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Diffamazione (ordinamento italiano): differenze tra le versioni

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Pertanto, se i militari appartenenti alla Guardia di finanza di San Miniato dovevano procedere in modo inferenziale per deduzioni dal testo dello scritto per identificare la figura dell’offeso, non vi può essere certezza oltre ogni ragionevole dubbio che detto testo fosse idoneo a individuarlo.
Pertanto, se i militari appartenenti alla Guardia di finanza di San Miniato dovevano procedere in modo inferenziale per deduzioni dal testo dello scritto per identificare la figura dell’offeso, non vi può essere certezza oltre ogni ragionevole dubbio che detto testo fosse idoneo a individuarlo.



Considerato in diritto
Considerato in diritto



1. II ricorso, proposto per ragioni manifestamente infondate ovvero non consentite in sede di legittimità, deve essere dichiarato inammissibile.
1. II ricorso, proposto per ragioni manifestamente infondate ovvero non consentite in sede di legittimità, deve essere dichiarato inammissibile.

Versione delle 11:50, 11 ott 2019

Delitto di
Diffamazione
FonteCodice penale italiano
Libro II, Titolo XII, Capo II
Disposizioniart. 595
Competenza
Procedibilitàa querela
Arrestonon consentito
Fermonon consentito
Pena
  • (comma 1) reclusione fino a un anno o multa fino a 1 032 euro;
  • (comma 2) reclusione fino a 2 anni o multa fino a 2 065 euro;
  • (comma 3) reclusione da 6 mesi a 3 anni o multa non inferiore a 516 euro

La diffamazione, in diritto penale italiano, è il delitto previsto dall'art. 595 del codice penale italiano.

La disposizione

Secondo l'articolo:

«Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente, comunicando con più persone, offende l'altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a euro 1032.
Se l'offesa consiste nell'attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a euro 2065.
Se l'offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore ad euro 516.
Se l'offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate

Analisi

La norma, con un parziale rinvio al delitto di ingiuria previsto dall'articolo 594 del codice penale, punisce chi, comunicando con più persone, offende l'onore o il decoro di una persona non presente. Tre sono, dunque, gli elementi necessari perché si possa configurare il delitto in esame: l'offesa all'onore o al decoro di taluno, la comunicazione con più persone e, infine, l'assenza della persona offesa.

L'assenza del soggetto passivo si deduce dall'inciso fuori dei casi indicati nell'articolo precedente (che si riferisce all'ingiuria).

Per aversi comunicazione con più persone è necessario e sufficiente che la comunicazione avvenga con almeno due persone, tra le quali non vanno tuttavia compresi gli eventuali concorrenti nel reato. È opinione prevalente in dottrina che la comunicazione diffamatoria possa avvenire a soggetti diversi anche in tempi differenti, consumandosi in tal caso il reato nel momento della comunicazione alla seconda persona. Da cui si deduce che sussiste il reato di diffamazione quando sia esposto il fatto soggettivamente; allora è diffamazione.

Bene giuridico tutelato

La norma appresta tutela al bene giuridico dell'onore (ex Art. 517). Tale nozione, tradizionalmente, racchiude due aspetti complementari, l'uno soggettivo e l'altro oggettivo. In senso soggettivo l'onore è dunque il sentimento e l'idea che ciascuno ha di sé. In senso oggettivo, al contrario, l'onore va inteso come il rispetto e la stima di cui ciascuno gode presso il gruppo sociale. In questa seconda accezione si parla comunemente anche di reputazione.

Cause di giustificazione

Tra le cause di giustificazione comuni che si applicano generalmente alla diffamazione vi sono l'esercizio di un diritto e l'adempimento di un dovere (art. 51 codice penale).

Ai sensi dell'art. 596 del codice penale l'autore della diffamazione non è ammesso a provare la verità dei fatti (exceptio veritatis) se non in casi espressamente previsti.

La diffamazione a mezzo stampa

Nel caso la diffamazione avviene tramite un organo di informazione, questo aggrava il reato. La Diffamazione a mezzo stampa è disciplinata dagli artt. 595, 596, 596 bis, 597, 599 c.p.. Sebbene il codice prevede che "se l'offesa è recata col mezzo della stampa, o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni", con il termine generico "stampa" viene ricompreso anche ogni media soggetto alla legge n.69/1963 sulla stampa (art. 13)[1], e quindi anche i mezzi radiofonici, televisivi, ecc.

Inoltre le disposizioni si applicano anche al direttore responsabile, all'editore e allo stampatore (art. 596 bis), che ne rispondono in solido con l'autore della diffamazione[2].

Il diritto di cronaca e critica

In particolare, i diritti di cronaca e critica trovano fondamento nell'articolo 21 della Costituzione, che sancisce che Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. Per risolvere la presunta antinomia di norme fra l'articolo 21 della Costituzione e gli articoli 594 e 595 del codice penale (norme che tutelano anch'esse un bene di rango costituzionale quale l'onore, espressione della personalità umana tutelata dall'articolo 2 della stessa Costituzione) si fa generalmente riferimento alla nozione di limite del diritto.

In particolare, la giurisprudenza, con una lunga opera di interpretazione, ha elaborato dettagliatamente i limiti di operatività del diritto di cronaca; le condizioni, cioè, necessarie affinché il reato di diffamazione venga scriminato dalla causa di giustificazione in discorso. In sintesi, perché operi la scriminante, è necessario: a) che vi sia un interesse pubblico alla notizia; b) che i fatti narrati corrispondano a verità; c) che l'esposizione dei fatti sia corretta e serena, secondo il principio della continenza.

Per quel che concerne il diritto di critica, invece, definito come libertà di esprimere giudizi, valutazioni e opinioni, la dottrina e la giurisprudenza prevalente ricostruiscono le stesse condizioni adattandole alla peculiarità del caso. In particolare, sul requisito della verità, se la critica riguarda un fatto è necessario che soltanto quello sia vero, non potendosi pretendere ontologicamente la verità su opinioni e valutazioni. Viene, tuttavia, richiesto che la critica non si spinga sino ad arrivare all'offesa ed all'umiliazione pubblica dei propri avversari.[3]

La giurisprudenza ha inoltre specificato che per quanto riguarda in particolare la critica politica e sindacale il limite della continenza verbale sia da intendere in modo più ampio, purché la critica non si risolva in gratuiti attacchi personali.[4]

L'esimente della provocazione

Ai sensi dell'articolo 599 del codice penale, secondo comma:

Non è punibile chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti dagli artt. 594 e 595 nello stato d'ira determinato da un fatto ingiusto altrui, e subito dopo di esso.

Ciò configura la cosiddetta provocazione, comune sia all'ingiuria che alla diffamazione, che è variamente configurata dalla dottrina quale causa di esclusione della colpevolezza, ovvero causa di giustificazione o, infine, quale causa di non punibilità in senso stretto.

Lo stato d'ira e l'immediatezza della reazione ("subito dopo" il fatto ingiusto) vengono interpretate dalla giurisprudenza in senso relativo: vengono applicate infatti anche in casi di diffamazione a mezzo stampa, in cui l'immediatezza della reazione non sarebbe configurabile.[5]

Scritti diffamatori anonimi

In presenza di scritti diffamatori di cui resta ignoto il nome dell'autore, il direttore o il vicedirettore rispondono per colpa in omessa vigilanza (insieme ad eventuali giornalisti delegati), fatta salva la responsabilità dell'autore e fuori dai casi di concorso (art. 57 codice penale).
La responsabilità non può essere "ceduta" a terzi, i delegati eventuali rispondono in solido: in ogni caso, direttore e vicedirettore responsabile dovranno rispondere per gli scritti anonimi. La pena sarà ridotta di un terzo ed è comunque esclusa l'interdizione dalla professione di giornalista.

Con sentenza n. 23230 del 10 maggio 2012, la III Sez. Penale di Cassazione ha prosciolto con formula piena (perché il fatto non sussiste) un blogger, affermando che alle testate on-line non si applicano l'obbligo di registrarsi presso un tribunale e il reato di stampa clandestina.

In tal senso, il d.lgs. 70/2003 (che ha recepito la direttiva 2000/31/CE) ribadisce quanto già visto a proposito della L. 62/2001, ossia che “la registrazione della testata editoriale telematica è obbligatoria esclusivamente per le attività per le quali i prestatori del servizio intendano avvalersi delle provvidenze previste dalla legge 7 marzo 2001, n. 62.”

Con sentenza n. 1907/2010, La Cassazione penale ha stabilito che gli obblighi di vigilanza e controllo previsti dall'art. 57 non si applicano ai giornali on-line, in quanto la norma è risalente al 1958 e non è applicabile al fenomeno Internet, vale a dire che non può essere interpretata come fonte di disciplina di un fenomeno che ai tempi il legislatore non poteva neppure prevedere. Il direttore di una pubblicazione a stampa su Internet potrà rispondere di diffamazione solo se si pronuncia con consenso a favore della lettera o commento anonimi e diffamatori.

Con l'ordinanza n. 337 del 2011, la Corte Costituzionale ha rifiutato di estendere al proprietario e all'editore di un sito internet la responsabilità civile che la legge attribuisce a proprietari ed editori di pubblicazioni su carta stampata.

Elementi di differenziazione da figure simili

L'ingiuria differisce dalla diffamazione perché prevede la presenza della persona offesa. La calunnia, in un linguaggio giuridico, prevede invece una denuncia ad una pubblica autorità di qualcuno che si sa innocente. Nel linguaggio corrente con calunnia si intende invece ogni diffamazione che attribuisca falsamente la commissione di un fatto che costituisca reato.

Querela della persona offesa

La disciplina della querela da parte della persona offesa è disciplinata dall'articolo 597 c.p.

«I delitti preveduti dagli articoli 594 e 595 sono punibili a querela della persona offesa. Se la persona offesa e l'offensore hanno esercitato la facoltà indicata nel capoverso dell'articolo precedente, la querela si considera tacitamente rinunciata o rimessa. Se la persona offesa muore prima che sia decorso il termine per proporre la querela, o se si tratta di offesa alla memoria del defunto, possono proporre querela i prossimi congiunti, l'adottante e l'adottato. In tali casi, e altresì in quello in cui la persona offesa muoia dopo aver proposta la querela, la facoltà indicata nel capoverso dell'articolo precedente, spetta ai prossimi congiunti, all'adottante e all'adottato.»

Condizione di procedibilità

Nell'ordinamento giuridico italiano l'azione penale viene esercitata d'ufficio, salvo i casi in cui la legge esige la presentazione di una querela, che opera come condizione di procedibilità. Uno di questi casi sono i delitti contro l'onore, per i quali si procede a querela in considerazione del fatto che la risonanza data al reato dal processo (cosiddetto strepitus fori) può aggravare il pregiudizio per la persona offesa: si lascia pertanto alla volontà di quest'ultima la scelta di consentire il perseguimento del reato.

Modalità della proposizione

La querela (artt. 336-340 c.p.p.) è la dichiarazione con la quale una persona chiede che si proceda in ordine a un fatto previsto dalla legge come reato. Può essere presentata oralmente o per iscritto al pubblico ministero o ad un ufficiale di polizia giudiziaria non oltre il termine di tre mesi dal giorno della notizia del fatto che costituisce il reato (art. 124 c.p.). Il diritto di querela, in quanto disponibile, può essere oggetto di rinuncia (art. 339 c.p.p.) e remissione (art. 340 c.p.p.). La remissione per essere valida deve essere accettata dal querelato.

Particolarità nel caso di offese ricevute via Internet

A differenza di ciò che si verifica nel caso dei media tradizionali, Internet è una rete non soggetta ad un regime di controllo, motivo per cui si registrano molti più casi di reato di diffamazione rispetto a quanto avvenga nei media tradizionali.

Le principali problematiche che l'avvento della comunicazione globale ha introdotto, riguardano [6]:

  • la rapidità con cui circolano le informazioni
  • l'impossibilità di controllarne la provenienza e l'autorevolezza
  • la possibilità che queste informazioni si riproducano all'infinito rendendo di fatto impossibile la totale eliminazione di quelle errate e diffamatorie

La diffamazione via Internet utilizza la capacità di diffusione istantanea e su larga scala della rete per ledere l’immagine della persona offesa, danneggiandone la reputazione. Si tratta di un cd. crimine tradizionale portato a termine in chiave tecnologica, per il quale l’uso di strumenti informatici telematici è semplicemente funzionale al raggiungimento dello scopo prefissato.[7]

Il codice penale, all'art. 595, comma 3, considera aggravata la diffamazione consumata tramite internet.

Per le offese ricevute via Internet sono progressivamente emerse prassi particolari, tendenti a semplificare gli adempimenti e a ridurre i costi. In particolare è possibile spostare l'individuazione dei fatti utilizzando l'aiuto delle strutture pubbliche. Ha un uso esteso la presentazione della cosiddetta “querela contro ignoti da identificare” connessa con la notevole difficoltà di individuazione certa dell'autore delle offese. Tale modalità viene spesso usata anche in casi in cui la persona (pluralità di persone/struttura/organizzazione) da cui il querelante ci si senta offeso sia apparentemente identificabile.[8]

Negli anni successivi al 2000 sono comparse le prime sentenze in ordine alla diffamazione “online”. La prima in assoluto è la numero 112 del 30 gennaio 2002: il Tribunale di Teramo condannò per il reato di tentata diffamazione a mezzo stampa il titolare di un sito accusato di avere offeso la reputazione della banca Monte dei Paschi di Siena (sentenza confermata in appello e Cassazione penale, ma ribaltata in sede civile, con la Cassazione che, in diversa composizione, riteneva non sussistente la diffamazione.)

Successivamente, il tribunale di Aosta, nel 2006, equiparò il titolare del blog a un direttore responsabile. Nel dispositivo della sentenza si legge infatti: «[...] egli risponde ex art. 596 bis c.p., essendo la sua posizione identica a quella di un direttore responsabile. O, meglio, colui che gestisce il blog altro non è che il direttore responsabile dello stesso, pur se non viene formalmente utilizzata tale forma semantica per indicare la figura del gestore e proprietario di un sito Internet, su cui altri soggetti possano inserire intervenuti.»[9][10]

In tempi recenti, Internet ha visto spopolare i social network, primo fra tutti Facebook, andando a ricoprire il ruolo di strumenti di comunicazione maggiormente utilizzati.

La diffamazione è diventata un reato ricorrente e la giurisprudenza si è vista costretta ad intervenire. I social network non possono, infatti, essere considerati mezzi di informazione, pertanto, chi si dovesse trovare nelle condizione di insultare o discriminare altre persone, non può appellarsi, per discolparsi, al diritto di cronaca e di critica.

All'inizio la giurisprudenza, non cosciente di come funzionasse la comunicazione del mondo dei social e quanto quest'ultima fosse originale rispetto alle dinamiche tradizionali della rete, non si rese disponibile a riconoscere tale fattispecie di reato.

Alcune Corti ritenevano di poter escludere il reato di diffamazione, in quanto veniva a mancare uno degli elementi essenziali della comunicazione con più persone, requisito sostenuto dal sopra citato articolo 595 del Codice Penale. Il social network veniva infatti visto come un ambiente virtualmente chiuso e ristretto di comunicazione e interazione fra poche persone selezionate, rispetto alla moltitudine che popola il mondo della Rete.

La Cassazione, con la sentenza n. 12761 del 2014 ha ricondotto le ipotesi di diffamazione a mezzo social network, entro i confini della diffamazione aggravata perpetrata mediante l’utilizzo del mezzo di pubblicità. Chiarendo che la pubblicazione di una frase diffamatoria su di un profilo Facebook rende la stessa accessibile ad una moltitudine indeterminata di soggetti con la sola registrazione al social network e ciò anche con riguardo alle notizie riservate agli “amici”.

I presupposti per la diffamazione attraverso il mezzo Facebook sono [11]:

  • precisa individuabilità del destinatario delle manifestazioni ingiuriose
  • comunicazione con più persone alla luce del carattere pubblico dello spazio virtuale e la possibile sua incontrollata diffusione
  • coscienza e volontà di usare espressioni oggettivamente idonee a recare offesa al decoro, onore e reputazione del soggetto passivo

Una conferma dell'applicazione dei suddetti criteri di individuazione è rintracciabile nel caso di un maresciallo della Guardia di Finanza di San Miniato (Pisa), che ha etichettato un collega, che lo ha sostituito nell'incarico lavorativo, con degli epiteti poco gentili, pubblicando sul social network Facebook, tra i dati personali del proprio profilo, la frase “…attualmente defenestrato a causa dell’arrivo di collega sommamente raccomandato..." [12], alla quale seguivano una serie di insulti e minacce.

Il maresciallo, condannato in primo grado a tre mesi di reclusione militare per diffamazione pluriaggravata, è stato in un secondo momento assolto dalla Corte militare d'appello di Roma, in quanto le offese sul social network Facebook erano rivolte ad anonimi, dal momento che risultava impossibile riuscire a raggiungere il diretto interessato.

Il procuratore generale militare ha quindi impugnato la sentenza di secondo grado in Cassazione. Ricorso che la Suprema Corte ha ritenuto fondato, disponendo un nuovo processo d'appello.

La Cassazione ha confermato la «condanna a tre mesi di reclusione militare».[12]

Gli elementi decisivi per la scelta della Corte di Cassazione sono stati l'individuazione del destinatario della diffamazione, anche se quest'ultima limitata ad «un numero ristretto di persone, quali i militari della Compagnia» e l'utilizzo di «uno strumento comunicativo di generalizzata e spiccata attitudine ricettiva» rappresentato da Facebook.[12]

Il tutto è racchiuso all'interno della sentenza n. 49066 del 2015 della Corte di Cassazione. [12]

Termini temporali per l'esercizio del diritto di querela

Sul termine per l'esercizio agiscono due fattori: la data in cui la persona offesa viene a conoscenza dell'offesa stessa. Il termine è di tre mesi, la giurisprudenza interpreta questo termine in senso perentorio.

Prossimi congiunti

In caso di morte della persona offesa il diritto di querela o di rimettere la querela si trasferisce ai prossimi congiunti ovvero all'adottante o all'adottato.

L'espressione “prossimi congiunti” viene definita dall'Art. 307 del C.P. comma 4, come: «gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti: nondimeno, nella denominazione di prossimi congiunti, non si comprendono gli affini, allorché sia morto il coniuge e non vi sia prole». Ad essi si aggiungono l'adottante e l'adottato, ex Art 597 C.P. stesso. L'Art 199 C.P.P comma terzo: estende tali diritti al convivente more uxorio. La giurisprudenza è orientata ad estendere il concetto di prossimi congiunti alle persone coabitanti.

L'azione civile

Nel diritto italiano la tesi tradizionale vedeva la condanna penale come presupposto per una azione di risarcimento danni. La materia risulta profondamente innovata dopo che la Corte di Cassazione, prima sezione civile, con sentenza n. 5259 del 18 ottobre 1984, ha fissato il criterio, poi recepito unanimemente, per il quale chi sente leso il proprio onore può chiedere direttamente il risarcimento con un'azione davanti al giudice civile, senza necessità di una querela in sede penale. Può esserci un illecito civile che non sia anche penale, mentre un illecito penale comporta sempre anche una illiceità civile. La suprema corte, infine, ha indicato a coloro, come i giornalisti, che trattano i dati personali e sensibili, il corretto modus operandi. Per questo motivo la n. 5259 è stata soprannominata "sentenza decalogo".[13][14]

La Corte di Cassazione con ordinanza n. 6591 8 maggio 2002 ha stabilito che la competenza territoriale va individuata nel foro dove risiede la persona che si sente offesa dalle affermazioni contenute su pagine web.

Statistiche

La categoria che più di tutte subisce la denuncia per diffamazione è quella dei giornalisti. Un'indagine svolta dall'Ordine dei giornalisti della Lombardia ha rilevato che la maggior parte delle querele che si sono poi tradotte in rinvii a giudizio è stata presentata da magistrati. Relativamente al biennio 2001-2002, le cause giunte al Tribunale Civile di Milano sono state avviate nel 18% dei casi proprio dai magistrati; la percentuale sale al 45,6% se si fa riferimento ai procedimenti esaminati dalla Corte d'Appello. In media, il risarcimento danni chiesto dall'appellante è di circa 9 milioni di euro. Anche in sede penale, la categoria più querelante è quella dei magistrati.[15]

Delitti correlati

Note

  1. ^ Alla Corte Costituzionale la parola sul carcere per giornalisti, su primaonline.it. URL consultato il 15 aprile 2019.
  2. ^ http://www.odg.it/content/reati-attinenti-alla-professione
  3. ^ Tribunale di Piacenza
  4. ^ risarcimento-danni-per-diffamazione, su 101professionisti.it. URL consultato il 5 agosto 2009 (archiviato dall'url originale il 12 maggio 2009).
  5. ^ www.diritto-penale.it
  6. ^ Oggero Maria Eugenia, Diffamazione, diritto di libera manifestazione del pensiero, in Questione Giustizia, 2012, pag. 162.
  7. ^ Giovanni Ilarda e Gianfranco Marullo, Cybercrime: conferenza internazionale, Giuffrè Editore, Milano, 2004, pag. 137.
  8. ^ Si deve considerare il rischio di una querela contro Identità apparenti/fittizie, frutto di furto di identità, ecc, assai frequenti in Internet. La modalità di “querela contro ignoti da identificare” riduce tale rischio.
  9. ^ Tribunale di Aosta - Sentenza 553 del 26 maggio 2006 (Responsabilità del titolare del blog)
  10. ^ Diffamazione via blog: la sentenza integrale
  11. ^ legaldesk.it, https://legaldesk.it/blog/diffamazione-online.
  12. ^ a b c d Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 8 luglio – 11 dicembre 2015, n. 49066 Presidente Giordano – Relatore Tardio Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 21 febbraio 2012 il Tribunale militare di Roma ha dichiarato S.F. responsabile del reato di diffamazione pluriaggravata di cui agli artt. 227, commi 1 e 2, e 47 n. 2 cod. pen. mil. pace, perché, nella qualità di maresciallo capo della Guardia di finanza della compagnia di San Miniato, aveva pubblicato sul “social network facebook”, tra i dati personali dei proprio profilo, la frase “…attualmente defenestrato a causa dell’arrivo di collega sommamente raccomandato e leccaculo … ma me ne fotto … per vendetta appena ho due minuti gli trombo la moglie”, offendendo in tal modo la reputazione del maresciallo U.M., designato in sua sostituzione al comando della compagnia di San Miniato, e lo ha condannato, concesse le circostanze attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravati, alla pena di mesi tre di reclusione militare, con i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione nel certificato del casellario giudiziale, spedito a richiesta di privati, non per ragioni di diritto elettorale. 2. La Corte militare di appello con sentenza del 28 novembre 2012, in riforma della sentenza di primo grado, ha assolto l’imputato per insussistenza del fatto, rilevando che la univoca identificazione della persona offesa risultava possibile soltanto da parte di una ristretta cerchia di soggetti rispetto alla generalità degli utenti del “social network”, non avendo l’imputato indicato il nome dei suo successore e la funzione di comando in cui era stato sostituito, né fatto riferimenti cronologici, e rappresentando il difetto di prova che l’imputato avesse intenzionalmente comunicato con più persone in grado di individuare in modo univoco il destinatario delle espressioni diffamatorie utilizzate. 3. A seguito del ricorso del Procuratore generale presso la Corte militare di appello, questa Corte, con sentenza del 6 marzo 2013, ha annullato la sentenza impugnata, con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della stessa Corte militare di appello. 3.1. Si è, in particolare, ritenuto contraddittorio il discorso giustificativo della decisione perché, da un lato, la Corte di appello, che aveva dato atto che l’imputato non si era limitato ad attribuire al suo successore le qualifiche obiettivamente negative di “raccomandato” e “leccaculo”, avendo collegato tali qualità negative alla successione del predetto militare nella funzione di comando in precedenza ricoperta dall’imputato, aveva ritenuto che questi, sia pure implicitamente, aveva correlato univocamente il subentro del successore a un fatto concreto e, quindi, determinato, e aveva anche affermato la sussistenza dall’aggravante dell’utilizzo dei mezzo di pubblicità, correlata all’ampia accessibilità della frase contestata sul profilo del “social network facebook”, e, dall’altro lato, la stessa Corte aveva sostenuto che la individuazione univoca dei militare tacciato di essere “raccomandato e leccaculo” fosse possibile soltanto da parte dei militari appartenenti alla compagnia della Guardia di finanza di San Miniato, e quindi di una ristretta cerchia di soggetti rispetto alla generalità degli utenti del “social network”. L’affermazione, pure contenuta in sentenza, che l’imputato non aveva indicato il nome del suo successore e la funzione di comando in cui era stato sostituito, né fatto riferimenti cronologici, contrastava con l’avverbio, usato nella frase, “attualmente”, riferentesi all’evidenza al presente, e con la qualificazione di “collega” collegata al termine “defenestrazione”. 3.2. Né era richiesto, ai fini della integrazione del reato di diffamazione, il dolo specifico, essendo, invece, sufficienti la consapevolezza di pronunciare una frase lesiva dell’altrui reputazione e la volontà che la frase venisse a conoscenza di più persone, anche soltanto due, e dovendo, pertanto, tenersi conto della utilizzazione del “social network’, evidenziato anche dalla Corte di appello, senza che potesse rilevare che lo stesso non fosse utilizzato per contatti istituzionali tra appartenenti alla Guardia di finanza e che la frase fosse stata letta in concreto soltanto da una persona. 4. Con sentenza dell’8 luglio 2014, resa all’esito del giudizio di rinvio, la Corte militare di appello ha confermato la sentenza di primo grado, rilevando -a ragione della decisione e in osservanza della regola di giudizio fissata dalla sentenza di legittimità- che: – era indubbio che l’imputato fosse autore dello scritto, che aveva inserito nel sito “facebook”; – non era dubitabile anche il carattere oggettivamente e gravemente ingiurioso e provocatorio delle espressioni sgradevolmente volgari; – lo scritto, l’inserimento e il contenuto offensivo erano ascrivibili alla libera consapevole volontà del suo autore; – le espressioni usate, in coerenza con i condivisi parametri per la individuabilità dell’offeso, erano “vestite”, perché erano idonee a consentire la individuazione del destinatario sia pure a un ristretto cerchio di persone, avendo l’imputato precisato che si trattava di un collega, “temporalizzato” la circostanza, motivato le ragioni del suo risentimento e “personalizzato” il collega, che era ammogliato; – almeno i militari in servizio presso la caserma di San Miniato potevano individuare nel maresciallo U. il bersaglio dello scritto “postato”; – l’inserimento dello scritto nel sito web dimostrava la volontà di scegliere un mezzo di generalizzata attitudine ricettiva. 5. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione, per mezzo dei suoi difensori avv.ti L.C. ed E.B., l’imputato che, premesso il richiamo alla vicenda processuale, ne chiede l’annullamento sulla base di unico motivo, con il quale denuncia, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in relazione agli artt. 227 cod. pen. mil. pace, 530 e 533 cod. proc. pen. 5.1. Secondo il ricorrente, la motivazione con la quale la Corte del rinvio ha confermato la sentenza di primo grado è solo apparente, essendo la pedissequa e acritica riproposizione delle doglianze del Procuratore generale militare, astratta dalle risultanze dibattimentali di primo grado e dal necessario vaglio critico comparativo tra il contenuto della sentenza impugnata, dei motivi di appello e delle prospettazioni difensive. Non è, infatti, elemento individualizzante, ad avviso del ricorrente, l’uso del termine “co/lega”, poiché egli nella sua lunga carriera è stato più volte avvicendato negli incarichi rivestiti da altri sottoufficiali della Guardia di finanza; né temporalizza la circostanza causativa del suo malanimo l’uso dell’avverbio “attua/mente”, essendo il suo inserimento sul “social network” assolutamente decontestualizzato da un tempo preciso; anche il riferimento alla sua avvenuta defenestrazione mentre è indicativo della ragione del suo risentimento non individua alcuno né uno specifico avvicendamento; è mera invenzione di circostanze fattuali l’affermazione che il destinatario dello scritto fosse ammogliato. 5.2. Né la Corte militare di appello, che ha inserito nella sentenza fatti e circostanze non presenti nell’incarto procedimentale, ha tenuto conto di dati, fatti e circostanze presenti e rilevanti, quali la circostanza che i testi m.lli T., F. e C. avevano dichiarato di non essere in grado di collegare le frasi contestate all’imputato o alla persona offesa. Pertanto, se i militari appartenenti alla Guardia di finanza di San Miniato dovevano procedere in modo inferenziale per deduzioni dal testo dello scritto per identificare la figura dell’offeso, non vi può essere certezza oltre ogni ragionevole dubbio che detto testo fosse idoneo a individuarlo. Considerato in diritto 1. II ricorso, proposto per ragioni manifestamente infondate ovvero non consentite in sede di legittimità, deve essere dichiarato inammissibile. 2. È consolidato il principio di diritto che, in base al combinato disposto degli artt. 627, comma 3, cod. proc. pen. e 173, comma 2, disp. att. cod. proc. pen., l’annullamento pronunciato da questa Corte pone a carico dei giudice di rinvio uno specifico vincolo decisorio servente, che si estende a tutte le questioni -sia di rito che di merito- decise con la sentenza di annullamento e comporta l’obbligo per il giudice di rinvio -quando l’annullamento è stato determinato per vizio di motivazione- di muoversi secondo lo schema logico delineato dalla stessa sentenza. Al giudice del rinvio, pertanto, è attribuito potere decisorio solo sui punti che hanno formato oggetto dell’annullamento e su quelli ai primi inscindibilmente connessi, per la necessaria interdipendenza logico-giuridica fra le diverse statuizioni, ma non sulle parti non annullate e su quelle non in connessione essenziale con le parti annullate; per conseguenza, è consentita l’impugnazione della sentenza del giudice di rinvio soltanto in relazione ai punti annullati ed a quelli in rapporto di connessione essenziale con essi, ovvero per inosservanza dell’obbligo di uniformarsi alla sentenza di annullamento per ciò che concerne tutte le questioni di diritto con essa decise (tra le altre, Sez. U, n. 373 dei 23/11/1990, dep. 16/01/1991, Agnese, Rv. 186164; Sez. 2, n. 41461 del 06/10/2004, dep. 25/10/2004, Guarneri, Rv. 230578; Sez. 5, n. 41085 dei 03/07/2009, dep. 26/10/2009, L., Rv. 245389; Sez. 4, n. 52672 del 02/10/2014, dep. 18/12/2014, Fornaro, Rv. 261944). 3. La Corte militare di appello, in coerenza -quale giudice del rinvio- con l’oggetto e i limiti del disposto annullamento della pregressa sentenza del 28 novembre 2012 della stessa Corte, che aveva assolto l’imputato dal reato ascrittogli di diffamazione pluriaggravata ascrittogli per insussistenza del fatto: – ha rappresentato, previo analitico esame dei punti della motivazione della decisione annullata e delle ragioni dei disposto annullamento (sintetizzate, rispettivamente, sub 2 e sub 3 e relativi sottoparagrafi dei `ritenuto in fatto”), che, posti la certa attribuibilità dello scritto e dei suo inserimento nel sito “face book” all’imputato, dallo stesso ammessa, e l’altrettanto certo carattere ingiurioso e provocatorio delle espressioni usate, lo scritto, il suo inserimento nel profilo dell’indicato “socia/ network” e il contenuto offensivo andavano ricondotti, sul piano soggettivo, già ricostruito nella sentenza di annullamento in termini di dolo generico, alla libera consapevole volontà dello stesso imputato, il condizionamento della cui autodeterminazione non era stato oggetto di allegazione e di prova e la cui esplicazione era avvenuta attraverso il ricorso a uno strumento comunicativo di generalizzata e spiccata attitudine ricettiva; – ha rimarcato che, posti i condivisi parametri (negativo e positivo) di verifica del requisito della individuabilità dell’offeso, le espressioni, utilizzate e inserite nel detto profilo, erano tali da consentire la individuazione del loro destinatario per essere “vestite” da riferimenti soggettivi ( “collega”), temporali (“attualmente”), motivazionali (incorsa “defenestrazione” per “l’arrivo del collega”), personali (stato coniugale); – ha sottolineato, infine, che era sufficiente che tale individuazione, riconducente, in termini di sufficiente esattezza, al m.llo aiutante U.M., fosse stata possibile anche solo a un ristretto numero di persone, quali i militari della compagnia della Guardia di finanza di San Miniato. 3.1. In tal modo la Corte di merito, giustificando il proprio convincimento secondo lo schema enunciato nella sentenza di annullamento (che proprio con riferimento a tali questioni aveva ravvisato incongruenze e contraddizioni argomentative e inadeguate valutazioni degli elementi della fattispecie incriminatrice), ha svolto, con esatta interpretazione e corretta applicazione dei condivisi principi che attengono ai poteri del giudice di rinvio e dei criteri fissati specificamente da questa Corte nella indicata sentenza (in punto di individuabilità del “leso”, indipendentemente dalla sua indicazione nominativa e dal numero delle persone atte alla sua riconoscibilità, e in punto di qualificazione dell’elemento soggettivo del reato), un discorso giustificativo della decisione esente da vizi logici e giuridici, ragionevolmente traendo dal complesso delle ripercorse informazioni probatorie, congruamente coordinate e apprezzate, il certo convincimento della integrazione, a opera dell’imputato, del reato nei termini contestato e della sua conseguente responsabilità penale. 3.2. In questo contesto non possono trovare accoglimento le doglianze del ricorrente, che, prive di alcuna fondatezza nella eccepita acritica ricezione da parte dei Giudice del rinvio delle lagnanze del Procuratore generale militare, sono del tutto generiche nella diffusa prospettazione dei denunciati vizi motivazionali, operata astraendo da ogni riferimento alla sentenza di annullamento, che aveva accolto il ricorso del Procuratore generale, e ai contenuti della sentenza del rinvio in rapporto alle questioni controverse rimessele e ai tracciati limiti dell’intervento decisorio. Esse, inoltre, e in ogni caso, non sono consentite in questa sede di legittimità, perché, attraverso l’espresso dissenso di merito, svolgono, sul punto della esclusa individuabilità del destinatario delle offese, considerazioni in fatto, insuscettibili di valutazione ai sensi dell’art. 606, comma 3, cod. proc. pen., e tendono a impegnare questa Corte -reiterando rilievi già discussi in sede di merito ed esaustivamente esaminati nella sentenza impugnata e tentando di screditare le operate valutazioni in fatto e in diritto degli elementi di conoscenza apportati dal materiale probatorio del processo- in una diversa lettura in sovrapposizione argomentativa rispetto ai contenuti della decisione già adottata, con le cui motivate ragioni neppure sono correlate in termini di critica specifica e puntuale. 4. È inammissibile anche la richiesta di applicazione dell’art. 131-bis cod. pen., introdotto dal d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28, avanzata dal ricorrente, in via subordinata rispetto all’accoglimento del ricorso, nel corso della odierna udienza di discussione. A prescindere, invero, dalla questione relativa alla proponibilità della relativa questione nell’indicato momento processuale, non emergono elementi idonei a configurare la sussistenza della ipotesi di speciale tenuità del fatto, avendo la Corte militare di appello espressamente confermato, dopo l’affermazione della responsabilità del ricorrente, la decisione in punto trattamento sanzionatorio del primo Giudice, che ha ritenuto condivisibile quanto alla complessiva valutazione dei parametri di cui all’art. 133 cod. pen. e quanto all’adeguatezza e alla esaustività della “ponderazione” della sanzione finale, già apprezzata avendo riguardo -sotto un profilo qualitativo- alla particolare incidenza sul fatto di reato del peso delle ascritte aggravanti. 5. Alla rilevata inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché -valutato il contenuto del ricorso e in mancanza di elementi atti a escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità- al versamento della somma nella misura, ritenuta congrua, di euro mille in favore della Cassa delle ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro mille alla Cassa delle ammende.
  13. ^ La sentenza n. 5259/1984 della Sezione I civile della Corte di Cassazione ha stabilito il seguente principio: "Perché la divulgazione a mezzo stampa di notizie lesive dell'onore possa considerarsi lecita espressione del diritto di cronaca, e non comporti responsabilità civile per violazione del diritto all'onore, devono ricorrere tre condizioni: 1) utilità sociale dell'informazione; 2) verità oggettiva, o anche soltanto putativa purché frutto di diligente lavoro di ricerca; 3) forma civile dell'esposizione dei fatti e della loro valutazione, che non ecceda lo scopo informativo da conseguire e sia improntata a leale chiarezza, evitando forme di offesa indiretta" (Il Foro italiano, anno 1984, Vol. CVII, pag. 2712).
  14. ^ la diffusione della scelta di intraprendere solo l'azione civile ha avuto come esempio la causa Fininvest/Grillo [1]
  15. ^ Il Giornale

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