sobrio, e Chacon in modo più pirotecnico, nelle loro rispettive posizioni di direttori di startup finanziate da venture capital a caccia di profitti e rendite, non dicono essenzialmente nulla di diverso rispetto al movimento etico e moral(izzator)e citato in apertura: in funzione del diritto di sfruttamento economico (che è sinonimo talvolta di “profitti” e talvolta di “sostenibilità”, a misura del proponente), il codice è pubblicamente consultabile e persino in qualche misura utilizzabile ma nulla di più. Guardare ma non toccare. Ma McJannet e Chacon, nelle loro rispettive posizioni di direttori di startup che fanno del marketing – ancor prima della tecnologia – la loro propria ragion d’essere, stanno ben attenti a non compiere il medesimo errore dei circoli para-filosofici di cui sopra, e preferiscono veicolare il proprio messaggio non tentando di radicare nuove mitologie e nuove ontologie ma sfruttando quelle che già esistono. Mirando a inculcare un nuovo valore ad una parola che già tutti conoscono.

Sarebbe stato troppo ingenuo dichiarare, in modo semplice e chiaro, “Da oggi il nostro prodotto è Source Available“, termine già coniato, già conosciuto e che già indica esattamente e precisamente la condizione desiderata. Perché rinunciare all’opportunità di presentarsi come “soluzione open source” è un danno, uno svantaggio, un ostacolo. Ed i detrattori lo sanno. Il “brand open source” è amato ed apprezzato dal pubblico in quanto ispiratore di fiducia, in virtù del carico di implicazioni – tutte positive, almeno per gli utenti ed ancor più per i clienti – che porta con sé, dunque poterlo ostentare sulla propria homepage permette di godere di quella stessa fiducia che è stata costruita da altri. Anziché correre il rischio di perdere tale universalmente riconosciuto marchio di qualità – auto-assegnato per auto-certificazione – tanto vale buttarla in caciara e sperare che qualcuno ci creda per davvero. I puristi storceranno il naso, ma gli investitori che approvano i finanziamenti ed i manager che firmano i contratti d’acquisto non noteranno la differenza.

Purtroppo non siamo dotati di ferri roventi digitali con cui vistosamente marchiare a fuoco gli impostori sulla pubblica gogna dell’internet. Ed è certo che episodi analoghi continueranno a proliferare, in mancanza di argini che possano contenerli. Ma val la pena pensarci, e non prestare il fianco più di quanto strettamente necessario ed ineluttabile. Affinché il termine “open source” non diventi una vana buzzword con cui decorare le brochure.

Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus.


L’Anno Nuovo

12 febbraio 2024

Un altro anno al FOSDEM di Bruxelles, un altro post di commento e sintesi della maggiore conferenza europea dedicata al software libero e open source.

Ahimé, ho incrociato molti meno amici italiani del solito. Non perché non fossero presenti, ma probabilmente perché ho frequentato meno le aree dedicate agli stand (presso cui molti dei suddetti sono impegnati, contrariamente a me che al FOSDEM sono un mero turista), e – rispetto alla media – ho seguito un numero maggiore di talk. Con i classici alti e bassi che caratterizzano il vasto, e per questo eterogeneo, programma della manifestazione.

Il necessario intervento sullo stato del vituperato Cyber Resilience Act – la norma europea rivolta alla cyber sicurezza, che nel corso dello scorso anno ha suscitato scalpore e panico in virtù della sua drastica definizione sulla responsabilità legale del software, incompatibile col modello collaborativo che tutti noi amiamo – è stato utile per sedare gli animi e anticipare le numerose eccezioni che sono state appositamente introdotte nel testo (qui l’ultima versione disponibile al momento) per annullare o almeno minimizzare l’impatto di questa direttiva sulle dinamiche proprie dello sviluppo open. Per quanto qualcuno consideri ancora imperfetto tale testo – del resto la politica è fatta di compromessi, ed è oggettivamente impossibile fare sempre contenti tutti – personalmente considero questa intera vicenda un traguardo, sia per il ruolo di lobby esercitato dal Movimento Open nel suo complesso (che, a dispetto del sentore comune, trova tra i suoi rappresentanti non solo developers scappati di casa ma anche soggetti organizzati e strutturati che tutelano interessi economici, politici e sociali comuni), sia per l’ennesimo riconoscimento istituzionale nei confronti della realtà del modello open source, che pur non aderendo ai canoni classici della produzione industriale detiene oramai un peso che non può essere ignorato in sede di regolamentazione e necessita di sue proprie specifiche.

Un po’ per caso ho assistito a questo talk, all’apparenza banale ma di cui ho apprezzato l’intento di introdurre una narrazione meno romantica e più pragmatica del cosiddetto “cloud”: non già una tecnologia, e dunque un progresso ed una innovazione, bensì un modello commerciale fondato sull’affitto a breve termine delle risorse digitali. Poche parole, chiare ed asciutte, sufficienti a ridimensionare il fenomeno tecnologico dell’ultimo decennio alla sua effettiva essenza: talvolta può essere utile, talvolta no, certamente non va adottato ciecamente sulla base di una necessaria, inevitabile ed ineluttabile “modernità”. Chi legge con una certa frequenza questo mio blog dovrebbe aver assimilato il fatto che le parole sono importanti.

Sono stato piacevolmente sorpreso nel trovare una devroom interamente dedicata al mondo delle mail, uno strumento che nel 2024 viene spesso ignorato in favore di più moderne piattaforme e più avvincenti protocolli di comunicazione ma che, volenti o nolenti, resta un canale universale, l’unico che riesce a raggiungere tutti e l’unico genuinamente “federato”. Come è stato detto da uno dei relatori “Email is your personal API”, e a tal proposito sono lieto che il tema dei dati strutturati nelle mail sia attivamente sviluppato al fine di elevare il potenziale e l’integrazione di tale strumento per estrapolarne la incredibile mole di informazioni personali che vi transitano.

Deliberatamente ho evitato i talk a proposito di Artificial Intelligence – tema che francamente mi scalda poco, mancando i casi d’uso reali che vadano oltre il ludico – e ho saltato i seppur numerosi talk sulla sostenibilità economica dell’open source – argomento giustamente reiterato, ma che raramente viene oramai affrontato in un modo che non sia scontato. L’eccezione che mi sento di nominare è questo intervento relativo al rapporto tra la community Drupal ed il mercato enterprise, che fornisce qualche spunto interessante.

Una nota negativa: ho avuto l’impressione che quest’anno ci fossero meno volontari coinvolti nella complessa macchina logistica del FOSDEM. Sono incappato in diverse devroom senza assistenti e presentatori, ho visto circolare meno “magliette gialle” (che identificano appunto lo staff), e tra i suddetti amici italiani impegnati presso gli stand promozionali almeno uno ha segnalato una minore presenza di aiutanti e supervisori che dessero una mano a tenere tutto in ordine. Potrebbe essere solo una suggestione – del resto, dall’apposita pagina web si evince che quasi tutti i ruoli sono stati coperti con successo – oppure una sbavatura organizzativa, ma ci presterò maggiore attenzione il prossimo anno.

Da qualche anno, con l’amico che mi accompagna ogni anno, scherziamo sul fatto che il FOSDEM rappresenta il reale inizio dell’anno, differito di un mese rispetto al calendario comune. Perché è in questa sede che formuliamo i buoni propositi per i mesi successivi, in termini di progetti da realizzare, strumenti da adottare, collaborazioni da perpetrare, argomenti da approfondire. E anche in questa occasione sono tornato a casa con molti spunti, qualche idea, diverse speranze, ed il pieno di buona volontà.


Compagno Tux

13 gennaio 2024

Questo articolo, trovato tempo fa scorrendo pigramente la timeline di un social network, mi ha rammentato un pensiero sorto oramai anni addietro: alla comunità linuxara manca una coscienza di classe.

Tale pensiero è emerso dopo l’ennesima conversazione con l’ennesimo rampante attivista linuxaro, uno di quelli inflessibili nei confronti dell’utilizzo esclusivo di Linux e del software libero da parte delle masse (e delle scuole, e delle pubbliche amministrazioni…), che lanciando i suoi strali ai danni di Microsoft, Google o del Governo miope e colluso pronunciò la magica frase “Poi sì, io Windows lo uso, ma solo perché devo per lavoro. Sai: l’ufficio, la famiglia, i figli…”. Non so dire dove e quando suddetta conversazione avvenne, perché di analoghe ne ho avute a dozzine: fiumi di linuxari intransigenti di notte e nei weekend, e operatori al servizio del software proprietario (e molto spesso proprio dei BigTech, in modo più o meno diretto) dalle 9 alle 18. Ma ricordo che proprio quella specifica occasione mi portò a prendere atto del triste stato delle cose: a prescindere da valori e principi, risorse e competenze vanno comunque altrove.

Cosa non da poco. Perché proprio la disponibilità di risorse e competenze consolidano i monopoli, ed anzi sono la ragione stessa dell’esistenza dei monopoli. E, viceversa, la scarsità – o comunque il difficile reperimento – di risorse e competenze in ambito Linux rallentano ed ostacolano l’adozione e la diffusione, magari proprio presso quelle stesse masse (e quelle scuole, e quelle pubbliche amministrazioni…) che vorrebbero compiere qualche passo in quella direzione ma non sanno a chi rivolgersi e finiscono dunque col dover rinunciare.

In cosa dovrebbe consistere questa “coscienza di classe linuxara”? Nell’adottare anche sul proprio posto di lavoro quelle attitudini che abitualmente si manifestano sulle mailing list, sui canali Telegram, e in altri ricettacoli di smanettoni. Senza necessariamente essere oltranzisti (del resto: si parla del proprio lavoro, mica di quello di qualcun altro…) ma mettendoci almeno un poco di buona volontà.

La forma più ovvia e scontata è quella di promuovere una esplicita adozione di soluzioni open source nel proprio ufficio, cosa che spesso fallisce se ci si rivolge direttamente al management – molti dirigenti vivono in quella dimensione parallela in cui “Microsoft” è sinonimo di “professionalità”, convinzione basata su una fede di carattere religioso e pertanto difficile da confutare – ma che talvolta attecchisce quando si coinvolgono i colleghi – spesso più aperti nel provare qualcosa di nuovo, essendo implicitamente percepito come stimolante – o si reitera il messaggio per un numero sufficiente di volte.

Aneddoto motivazionale. Molti anni fa facevo il programmatore in una azienda le cui procedure interne non erano particolarmente sofisticate ed in cui il codice veniva scambiato tra i colleghi su chiavette USB, con tutti i grattacapi che si possono facilmente immaginare in caso di modifiche concorrenti sugli stessi file. Il sistemista dell’azienda – che fungeva anche da oracolo per tutte le questioni tecnologiche – era un fan-boy Microsoft (e, conseguentemente, un detrattore dell’open source), e percependo che era giunta l’ora di adottare una soluzione un tantino più evoluta di code sharing si rivolse a me – all’epoca, il dipendente più giovane e pertanto il più flessibile nei confronti dei cambiamenti – per indurmi ad iniziare a usare Perforce, ovvero quel che al tempo era una sorta di distribuzione commerciale e proprietaria di SVN il cui client esisteva solo per Windows. Alché io – già all’epoca convinto adepto della setta linuxara, allibito all’idea di dover lavorare su un PC Windows – ho recuperato un vecchio computer desktop non più utilizzato, ci ho installato sopra Debian e FusionForge (un antesignano di GitLab), con la maliziosa complicità di un paio di colleghi anziani l’ho piazzato in uno sgabuzzino, ed ho iniziato a committare lì la mia roba, istruendo man mano tutti gli altri all’utilizzo dell’issue tracker integrato (più ordinato ed efficiente dei pizzini di carta su cui mi avevano annotato bug e segnalazioni fino a quel momento) e poi all’utilizzo stesso di SVN per scambiarsi le loro proprie modifiche. Un anno dopo, quello nello sgabuzzino era per tutti (dirigenti aziendali compresi) il server ufficiale per la condivisione del codice interno, nessuno parlò mai più di Perforce, sulla mia postazione di lavoro continuavo ad adoperare solo Linux, ed il sistemista mi aveva tolto il saluto.

Dopodiché esistono diverse altre accortezze che sarebbero opportune. Come evitare di favorire la ricerca di nuovo personale da parte di chi assume sistemisti Windows e programmatori .NET, ed evitare di far circolare tali appelli tra le proprie conoscenze. E prendere atto del fatto che se si manda un giovanotto alla prima esperienza a configurare le stampanti nelle LAN ActiveDirectory aziendali o a mantenere i vecchi gestionali contabili in C# dei clienti non solo non gli si sta facendo un gran favore, né personale né professionale, ma si stanno attivamente e deliberatamente sottraendo risorse e competenze alla Causa di cui sopra. Persino ci si può spingere a veicolare all’interno della propria azienda il proposito di sostenere economicamente i progetti open source che vengono utilizzati per le attività professionali, alla luce del fatto che qualsiasi azienda – pure la meno linuxara dal mondo – qualche strumento open source, suo malgrado, lo adopera.

Certo non si può ignorare il fatto che chi ha famiglia e figli a carico possa avere delle giuste e lecite remore nel lasciare il proprio posto fisso per andare a consultare i (pure abbondanti) annunci di lavoro per sistemisti Linux o programmatori web/IoT, ed andare ad incorrere volontariamente in tutte le incertezze di una nuova e differente occupazione. Ma – nel momento in cui ci si accolla la responsabilità di farsi portavoce della Causa Freesoftware – qualche accortezza bisognerebbe pur prenderla. Almeno, non una di più e non una di meno rispetto a quelle che così calorosamente si pretendono nei confronti delle masse (e degli operatori nelle scuole, e nelle pubbliche amministrazioni…).

Linuxari di tutto il mondo, unitevi.


Uno Per Cento (2023)

31 dicembre 2023

Anno nuovo, abitudini vecchie: anche questa serata d’inverno l’ho dedicata alla distribuzione dell’1% del mio fatturato annuo ai progetti liberi e open source che ho adoperato nello svolgimento del mio mestiere di sviluppatore software freelance, per il settimo anno consecutivo. La premessa è che – come si evince dalla mia tabellina globale di riassunto – ho raggiunto la soglia dei 3000 euro distribuiti (euro più, euro meno: molti versamenti li ho fatti in dollari, che valgono un pochino meno della valuta che adoperiamo nel vecchio continente) e non rimpiango neppure un centesimo.

Anche questa volta, come la precedente, mi sono lasciato guidare in larga parte dagli output dei comandi “composer fund” e “npm fund” (rispettivamente i package manager d’elezione per PHP e JS, gli ambienti di sviluppo che mi trovo ad usare più frequentemente) per identificare e scegliere i progetti cui assegnare le rispettive quote, in particolare tra le mie involontarie eppur necessarie dipendenze. E stavolta mi sono pure ricordato di alcune mancanze passate…

Versamenti da 25 euro/dollari: progetti primari ed essenziali.

Versamenti da 10 euro/dollari: dipendenze primarie.

Versamenti da 5 euro: dipendenze indirette e supply chain.

Per la prima volta quest’anno ho usato lo strumento di “Bulk Sponsor” offerto da GitHub per fare in un colpo solo gran parte dei miei versamenti: con questo, gran parte dell’operazione si risolve con un copia e incolla dal terminale (con gli output dei sopra citati comandi “fund”), una riformattata al testo, e l’upload di un semplice CSV. Anche se, lo confesso, laddove possibile preferisco usare OpenCollective (che almeno non trattiene implicitamente ulteriori commissioni rispetto alla transazione bancaria).

Cosiccome anche quest’anno ho preferito snobbare la pur comoda pagina GitHub che automaticamente enumera i repository che accettano donazioni e risultano essere dipendenze dei propri progetti ivi pubblicati: un po’ perché buona parte di quel che faccio per lavoro non è su GitHub (bensì in repository privati su GitLab…), un po’ perché preferisco premiare gli sviluppatori che usano gli strumenti nativi dei rispettivi package manager (sempre i suddetti comandi “fund”) anziché dipendere in modo così totale ed esclusivo del – letteralmente – tentacolare octocat.

A costo di risultare pedante e noioso, colgo nuovamente l’occasione per raccomandare a tutti i miei colleghi developers di chiudere l’anno (o iniziare quello nuovo) facendo due conti e distribuendo a loro volta una parte del proprio fatturato annuo ai componenti open source che hanno adoperato nel corso dell’anno, come suggerito da Italian Linux Society. Non per stucchevole generosità e traboccante bontà d’animo, ma perché l’open source non è una alternativa e se non ci fosse probabilmente voi stareste facendo un altro mestiere.


Al Limite dell’Infinito

9 ottobre 2023

Più o meno nello stesso momento in cui scrivevo che l’open source domina su pressoché ogni settore tecnologico, Stefano Maffulli – direttore di Open Source Initiative – si batteva il petto perché il medesimo movimento open source non è riuscito a cavalcare le due maggiori rivoluzioni digitali dell’ultimo decennio: il cloud ed il mobile.

La premessa è che il blog post sopra linkato ha l’intento primario di spiegare, contestualizzare e promuovere la campagna intrapresa da OSI per dare una definizione di “open source” nell’ambito di quella che è la terza rivoluzione digitale del decennio, la cosiddetta Artificial Intelligence, ma credo che valga la pena sviscerare un poco le posizioni espresse. Per smontare la tesi, e arrivare al punto.

Innanzitutto: quando parliamo di open source, stiamo parlando di software. Ovvero di un bene riproducibile all’infinito, a costo zero. E che pertanto può essere distribuito a tutti, senza oneri, per facilitarne l’adozione, accelerarne l’integrazione e – in ultima istanza – permettere la partecipazione attiva ed il miglioramento collettivo. Il successo sta essenzialmente tutto qui: nell’implementare un modello produttivo e industriale applicabile al mondo digitale, in cui non esistono materie prime, risorse, macchinari, operai o logistica, e dove pertanto non possono essere applicate le dinamiche canoniche di scarsità, approvvigionamento, economia di scala, capitalizzazione, surplus, e tutto quello che normalmente descrive dal punto di vista economico la produzione delle mele, dei tavoli, degli aerei o di qualsiasi altro prodotto.

Quando parliamo di cloud e mobile, stiamo invece parlando di oggetti fisici. “Il cloud” è, come tutti sappiamo, “il computer di qualcun altro”, ed in quanto computer deve non solo essere costruito ma anche piazzato da qualche parte, continuamente alimentato con energia elettrica e connesso all’internet. “Il mobile” è una categoria di dispositivi embedded, ovvero primariamente agglomerati di componenti elettronici su cui incidentalmente è installato del software. Volenti o nolenti entrambi i contesti appartengono alla sfera dell’economia classica, in cui delle risorse (silicio, rame, alluminio: disponibili in quantità finita, dunque scarsi, dunque costosi) devono essere consumate per ogni singola unità prodotta o erogata. E ben difficilmente tali risorse – o meglio: l’onere richiesto per allocare queste risorse – può essere condiviso e distribuito.

Come dovrebbe essere fatto il “cloud open source”? Forse dovrebbe esistere una rete di server federati che espongono funzioni infrastrutturali comuni, che possano essere sfruttate liberamente da tutti? Esistono diversi esperimenti in tal senso, ma tutti di modesta diffusione proprio perché inevitabilmente basati sul presupposto che qualcuno si sobbarchi, volontariamente e spontaneamente, i costi operativi (storage, banda, computazione…) di tutti gli altri. E come dovrebbe essere formulato il “mobile open source”? Già esistono diverse alternative libere ai canonici Android e iOS, ma alla luce del fatto che queste richiedono un attivo e tutt’altro che banale impegno da parte degli utenti anche solo per essere installate non credo siano destinate ad andare molto più lontano di quanto Linux sia andato sul desktop; d’altro canto proprio la frammentazione delle piattaforme mobili ha creato l’esigenza di semplificare lo sviluppo delle applicazioni, ed anche qui le soluzioni open source sono, di fatto, l’unica opzione solida per un intero ramo dell’industria IT.

E come la mettiamo con la AI? Questa è una bella domanda, e sono lieto che OSI se la sia posta. Quando parliamo di AI ci riferiamo essenzialmente ad algoritmi (e dunque software, e dunque bla bla bla quello che ho scritto sopra) e – soprattutto? – a modelli dati, che a loro volta sono assets digitali duplicabili all’infinito. I quali hanno però un processo di genesi ben diverso rispetto al software: sono elaborazioni di dati e informazioni (immagini, testi, suoni…) distribuiti con una propria licenza, che può essere libera o meno (e determinano poi la licenza con cui il modello stesso potrà e dovrà essere distribuito e utilizzato da altri), ed in molti casi necessitano di grandi risorse computazionali (finite, scarse, costose) per essere non solo generati ma anche modificati ed estesi. Il blob binario infine derivato potrà poi essere distribuito pubblicamente, ma non c’è nessun valore aggiunto, e dunque nessuna motivazione, nel farlo: laddove il cardine del modello di sviluppo open source sta nella pubblica partecipazione – il prerequisito della quale è l’accesso al codice, da cui deriva l’effetto collaterale della gratuità – un modello dati fatto e finito non può essere collaborativamente modificato e perfezionato, se non intervenendo sulla base di dati da cui è stato generato. Motivo per cui le fonti di dati liberi, e persino le iniziative community appositamente nate per raccogliere dati collettivi con l’esatto scopo di alimentare modelli AI, non mancano, ma sta poi al singolo dispiegare la potenza computazionale (finita, scarsa, costosa) richiesta per macinarli ed ottenerne l’effettivo artefatto da dare in pasto al proprio algoritmo. Non so anticipare quale sarà il risultato di OSI nel suo compito di dare una definizione di “intelligenza artificiale open source”, ma non dubito che persone più intelligenti di me prenderanno in considerazione questi fattori; il rischio contrario è quello di partorire una versione ideologica, utopica, e pertanto inapplicabile e non credibile.

Inquadrando il fenomeno open source in una cornice economicista (materialista, e – diciamolo – persino un po’ marxista) diventa, a parer mio, più semplice determinarne il perimetro, prevederne le conseguenze, conoscerne i limiti, anticiparne i progressi. E comprendere dove è necessario, o semplicemente più conveniente, intervenire. L’open source descrive l’infinito, e l’infinito è il suo unico campo di applicazione; se è finito, non può essere open source.


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