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nietzscheana
saggi
24
collana diretta da
Giuliano Campioni, Maria Cristina Fornari
fondata da
Sandro Barbera, Giuliano Campioni e Franco Volpi
comitato scientifico
Keith Ansell-Pearsons, Paolo D’Iorio,
Carlo Gentili, Scarlett Marton, Maria Filomena Molder,
Karl Pestalozzi, Sergio Sánchez,
Diego Sánchez Meca e Andreas Urs Sommer
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La Genealogia della morale
Letture e interpretazioni
a cura di
Bruna Giacomini, Pietro Gori, Fabio Grigenti
Edizioni ETS
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www.edizioniets.com
Il volume è stato realizzato con il contributo del
Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata (FISPPA)
dell’Università degli Studi di Padova,
pubblicato nell’ambito del progetto di Ateneo 2013 – CPDA139424 dal titolo:
«Umani e oltre. La categoria di “Umanismo” nel pensiero europeo del Novecento»
© Copyright 2015
EDIZIONI ETS
Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa
[email protected]
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Distribuzione
Messaggerie Libri SPA
Sede legale: via G. Verdi 8 - 20090 Assago (MI)
Promozione
PDE PROMOZIONE SRL
via Zago 2/2 - 40128 Bologna
ISBN 978-884674265-0
ISSN 1970-6138
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Prefazione:
Humanitas e oltre
Questo volume è uno dei risultati più importanti della ricer-
ca iniziata a fine 2014 nell’ambito del Progetto di Ateneo 2013
Umani e oltre. La categoria di “Umanismo” nel pensiero europeo
contemporaneo, del quale sono responsabile. Nel programma di
ricerca, che ha coinvolto un team di ricercatori afferenti al Dipar-
timento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Sociologia applicata
dell’Università di Padova, si è messo a tema l’idea di “Umani-
smo” e il suo costante riemergere in seno alla cultura europea tra
Otto e Novecento.
Lo svolgimento effettivo del lavoro di indagine si è attuato
a partire da una prospettiva multidisciplinare e ha condotto a
mappare un territorio piuttosto variegato e difficilmente ricon-
ducibile a un orizzonte definito e comune. In particolare si è evi-
denziato che il concetto di “Umanismo” appare sospeso tra due
considerazioni estreme e assolutamente inconciliabili: da un lato
la sua ripresa positiva come concetto insostituibile della cultura
europea, base del diritto e dello specifico irrinunciabile della no-
stra tradizione, dall’altro l’essere sentito come una sorta di “fer-
rovecchio” di cui liberarsi perché complice di quella storia della
metafisica che da ultimo rivela il suo tratto violento e fortemente
tracciato in senso etno-centrico.
Non abbiamo preso le parti né di una né dell’altra prospettiva,
ma abbiamo compreso che un nuovo tipo di umanità si sta ap-
prossimando e che il vecchio apparato “umanistico-pedagogico”
legato al libro e ai diritti umani ha fatto il suo tempo. Non si
tratta solo di lasciare l’Humanitas al suo destino, ma di progetta-
re una nuova concettualità, che non sia solo una traccia incerta
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6 La Genealogia della morale
e sempre in crisi di una novità che arriva e ci sorprende. Di qui
l’importanza e la forza premonitrice della lezione di Nietzsche:
occorre pensare a un oltre, che già si era approssimato in ciò
che siamo stati. Se saremo al di là dell’umano, e lo saremo, ciò
avverrà secondo vincoli e determinazioni di tipo “genealogico”
e quindi da sempre inscritti nella nostra storia. Nessun salto nel
totalmente altro: non vi sarà mai qualcosa come un uomo non
più umano, ma differenti attuazioni di intensità del potenziale
che siamo.
Potenziamento e nuovi dispositivi di disciplinamento – finora
quello che ci ha condotti fino a qui è stata la morale – in vista di
nuove e imprevedibili elevazioni umane, che oggi si annunciano
soprattutto nei campi contigui della visione scientifica e dei pro-
tocolli di impiego delle tecnologie. In fondo, non c’è veramente
alcuna novità, siamo sempre stati oltre noi stessi e, forse, Huma-
nitas, ha voluto significare esattamente questo.
Fabio Grigenti
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Nota al testo
Le opere e le lettere di Nietzsche sono citate a partire dall’edi-
zione critica tedesca e italiana di riferimento:
F. Nietzsche, Werke. Kritische Gesamtausgabe, ca. 40 Bände in
9 Abteilungen, begr. von G. Colli und M. Montinari. Fortgef.
von V. Gerhardt, N. Miller, W. Müller-Lauter, K. Pestalozzi.
Berlin/New York, de Gruyter 1967 ff.
F. Nietzsche, Briefwechsel. Kritische Gesamtausgabe, in 24 Bän-
de, begr. von G. Colli und M. Montinari. Fortgef. von N. Mil-
ler, N. und A. Pieper, Berlin/New York, de Gruyter 1975 ff.
F. Nietzsche, Opere complete, trad. it. a cura di G. Colli e M.
Montinari, Milano, Adelphi 1964 ss. (nel testo abbreviate con
la sigla OFN seguita dal numero del volume).
F. Nietzsche, Epistolario, trad. it. Milano, Adelphi 1977-2011,
vol I (1850-1869) a cura di M. Montinari; vol. II (1869-1874)
a cura di G. Colli e M. Montinari; vol. III (1875-1879) a cura
di G. Campioni e F. Gerratana; vol. IV (1880-1884) a cura
di G. Campioni; vol. V (1885-1889) a cura di G. Campioni e
M.C. Fornari.
In alcuni contributi, si è seguita per il Crepuscolo degli idoli la
nuova traduzione italiana a cura di P. Gori e C. Piazzesi, Roma,
Carocci, 2012.
I passi tratti dalle opere di Nietzsche sono indicati con l’ab-
breviazione del titolo dell’opera, seguita dal numero o dal titolo
della sezione (ove presente) e dal numero del paragrafo (es. FW
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8 La Genealogia della morale
341; GM III 24; EH, Perché sono così saggio 1). I passi tratti dai
quaderni e dai taccuini di Nietzsche sono invece indicati con
la sigla NF (Nachgelassene Fragmente), seguita dall’anno di re-
dazione, dal numero del gruppo e da quello della nota (es. NF
1888, 14[188]). Nel caso delle lettere inviate da Nietzsche, viene
indicato il destinatario e la data (es. A H. Köselitz, 27.09.1888).
Elenco delle abbreviazioni degli scritti di Nietzsche citati:
NF = Nachgelassene Fragmente = Frammenti Postumi
HL = Unzeitgemässe Betrachtungen II – Vom Nutzen und Nachteil der
Historie für das Leben = Considerazioni inattuali II – Sull’utilità e
il danno della storia per la vita
SE = Unzeitgemäße Betrachtungen III – Schopenhauer als Erzieher =
Considerazioni inattuali III – Schopenhauer come educatore
BA = Über die Zukunft unserer Bildungsanstalten = Sul futuro delle
nostre istituzioni educative
WL = Über Wahrheit und Lüge im aussermoralischen Sinne = Su verità
e menzogna in senso extramorale
GT = Geburt der Tragödie = Nascita della tragedia
MA = Menschliches, Allzumenschliches I = Umano, troppo umano I
VM = Menschliches, Allzumenschliches II – Vermischte Meinungen und
Sprüche = Umano, troppo umano II – Opinioni e sentenze diverse
WS = Menschliches, Allzumenschliches II – Der Wanderer und sein
Schatten = Umano, troppo umano II – Il viandante e la sua ombra
M = Morgenröthe = Aurora
FW = Fröhliche Wissenschaft = La gaia scienza
Za = Also sprach Zarathustra = Così parlò Zarathustra
JGB = Jenseits von Gut und Böse = Al di là del bene e del male
GM = Zur Genealogie der Moral = Genealogia della morale
GD = Götzen-Dämmerung = Crepuscolo degli idoli
AC = Der Antichrist = L’Anticristo
EH = Ecce Homo = Ecce Homo
DD = Dionysos-Dithyramben =Ditirambi di Dioniso
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Introduzioni
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Leggere la Genealogia della morale
di Nietzsche
Bruna Giacomini
Il presente volume contiene, rielaborati in forma di saggio, i
testi di alcune delle relazioni presentate nel corso di un semina-
rio di ricerca svoltosi tra aprile e ottobre 2013 nell’ambito della
Scuola di Dottorato in Filosofia dell’Università di Padova. Agli
incontri, coordinati dai proff. Umberto Curi, Bruna Giacomini,
Fabio Grigenti, Laura Sanò e Alessandro Tessari, hanno parte-
cipato regolarmente e attivamente altri docenti oltre a un buon
numero di assegnisti, dottorandi e laureati del Dipartimento di
Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia applicata (FISPPA).
L’attività di ricerca seminariale è stata ulteriormente arricchita
dall’intervento del prof. Carlo Gentili dell’Università di Bologna
che, nel corso di un intenso pomeriggio di lavoro, ha dato un
importante contributo alla discussione. Nel libro che qui viene
presentato, alle relazioni dibattute durante gli incontri sono stati
aggiunti i saggi, redatti esclusivamente per la stampa, di alcuni
importanti studiosi, italiani e stranieri, che hanno offerto un pre-
zioso apporto allo svolgimento della ricerca.
Il seminario è stato dedicato alla lettura della Genealogia della
morale di Friedrich Nietzsche. Con la scelta di questo tema, il
gruppo di docenti che da anni contribuisce con un proprio se-
minario al percorso di Filosofia e storia delle idee del Dottorato
in Filosofia di Padova si è proposto essenzialmente due obietti-
vi. Anzitutto, esso ha inteso misurarsi con quello che costituisce
uno dei compiti imprescindibili dell’indagine storico-filosofica,
ovvero la lettura dei testi. La rilevanza e la peculiarità di tale
momento vengono spesso ignorate o quantomeno sottovalutate
a partire da due atteggiamenti tra loro contrapposti: quello che
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12 La Genealogia della morale
tende a considerare i testi nient’altro che materiali che il pensiero
utilizza e manipola per i propri fini allo scopo di emanciparsene
in un percorso che diviene autonomo da questi, e quello che, al
contrario, si risolve integralmente in un esercizio di analisi, pun-
tuale e rigoroso sul piano storico e filologico dei documenti, ma
che spesso risulta essere cieco ed ottuso sul piano filosofico. Se
in un caso, come molto spesso è accaduto nel processo di costru-
zione della tradizione della storia della filosofia, i filosofi si sono
riferiti in modo prevalentemente strumentale al passato, allo sco-
po di mostrare l’irriducibile novità delle proprie tesi, nell’altro
l’attività storiografica si è risolta in un inesausto, quanto steri-
le esercizio di erudizione, dimentico del carattere filosofico di
questo stesso esercizio. Si potrebbe applicare a questo tipo di
storiografia l’immagine con cui il giovane Nietzsche, negli anni
in cui era ancora completamente immerso negli studi classici, de-
scriveva l’attività di una certa filologia come un «affaccendarsi
da talpe, con le cavità muscolari rigonfie e lo sguardo cieco, con-
tente di essersi accaparrate un verme, e indifferenti verso i veri,
urgenti problemi della vita» (Lettera a E. Rohde, 20.11.1868).
Accade così, come dichiarerà nella seconda delle sue Considera-
zioni inattuali, che «colui cui non importa nulla di un momento
del passato, sia destinato a rappresentarlo».
In questa luce il problema che il seminario si è posto è stato
quello di cercare di capire come si potesse fare, della lettura di
un testo, un esercizio filosofico capace di utilizzare gli strumenti
storico-filologici, al fine non di imbalsamarne il cadavere senza
vita per esibirlo nelle teche della tradizione, ma di interrogarne i
significati vitali per il nostro presente e, al contempo, di lasciarlo
parlare, mettendosi in ascolto di ciò che ha da dirci e delle que-
stioni cui esso, come tale, ci rende attenti. Una simile lettura ri-
chiede la capacità di calibrare finemente – così come ancora una
volta indicato da Nietzsche – due atteggiamenti opposti, ma al-
trettanto necessari: quello non storico, con cui poniamo doman-
de radicate nell’orizzonte del nostro presente, per ciò che in esso
vi è di unico e irriducibile ad ogni momento del passato, e quello
storico, che, viceversa, dalla memoria di ciò che è stato fatto e
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Introduzioni 13
pensato prima di noi e di cui siamo comunque gli eredi, cerca
di trarre ammaestramenti e forza per condursi nel presente. Per
questo l’uomo contemporaneo ha bisogno non solo di avventarsi
in modo “inattuale” contro il tempo, ma anche di portare alla
luce e custodire quei tesori trasmessi dalla tradizione, ma talora
anche nascosti da essa, che il passato racchiude.
Nell’analisi dello scritto nietzschiano scelto per il nostro stu-
dio tale orientamento si è tradotto in due diversi tipi di contribu-
ti, facilmente riconoscibili nel testo che segue: quelli di carattere
più spiccatamente interpretativo, tesi ad evidenziare la rilevanza
e la significatività di alcuni particolari temi che Nietzsche sugge-
risce all’attenzione della riflessione contemporanea, e quelli che,
invece, seguendo una prospettiva d’indagine storiografica che si
è affermata soprattutto a partire dagli anni Novanta dello scorso
secolo, cercano di portare alla luce la trama nascosta dei fili che
ricollegano Nietzsche, talvolta malgré lui, al suo tempo e a quella
stessa tradizione filosofica moderna che egli ha ripetutamente di-
chiarato di spregiare rivendicando l’inattualità del suo pensiero.
La lettura della Genealogia della morale ha risposto a un se-
condo e, per certi versi, più importante obiettivo: quello di tro-
varvi l’esempio di un diverso modo di indagare il passato, non
nella forma della storia, ma della genealogia. L’opera ripren-
de e rielabora quell’esercizio del sospetto già messo in atto da
Nietzsche nella seconda Considerazione inattuale nei confronti
della storia e che nell’opera del 1887 viene rivolto in particolare
alla storia della morale. Come spiega nella Prefazione della Gene-
alogia, fin da quando aveva tredici anni Nietzsche aveva capito
che questa non poteva ridursi a un esame delle diverse opinioni
morali presenti in Occidente o sul pianeta, ma doveva essere una
storia filosofica, ovvero un’interrogazione sull’origine del bene e
del male, e cioè un’investigazione relativa al costituirsi di quella
polarità nell’orizzonte della quale si danno problemi morali. La
risposta adolescenziale di Nietzsche era stata metafisica: l’origine
del male nel mondo andava cercata dietro al mondo e il filoso-
fo in erba l’aveva reperita in Dio. All’epoca di Umano, troppo
umano, cui la Genealogia intende esplicitamente riallacciarsi, la
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14 La Genealogia della morale
questione dell’origine della morale muta di forma e, in un certo
senso, di livello: essa non può essere affrontata restando nell’am-
bito del discorso morale, ma ponendo la morale stessa come pro-
blema. Mentre indagava sul significato nichilistico della morale
della compassione, esaltata da Schopenhauer, gli si spalancò da-
vanti all’improvviso – riferisce Nietzsche – un nuovo orizzonte
di ricerca, immenso e vertiginoso: non bisognava limitarsi ad in-
dagare l’origine di questa o quella morale, ma della morale come
tale, interrogandone il presupposto «trascendente ogni messa in
questione», ovvero che essa avesse in se stessa un valore indi-
pendentemente dai valori particolari che, in diversi momenti e
contesti, erano stati privilegiati identificandoli con il “bene”. Per
porre un simile problema era necessario intendere diversamen-
te il significato del valore interpretandolo non secondo il senso
attribuitogli dalla morale, ma secondo quello che esso assume
in rapporto con la vita. I valori scaturiscono da operazioni di
valutazione conseguenti a determinati «punti di vista di apprez-
zamento» (come scrive Deleuze) mediante le quali alcune regole
di condotta sono ritenute preferibili ad altre e, successivamente,
elevate a principi assoluti che pretendono di assolversi dal pro-
cesso che li ha posti. Come Nietzsche aveva chiarito in Aurora,
e particolarmente negli aforismi 21 e 24, una prescrizione assu-
me significato morale quando la sua applicazione viene sottratta
all’esperienza attribuendone un eventuale insuccesso a un difetto
di esecuzione, oppure rendendone indeterminati e dunque inve-
rificabili i risultati.
Sulla base di tale rideterminazione del significato del valore
prende corpo non una storia, ma una genealogia della morale.
Per condurla è necessario fuoriuscire dall’autorappresentazione
che la morale dà di se stessa attraverso un’indagine condotta su
basi extramorali, di cui Nietzsche delinea due distinte direzioni
di ricerca. Bisogna da una parte esaminare le condizioni nelle
quali sono sorti e sono attecchiti i giudizi di valore di carattere
propriamente morale risalendo alle valutazioni che la loro prete-
sa di assolutezza occulta, e dall’altra interrogarne la funzione nei
confronti della vita, esaminando se e come, in base alle diverse
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Introduzioni 15
circostanze storiche e culturali, essi abbiano promosso lo svilup-
po umano o se all’opposto, come Nietzsche ritiene, lo abbiano
intralciato e impoverito.
Si tratta di due compiti distinti che erano stati chiaramente
delineati già nella Gaia scienza. All’aforisma 7 Nietzsche aveva
tratteggiato il programma di uno studio dei fatti morali scandito
in più momenti. Bisognava anzitutto procedere a una descrizione
analitica e approfondita delle diverse passioni (amore, cupidigia,
invidia, devozione, crudeltà) per passare poi ad un’illustrazione,
più esauriente possibile, delle differenti valutazioni morali che,
in tempi diversi, popoli, ma anche individui differenti avevano
dato delle passioni. La finalità di questa fase così articolata era
quella di smascherare la presunta univocità dei fatti morali: ciò
che una cultura considera morale non lo è affatto per un’altra.
Tale varietà discende direttamente dal carattere prospettico e in
questo senso ingiusto di ogni valutazione morale che su questa
base, come metterà in chiaro nella Prefazione a Umano, troppo
umano, definisce tanto le sue giustificazioni teleologiche, quanto
le sue avversioni nei confronti dei valori opposti.
L’indagine doveva però procedere oltre cercando di accertare
i “fondamenti” di tali valutazioni: «per quale ragione splende qui
questo sole di un giudizio di fondo e di un capitale metro di va-
lore della moralità – laggiù invece quell’altro?» (FW 7). La con-
vinzione di Nietzsche è che non solo tali fondamenti non siano
né morali, né conoscitivi, ma non siano propriamente parlando
neppure «fondamenti», bensì nient’altro che origini determina-
te, particolari, spesso infiltrate dal caso le cui radici vanno rin-
tracciate nella forma di vita che li ha fatti valere. La genealogia
della morale, in questo senso, non ricerca l’essenza del fenomeno
morale né nel senso di una sua giustificazione ultima, né in quella
di un’origine intesa come «il perfetto e il più essenziale» (WS
3) riconoscibile all’inizio della storia. Essa piuttosto ne esplora
la «pudenda origo», ovvero i meccanismi nascosti e arbitrari at-
traverso i quali sono state apprezzate o disprezzate determinate
condotte e, non meno irragionevolmente, le presunte regole che
le guidano sono state elevate a principio (M 102).
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16 La Genealogia della morale
Il secondo compito è enunciato nel V libro della Gaia scienza
– inserito, come è noto, nella seconda edizione dell’opera pubbli-
cata nello stesso anno della Genealogia – e, in particolare, nell’a-
forisma 345. Si tratta di un’indagine del tutto nuova, che nessu-
no ha tentato prima d’allora. Una storia della morale che poteva
essere parzialmente avvicinata al primo compito della genealogia
era stata infatti già intrapresa, particolarmente tra i filosofi ingle-
si. I principi morali erano stati smascherati nella loro presunta
assolutezza, comunque intesa, e ricondotti ai sentimenti morali
– quali abnegazione, simpatia, compassione – di cui sarebbero
stati espressione. Tale denuncia aveva indotto tali storici ad attri-
buirsi il merito di aver umanizzato la morale mostrando come
essa, lungi dall’avere fondamenti incondizionati, fosse radicata
nella natura umana. In realtà, secondo Nietzsche, tale opera di
decostruzione restava da una parte occultamente cristiana, in
quanto generalizzava sentimenti propri di quella morale rivelan-
dosi così incapace di uscire dal suo orizzonte, ma, in secondo luo-
go e soprattutto, non coglieva il cuore del problema. Essa infatti
si limitava a denunciare l’equivoco costituito dalla assolutizzazio-
ne di disposizioni naturali degli uomini. Con ciò tuttavia eludeva
il significato proprio della morale: «Una morale potrebbe anche
essersi sviluppata da un errore: tuttavia, anche se ciò fosse rico-
nosciuto, non sarebbe ancora toccato il problema del suo valore»
(FW 345). Esso è infatti racchiuso proprio in quel precetto «tu
devi», ingiustificabile sia logicamente che storicamente, ma che
tuttavia contraddistingue la morale, rendendola propriamente
tale. In questo senso si tratta di fare ben altro che immanentiz-
zare la morale o addirittura naturalizzarla. Ricondurre le leggi
morali a determinazioni naturali caratteristiche dell’uomo non
potrebbe infatti render ragione del perché si sia voluto elevare
tali eventuali determinazioni a legge inderogabile.
Il secondo fondamentale compito della genealogia consiste
invece nel saggiare tale «valore», interrogandosi sul significato
che ha rivestito per l’umanità occidentale e, in particolare mo-
derna, l’applicazione di quel «tu devi» a determinate regole di
condotta. Tale precetto ha investito, come mostra costantemen-
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Introduzioni 17
te Nietzsche, non solo i comportamenti propriamente pratici
dell’uomo, ma anche i suoi atteggiamenti cognitivi che si rivelano
normativamente orientati alla verità ad ogni costo, come testimo-
niano esemplarmente gli scienziati moderni. In quanto perseguo-
no la verità come obbligo morale essi sono del tutto incapaci di
offrirne una valutazione o anche soltanto di considerare la possi-
bilità di una valutazione.
Di qui la ricerca che si dispiega nella Genealogia della morale e
che culmina nella terza dissertazione dedicata agli ideali ascetici.
Nel suo sforzo di penetrare il nocciolo di tali ideali Nietzsche
ne esplora tanto le forme canoniche, sia sul piano storico – tra
gli antichi come tra i moderni – che delle manifestazioni cultu-
rali – nella filosofia come, e soprattutto, nella religione cristiana
–, quanto le espressioni che apparentemente li contrastano, ma
in realtà ne sono marchiate, quali quelle che s’incarnano nella
scienza da una parte e nell’ateismo dell’altra. La morale ascetica
è in questo senso ravvisabile in manifestazioni che apparente-
mente non vi si richiamano o addirittura sembrano avversarla.
Il peculiare valore che infine Nietzsche le riconosce dipende
dalla sua capacità di connettere tra loro due fattori: anzitutto la
capacità di dare un senso all’assurdità della sofferenza renden-
dola con ciò stesso non solo accettabile, ma desiderabile, e, in
secondo luogo, la sua imputazione all’uomo e alla sua inespia-
bile colpa. La straordinaria e micidiale potenza di tale morale
sta nell’individuare nell’incessante e pervicace opera di annichi-
limento di quanto è proprio della vita umana (sensi, ragione, fe-
licità, bellezza) ciò che non solo la rende degna di essere vissuta,
ma la regola ultima cui essa deve cercare di conformarsi, fino al
punto di fare della massima sofferenza il suo supremo ideale.
È noto come, particolarmente alla luce dell’interpretazione
offertane da Foucault nel celebre saggio del 1971 Nietzsche, la
genealogia, la storia, la genealogia nietzschiana della morale ab-
bia delineato un modo profondamente nuovo di indagare le for-
mazioni concettuali o più in generale culturali del passato che
non ha la struttura della storia, almeno secondo la forma che
questa ha assunto tra Sette e Ottocento. Esso se ne allontana su
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18 La Genealogia della morale
due punti fondamentali: non ricerca nell’origine di un concetto
o della stessa filosofia la sua identità essenziale e autentica desti-
nata a dispiegarsi in un processo di sviluppo e a guidarlo, ma l’e-
mergere singolare, a partire da circostanze determinate, del tutto
contingenti ed eterogenee tra loro di un avvenimento del pen-
siero che ha trovato le forze per contrastare gli altri e imporre il
suo primato. L’affermarsi di determinate concettualità è sempre
in questo senso il risultato del predominio di specifiche potenze
che quelle concettualità fanno valere. In secondo luogo, e conse-
guentemente, s’interroga sulla rilevanza avuta da tale avvenimen-
to nel plasmare secondo una certa forma l’uomo occidentale e ne
interroga il senso, valutandone gli effetti sull’esistenza umana.
In questo quadro la genealogia non solo induce a riflettere sui
fondamenti della disciplina storico-filosofica così come comune-
mente l’intendiamo e la pratichiamo, ma apre ulteriormente la
possibilità di applicare a essa la stessa indagine genealogica. Con
la stessa radicalità con cui Nietzsche si è avventurato nel campo
della morale e Foucault ne ha seguito l’esempio nella sua indagi-
ne sui saperi della modernità, si tratterebbe di muoversi nell’am-
bito della storia della filosofia, ponendola come problema. Prima
di prendere in considerazione i differenti modelli che l’hanno
ispirata e le diverse pratiche in cui si è tradotta, bisognerebbe
chiedersi che significato essa abbia avuto per la filosofia, ovvero
per quella attività di costante interrogazione del pensiero messa
in moto e nutrita dal thauma. Riformulando il problema posto
da Nietzsche, sarebbe necessario domandarsi se e in che forma la
storia della filosofia abbia servito la filosofia o se, al contrario, in
molte delle modalità assunte da quando si è costituita in specifica
disciplina alla metà del ‘700, essa non l’abbia inibita o addirittura
messa a tacere. Da una parte infatti il dibattimento critico di ciò
che è stato elaborato da altri prima di noi, se condotto con ra-
dicalità e indipendenza di pensiero, è condizione indispensabile
per comprendere e verificare la portata e il senso delle questioni
su cui oggi ci s’interroga, dall’altra il confronto con il passato
si è spesso tradotto in un mero esercizio di erudizione median-
te il quale si è finito col rinunziare, come scriveva Kant (1996:
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Introduzioni 19
66 n. 1), a «pensare da sé [selbstdenken]», cioè «a cercare in se
stessi (…) la pietra ultima di paragone della verità», per affidarsi
invece all’autorità e alla tutela di quanto altri hanno già pensato
al posto nostro.
In questa direzione la “polemica” nietzscheana indica non
solo alla morale, ma anche alla storia della filosofia prospettive e
modalità ancora “inattuali” per esaminare e riconsiderare il suo
statuto.
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Verso una «resa dei conti
con la morale»
Pietro Gori
In una lettera scritta all’amica Meta von Salis il 22 agosto del
1888, Nietzsche commenta retrospettivamente la sua Genealogia
della morale, osservando che in quel testo sono stati affrontati
«problemi estremamente difficili per i quali non esisteva ancora
una lingua, una terminologia. (…) Questo scritto scorre via come
la cosa più naturale del mondo (…). Lo stile è veemente e tra-
scinante, e tuttavia pieno di sottigliezze; inoltre ha una duttilità
e varietà di colori che finora in prosa non avevo mai raggiunto».
Trascurando il tono autocelebrativo che caratterizza molta della
corrispondenza redatta da Nietzsche in quel periodo, questa va-
lutazione è per buona parte condivisibile e aiuta a rendere conto
della grande fortuna che la Genealogia ha avuto nel corso del
XX secolo. Lo scritto polemico che Nietzsche pubblica nel 1887
è un testo originale, sotto molteplici aspetti. Lo è per il metodo
che Nietzsche adotta, quell’indagine genealogica che si distingue
dallo sguardo storico ed evoluzionistico proprio della filosofia
di fine Ottocento – di cui è comunque in parte figlia; lo è per lo
stile, così diverso da quello delle opere del corpus di Nietzsche
che lo hanno preceduto e che lo seguiranno; lo è, infine, per la
compattezza tematica e per il fatto di accompagnare con metodo
il lettore in quella che è – a detta dello stesso Nietzsche – una
questione fondamentale del suo pensiero.
La Genealogia della morale nasce in effetti con l’obiettivo di
offrire ai lettori una chiave di accesso a quella dimensione labi-
rintica che è il pensiero di Nietzsche. Sempre nell’epistolario tro-
viamo testimonianze in questo senso. In una lettera a Burkhardt
del 14 novembre 1887, ad esempio, Nietzsche osserva che «tutte
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22 La Genealogia della morale
le pietanze che imbastisc[e] contengono parti tanto dure e in-
digeste, che proporle a degli ospiti (…) rappresenta un abuso
dei rapporti di amicizia e di ospitalità», ma subito dopo assicura
al destinatario di aver compiuto un lavoro meno ostico con la
Genealogia. Anzi, la sua precisa «intenzione», con questo nuovo
testo che «tratta di problemi psicologici della specie più dura»,
sarebbe stata di gettare chiarezza su «qualcuno dei principali
presupposti di» Al di là del bene e del male – ultimo scritto pub-
blicato e che non aveva ricevuto l’accoglienza sperata («di quel
libro tutti mi hanno detto la stessa cosa: che non si capisce di
che cosa si tratta, che non sono altro che “raffinate assurdità”»).
La stessa osservazione compare in una lettera di poco preceden-
te (8.11.1887), destinata all’editore Naumann, in cui Nietzsche
dichiara che «questo scritto polemico è strettamente connesso
ad Al di là del bene e del male, come sua integrazione e chiari-
mento». In questa lettera, però, Nietzsche rivela qualcosa di più
delle proprie intenzioni, che non si riducono certo alla volontà
di fornire un sussidio per la comprensione della sua ultima ope-
ra. Il suo «desiderio principale» è piuttosto quello di stimolare
l’interesse per la propria persona e per le proprie idee, offrendo
ai lettori un testo che sia accattivante e fruibile, e che possa va-
lere come solida base di partenza per un’indagine approfondita
del suo pensiero. In altre parole, con la Genealogia Nietzsche si
prefigge di «ottenere qualcosa che torni a vantaggio dei [suoi]
scritti precedenti: che inviti cioè a leggerli e a prenderli sul se-
rio». La sua pubblicazione risponde pertanto alla stessa esigen-
za che aveva portato Nietzsche a redigere le prefazioni dei testi
pubblicati prima dello Zarathustra e di cui sarebbe uscita una
seconda edizione. Queste prefazioni dovevano infatti mettere in
luce la coerenza del percorso filosofico ed esistenziale compiuto
da Nietzsche, mostrando quale fosse il denominatore comune
delle riflessioni da lui svolte in precedenza e come fosse possi-
bile navigare nell’arcipelago dei suoi aforismi senza perdersi.
Ma soprattutto dovevano avere una funzione “promozionale”,
per evitare gli insuccessi editoriali a cui erano andate incontro le
opere precedenti – prima tra tutte, lo Zarathustra. E così, come
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Introduzioni 23
Nietzsche stesso scrive a Meta von Salis il 14 settembre 1887,
con la pubblicazione dell’ultima parte della Genealogia si chiude
«il lavoro di un anno intero» volto a fornire «tutte le indicazioni
essenziali per un orientamento provvisorio sul mio conto: dalla
prefazione alla Nascita della tragedia fino alla prefazione del libro
suddetto si dà una sorta di “storia dell’evoluzione”».
La compattezza tematica a cui si è accennato prima quale
tratto distintivo della Genealogia della morale risponde quindi
a una precisa esigenza di Nietzsche, a quella volontà di fornire
una ricapitolazione chiarificatrice di una questione che percor-
re la sua intera attività filosofica: il problema dell’«origine dei
nostri pregiudizi morali» (GM, Prefazione 2). A tale questione
sono dedicate le tre dissertazioni della Genealogia, vero e pro-
prio scandaglio che si immerge nell’abisso della morale europea
per individuarne i principi fondativi, senza però proporsi come
momento finale di un processo che Nietzsche vede invece come
ancora alle sue fasi iniziali. Per quanto, infatti, il testo si presenti
come chiarificatore nei confronti delle opere che lo hanno pre-
ceduto, e in esso Nietzsche faccia il punto sulla questione del-
la morale cristiana, la Genealogia non deve essere vista – come
spesso è stato fatto – come un punto di arrivo del suo percorso
filosofico. Essa è piuttosto un momento di passaggio della rifles-
sione nietzscheana sulla cultura europea, che nel periodo 1886-
1888 attraversa una fase di particolare vigore. L’interrogativo
relativo ai valori morali – al «valore stesso di questi valori» – non
è infatti che lo stimolo per una «nuova, immensa prospettiva»
di cui Nietzsche intende farsi carico nella stagione finale della
sua produzione. Questa prospettiva si realizza in «una critica
dei valori morali», di una morale considerata come «il pericolo
dei pericoli», in quanto responsabile di aver limitato lo sviluppo
(spirituale) del tipo (culturale) uomo (GM, Prefazione 6). Il fatto
che Nietzsche vedesse la Genealogia in questo modo, come pri-
ma parte di una più ampia riflessione sul problema della morale,
è testimoniato da un’altra lettera (a F. Overbeck, 4.1.1888) che
si riferisce a una bozza di indice redatta nell’autunno del 1887.
A Overbeck, Nietzsche scrive che, con la Genealogia, ha voluto
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24 La Genealogia della morale
«isolare artificialmente i diversi focolai da cui ha avuto origine
quella complessa creazione che si chiama morale», ma aggiun-
ge che le tre dissertazioni, da sole, non realizzano questo obiet-
tivo: «manca un quarto, un quinto e persino il più importante
[primum mobile della morale] (“l’istinto del gregge”). – Questa
parte per il momento l’ho dovuta accantonare in quanto troppo
ampia, come pure la valutazione complessiva, alla fine, di tutti i
diversi elementi, e con ciò una sorta di resa dei conti con la mo-
rale». Nella nota 9[83] del 1887, sempre sotto il titolo di «Gene-
alogia della morale», si trova in effetti il piano per un «secondo
scritto polemico», che sarebbe dovuto consistere in tre ulteriori
dissertazioni (tra cui una dedicata all’istinto del gregge) e in una
sezione conclusiva che doveva fungere da «resa dei conti con la
morale (come Circe dei filosofi)». Scopo di Nietzsche, da quanto
si può evincere da questo appunto, era di affrontare compiuta-
mente la questione della morale come «origine del pessimismo e
del nichilismo», e di condurre così la cultura europea nella sua
«epoca tragica» (ibid.).
Oltre a fungere da chiarificazione delle opere precedenti, la
pubblicata Genealogia doveva quindi costituire il momento fon-
dativo di un lavoro orientato a chiudere una fase della storia
culturale europea. Essa pertanto introduce alla questione fonda-
mentale che Nietzsche intende affrontare negli anni successivi, e
la ricognizione delle diverse manifestazioni della morale europea
che egli svolge al suo interno non è che il primo passo per la
realizzazione del «compito» annunciato in chiusura del testo (e
della nota del 1887 di cui sopra). Un compito che, come noto, ri-
manda al progetto editoriale e filosofico della Trasvalutazione di
tutti i valori, che all’epoca della pubblicazione della Genealogia
Nietzsche vede in fase avanzata di elaborazione.
Tutto questo deve essere tenuto in considerazione nel mo-
mento in cui ci si appresta ad affrontare quel crocevia di temi e
di problematiche del pensiero di Nietzsche che è la Genealogia
della morale. Un testo, come detto, compatto ma variegato. Ca-
ratterizzato da una particolare unità tematica, ma ricco di spunti
che offrono accessi a questioni di non secondaria importanza e
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Introduzioni 25
che, nel loro complesso, definiscono la trama di un pensiero che
manifesta la propria ricchezza e originalità al lettore più accorto.
Di questa ricchezza si è cercato di rendere conto nelle pagine
che seguono, attraverso contributi che, ciascuno a suo modo,
affrontano il testo di Nietzsche illuminandone alcuni passaggi
cruciali e intervenendo nella discussione di aspetti che si dimo-
strano rilevanti non solamente per la comprensione della filosofia
di Nietzsche, ma anche per una valutazione del suo ruolo nella
storia del pensiero occidentale contemporaneo. Il presente volu-
me raccoglie quindi una serie di incursioni nella Genealogia della
morale e offre nel suo complesso una ricognizione del testo che,
senza pretesa di esaustività, ne saggia la qualità e la rilevanza per
una ricerca storico-filosofica.
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Letture e interpretazioni
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Genealogia della morale:
dalla premura didattica ai fini strategici
Scarlett Marton
Tra i libri di Nietzsche, la Genealogia della morale è forse
quello che negli ultimi anni è stato maggiormente studiato. Ma
non è stato sempre così. La storia della ricezione del pensiero
nietzscheano mostra chiaramente che, in epoche diverse, i com-
mentatori e in generale i lettori hanno dedicato la propria at-
tenzione alternativamente alle varie opere del filosofo tedesco.
Negli anni a cavallo tra XIX e XX secolo, ad esempio, furono
in particolare La nascita della tragedia e Così parlò Zarathustra a
suscitare il maggiore interesse in Germania1, come pure in Ita-
lia2 e in Francia3. Tra le ragioni che si possono individuare per
giustificare l’entusiasmo che la prima opera di Nietzsche suscitò
negli anni immediatamente successivi al suo collasso mentale a
Torino, va ricordato che, all’epoca della sua pubblicazione, la
Nascita della tragedia venne celebrata nei circoli wagneriani, e
successivamente continuò ad essere apprezzata dagli estimatori
del compositore tedesco, che la leggevano mettendola in relazio-
ne con il Tristano e Isotta. Per quanto riguarda, invece, l’atten-
zione per lo Zarathustra, è bene notare che, in principio, la curio-
sità per la biografia di Nietzsche e l’enfasi che venne data al suo
stile attutirono l’impatto delle sue idee. Molti lettori e interpreti
partivano dal presupposto che il filosofo non avesse elaborato
1 Sulla prima ricezione del pensiero di Nietzsche in Germania cfr. Aschheim 1992
(in particolare i capitoli iniziali) e Pütz 1975.
2 Sulla prima ricezione del pensiero di Nietzsche in Italia cfr. Michelini 1974, Stefa-
ni 1975, Sturm 1991 e Marton 2007.
3 Sulla prima ricezione delle idee di Nietzsche in Francia cfr. Bianquis 1929, Nolte
1990, Smith 1991, Le Rider 1999, Forth 2001 e Marton 2009a.
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tanto un pensiero strutturato, quanto piuttosto un’“atmosfera”:
l’importante era respirare l’aria dei suoi scritti e godere della
fascinazione del suo linguaggio, in cui si riscopriva la sonorità
pura e cristallina delle parole, la precisa corrispondenza tra le
sfumature sonore e il senso dei termini, la nuova perfezione della
lingua tedesca. Gli scritti di Nietzsche venivano quindi letti prin-
cipalmente con una finalità estetica, mentre l’interesse per il suo
pensiero era lasciato quasi del tutto in disparte.
Alla Genealogia della morale si cominciò invece a prestare at-
tenzione in un periodo storico successivo. Nella Francia degli
anni ’60, ad esempio, Deleuze tributò grande importanza a quel
libro. Nel suo Nietzsche e la filosofia (1962), in un discorso volto
a confrontare Nietzsche e Kant, Deleuze sostenne che con la Ge-
nealogia della morale Nietzsche aveva voluto replicare la Critica
della ragion pura (Deleuze, 1962, pp. 99-101)4. Secondo Deleuze,
in particolare, nella prima dissertazione, che tratta del risenti-
mento, Nietzsche analizzerebbe il paralogismo di una forza se-
parata da ciò che essa produce; nella seconda, nel trattare della
cattiva coscienza, egli sottolineerebbe invece la natura antinomi-
ca di una forza rivolta contro se stessa; nella terza, infine, denun-
cerebbe l’ideale ascetico come la massima mistificazione, quella
di un ideale che comprende tutte le finzioni della morale e della
conoscenza. Deleuze, quindi, presentò l’autore dello Zarathustra
come un pensatore che sfidò l’ortodossia con le stesse armi utiliz-
zate dalla tradizione filosofica. Il suo impegno nel costruire una
nuova immagine pubblica di Nietzsche permise a quest’ultimo di
passare dall’essere uno scrittore marginale al venire annoverato
come il precursore delle questioni filosofiche più rilevanti.
Tempo dopo, molti interpreti tenderanno a privilegiare la Ge-
nealogia tra gli scritti di Nietzsche. Nel 1994, Richard Schacht
curò negli Stati Uniti un volume che raccoglieva contributi dedi-
cati a quell’opera; in quell’occasione egli sostenne che essa costi-
tuiva, per molti aspetti, il punto più alto dell’attività filosofica di
4 Per un commento sull’interpretazione che Deleuze svolge della filosofia nietzsche-
ana, cfr. Marton 1998.
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Genealogia della morale 31
Nietzsche negli ultimi anni di sanità mentale (Schacht, 1994: x).
Contemporaneamente, in Germania, Werner Stegmaier, pubbli-
cò uno studio approfondito di quel testo (Stegmaier 1994); muo-
vendo da una contestualizzazione della Genealogia nel corpus
degli scritti nietzscheani e da considerazioni relative alle finalità
di quell’opera, Stegmaier analizzò dettagliatamente le singole se-
zioni che la compongono. In epoca recente e seguendo queste
linee-guida, numerosi studiosi hanno svolto studi specifici sul-
la Genealogia della morale nel suo complesso5 e sulle specifiche
questioni individuabili al suo interno6. Questi sono solo alcuni
esempi che mostrano la fortuna che questo libro ha avuto negli
ultimi decenni, ma spiegare i motivi per cui esso è ancora oggi
attuale e merita quindi di essere studiato va oltre gli obiettivi del
presente contributo.
1.
Il primo aspetto sul quale intendiamo soffermarci per svolgere
le nostre considerazioni sulla Genealogia della morale riguarda il
fatto che Nietzsche attribuisce grande importanza a quest’opera
all’interno dei suoi scritti, come si legge in una nota contenuta
nell’epilogo del Caso Wagner:
Sulla contrapposizione tra «morale aristocratica» e «morale cristia-
na», la mia Genealogia della morale ha dato i primi chiarimenti: non
esiste forse nella storia della conoscenza religiosa e morale una svolta
più decisiva. Questo libro, la mia pietra di paragone per quanto mi
appartiene, ha la fortuna di essere accessibile soltanto agli spiriti di più
elevato sentire e massimamente rigorosi: agli altri mancano le orecchie.
In questo passo, che occupa un posizione particolare nel testo
del 1888, il filosofo sottolinea, da un lato, la difficoltà di essere
compreso e, dall’altro, il valore inestimabile della propria Gene-
alogia. Nel fare questo, Nietzsche tocca due temi che ricorrono
5 Da menzionare, tra gli altri, Orsucci 2001, Janaway 2007, Conway 2007, Owen
2007 e Hatab 2008.
6 Cfr. per esempio Kemal 1990, Ridley 1998, Brusotti 2001, Bornedal 2004 e
Sedwick 2005.
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in quest’ultima opera, quelli relativi alla comprensibilità e alla
rilevanza dei suoi scritti – temi che per buona parte sono connes-
si tra di loro. Nella citazione tratta dal Caso Wagner, Nietzsche
sembra inoltre attribuire particolare importanza alla «contrap-
posizione tra “morale aristocratica” e “morale cristiana”». Una
valutazione, questa, che non sorprende, dal momento che anche
in altre sue opere Nietzsche indica quale cifra comune dei propri
scritti il suo sommo disprezzo nei confronti del cristianesimo (è
quanto accade ad esempio nel caso della terza sezione della Na-
scita della tragedia)7. La valutazione che noi, oggi, possiamo offri-
re, è però diversa. Da una parte bisogna tenere in considerazione
che, se negli scritti del 1888 Nietzsche sostiene che il cristiane-
simo sia la questione centrale delle sue opere precedenti – se,
appunto, nel Caso Wagner egli dichiara che la «contrapposizione
tra “morale aristocratica” e “morale cristiana”» sia l’aspetto più
rilevante della Genealogia – queste sue affermazioni vanno co-
munque prese con la dovuta attenzione. In fondo, è molto pro-
babile che esse siano segnate dalle distorsioni comuni a qualsiasi
visione retrospettiva. D’altro canto, non si può negare il valore
della Genealogia di Nietzsche, in quanto è proprio in quest’opera
che egli individua una delle questioni filosofiche più significative
degli ultimi due secoli: la nozione di risentimento. Nella Genea-
logia, infatti, Nietzsche diagnostica con chiarezza e per la prima
volta il modo di pensare, agire e provare emozioni degli individui
affetti da questa passione, e mostra in particolare come l’unico
scopo dell’uomo del risentimento sia quello di affermare se stes-
so, negando tutti coloro che non gli è possibile eguagliare.
All’inizio del XX secolo, muovendo dall’analisi svolta da
Nietzsche, Max Scheler affrontò la questione del risentimento
da una diversa prospettiva, sottolineando il manifestarsi di que-
sto fenomeno nelle relazioni sociali8. Da questo punto di vista,
7 Cfr. EH, Nascita della tragedia 1: «In tutto il libro, silenzio profondo, ostile sul
cristianesimo».
8 Scheler considera il risentimento come «un auto-avvelenamento psicologico, do-
tato di cause ed effetti ben determinati». A suo avviso, si tratta di una disposizione psico-
logica che, se repressa in maniera sistematica, produce particolari emozioni e sentimenti,
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Genealogia della morale 33
quanto maggiore è la distanza tra la condizione giuridica di par-
ticolari gruppi – condizione dovuta al sistema politico o alla tra-
dizione culturale – e quanto maggiore è il suo potere reale, tanto
maggiore sarà il risentimento maturato. La stessa cosa non acca-
drebbe in un sistema sociale chiaramente differenziato, in una
società di caste o in una democrazia che, tanto sul piano sociale
che su quello politico, tenda a una distribuzione della ricchezza.
Attribuendo al fenomeno del risentimento una connotazione e
una portata differenti, Scheler ci spinge a riflettere sulla nostra
società attuale (cfr. Marton 2008).
Il presente contributo non riguarda però la questione del ri-
sentimento. Piuttosto, è nostro scopo riflettere sulla specificità
della Genealogia della morale, muovendo dalla considerazione
che, per via dello stile espositivo in esso adottato, essa venga con-
siderata l’opera di Nietzsche che più delle altre può rientrare tra
o essere assimilata ai testi della tradizione filosofica a cui siamo
maggiormente abituati. Attraverso un confronto con le due ope-
re che la precedono, cercheremo pertanto di rendere conto della
relazione che intercorre tra di esse; inoltre, esaminando i diversi
procedimenti adottati da Nietzsche, mostreremo la strategia che
egli intende perseguire.
2.
Non è esagerato affermare che nei suoi testi Nietzsche cerchi
sempre di andare incontro ai propri lettori. Non è quindi un caso
che, nel 1886, quando ripubblica la sua opera presso l’editore
Fritzsch, egli inserisca nella Nascita della tragedia un Tentativo di
autocritica, che rediga delle prefazioni per i due volumi di Uma-
no, troppo umano, per Aurora e per la Gaia scienza, e che infine
scriva una quinta parte da aggiungere a quest’ultima opera. Non
è neppure un caso, inoltre, che egli progetti la stesura di Ecce
homo, nel quale vi è un capitolo dedicato a ciascuno dei suoi
come l’odio e il disprezzo, la gelosia e l’invidia, la rabbia e la cattiveria. Nel caso in cui
questi sentimenti ed emozioni, che appartengono alla condizione umana, vengano siste-
maticamente repressi, essi «producono una deformazione più o meno permanente della
capacità di valutare e in generale di giudicare» (Scheler 1972: 38).
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scritti editi. È precisamente con lo scopo di rendersi compren-
sibile che Nietzsche istruisce ripetutamente i propri lettori sul
modo in cui egli debba essere letto. Nel fornire le indicazioni
sul procedimento di lettura delle proprie opere, Nietzsche invi-
ta insistentemente ad adottare un approccio contraddistinto da
attenzione e pazienza (cfr. in particolare BA, Introduzione; GM,
Prefazione 8; EH, Perché scrivo libri così buoni? 5).
Credendo di facilitare ai lettori la fruizione delle proprie ope-
re, nel presentare un’idea che gli sta particolarmente a cuore, non
di rado Nietzsche si preoccupa di rendere conto di quanto essa
sia difficile da esprimere. È quanto accade, ad esempio, nella se-
zione Il convalescente della terza parte dello Zarathustra, in cui il
protagonista dell’opera si ferma a riflettere sul linguaggio prima
di affrontare in tutta la loro portata le conseguenze del proprio
pensiero abissale. Nella medesima sezione, inoltre, subito dopo
aver ricordato a Zarathustra che lui è il maestro dell’eterno ritor-
no, i suoi animali – l’aquila e il serpente – lo incitano a cantare9.
Nietzsche insiste sulla difficoltà di esprimere le proprie idee an-
che in Al di là del bene e del male. Nell’ultima sezione di quest’o-
pera egli denuncia infatti il carattere imperfetto del linguaggio
e chiama in causa i suoi stessi scritti10. Nella Genealogia della
morale, il filosofo procede allo stesso modo. Nella prima parte
dell’opera, prendendo le distanze dal modo in cui utilitaristi ed
evoluzionisti affrontano le questioni morali, Nietzsche si dedica
a un’analisi dell’origine delle coppie di valori “bene” e “male”,
“buono” e “malvagio”. Poco prima di affrontare la questione del
risentimento, lascia la parola a un interlocutore immaginario,
9 Cfr. Za III, Il convalescente: «Non sono stati donati alle cose nomi e suoni, perché
l’uomo trovi ristoro nelle cose? Il parlare è una follia bella: con esso l’uomo danza su tutte
le cose. Com’è dolce ogni discorso e ogni bugia di suoni!»; «Perché vedi, Zarathustra,
per le tue nuove canzoni occorrono lire nuove». Sulle considerazioni di Nietzsche sul
linguaggio cfr. Marton 2012.
10 Cfr. JGB 296: «Ahimè, che cosa siete mai voi, miei pensieri scritti e dipinti! Or non
è molto eravate ancora così versicolori, giovani e maliziosi, così colmi di spine e di droghe
segrete, che mi facevate starnutire e ridere – e ora? Avete già messo a nudo la vostra
novità, e alcuni di voi sono pronti, lo temo, a divenire tante verità: hanno già un’aria così
immortale, così onesta da spezzare il cuore, così noiosa!».
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Genealogia della morale 35
che definisce un «libero pensatore», «un rispettabile animale»,
«un democratico», per poi concludere: «Fino a quell’istante era
tutt’orecchi e non ce la faceva più a sopportare il mio silenzio.
Poiché per me, a questo punto, c’è molto da tacere» (GM I 9).
Tacendo, Nietzsche fa intendere che il dialogo con quell’interlo-
cutore non sia possibile; ancora di più, egli manifesta le difficoltà
che si trova a dover superare per poter esprimere le proprie idee.
Il desiderio di Nietzsche di farsi comprendere è evidente an-
che nel momento in cui, in uno dei suoi scritti, egli fa riferimento
a un’altra sua opera. Questo procedimento viene adottato per
esempio nelle prefazioni del 1886, aggiunte a libri già editi. Ne
è un caso la prefazione a Umano, troppo umano II, nella quale,
dopo essersi mostrato ancora una volta reticente nei confron-
ti del linguaggio, Nietzsche afferma che «bisogna parlare solo
quando non è lecito tacere; e solo di ciò che si è superato» (MA
II, Prefazione 1). Inoltre, riferendosi alle Considerazioni inattuali,
osserva che le prime tre dovrebbero essere retrodatate. Lo stes-
so procedimento ricorre negli scritti del 1888. Nel Crepuscolo
degli idoli, per esempio, Nietzsche riprende un passo dello Za-
rathustra (GD, Parla il martello), mentre in Ecce homo vengono
citati molti passi dello stesso poema11. E cosa dire di Nietzsche
contra Wagner, in cui Nietzsche raccoglie passi tratti da libri pre-
cedentemente pubblicati, col preciso scopo di mostrare che lui e
il compositore erano nature antitetiche sin dal 1877?
La Genealogia è ricca di rimandi di questo tipo. Nella prefa-
zione, per esempio, Nietzsche afferma che il suo studio dei pre-
giudizi morali era iniziato già con Umano, troppo umano (GM,
Prefazione 2); rimanda il lettore a passi specifici di quel testo e di
altre sue opere, come la raccolta di Opinioni e sentenze diverse,
Il viandante e la sua ombra e Aurora (ibid.)12; infine, tratta della
11 In EH, Prefazione 4 tornano passaggi tratti da Za, Nelle isole beate e Della virtù che
dona 3.
12 In GM, Prefazione 2, in particolare, Nietzsche rimanda a MA 45 a proposito della
doppia preistoria di bene e male; a MA 136 in merito all’origine della morale ascetica; a
MA 96 e 100 e a VM 89 per quel che riguarda l’eticità dei costumi; a MA 90, WS 26 e M
112 sull’origine della giustizia; a WS 22 e 33 sull’origine del castigo.
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36 Scarlett Marton
comprensibilità dei propri scritti, prendendo come esempio lo
Zarathustra (GM, Prefazione 8). Nel corso delle tre dissertazioni,
Nietzsche fa invece più volte riferimento ad Al di là del bene e
del male, Aurora e La gaia scienza13 e, all’inizio della terza disser-
tazione, cita in particolare un passo dello Zarathustra (GM III 1,
in cui è citato Za, Del leggere e scrivere).
Non si può negare che Nietzsche dia sempre e continuamen-
te prova della propria premura didattica. Ma, contrariamente
a quanto si potrebbe supporre, alcuni procedimenti di cui egli
fa uso nella Genealogia – come ad esempio rimandare ai propri
scritti – invece di semplificare il lavoro del lettore, finiscono per
appesantire la complessità dell’opera. Se infatti molte delle rifles-
sioni che Nietzsche sviluppa nella Genealogia sono già presenti
in altre opere, il lettore è spinto a interrogarsi sulle novità che
Nietzsche intende apportare alle proprie considerazioni prece-
denti nel suo ultimo scritto.
Ora, si potrebbe ipotizzare che, data la forma di dissertazione
che la contraddistingue, la Genealogia costituisca un caso sin-
golare e indipendente rispetto agli altri testi che rientrano nel
corpus nietzscheano, e che, inoltre, essa offra un percorso di ac-
cesso privilegiato al pensiero del filosofo nel suo complesso. Sa-
rebbe anche possibile sostenere che, essendo strutturata in una
prefazione seguita da tre dissertazioni, quest’opera presenti un’e-
sposizione lineare del pensiero di Nietzsche attorno ai fenomeni
morali. Infine, dato il carattere dimostrativo di questa esposizio-
ne, la Genealogia sembrerebbe essere un testo particolarmente
accessibile. Queste ipotesi sono naturalmente tutte da verificare,
e ad esse ci dedicheremo nelle sezioni che seguono.
3.
Quando, nel 1887, inizia a redigere Genealogia della morale,
Nietzsche scrive all’editore Naumann che «questo scritto pole-
mico è strettamente connesso ad Al di là del bene e del male,
13 GM I 7 rimanda a JGB 195; GM II 6 a JGB 197 e M 18, 77 e 113; GM III 9 a JGB
260 e M 18; GM III 24 a FW 344 e alla prefazione di M; GM III 27 a FW 357.
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Genealogia della morale 37
come sua integrazione e chiarimento» (Lettera a C.G. Naumann,
8.11.1887)14. Ma, così come la sua nuova opera avrebbe dovuto
chiarire Al di là del bene e del male, quest’ultima doveva spie-
gare lo Zarathustra – come Nietzsche stesso aveva fatto notare
al proprio editore, in una lettera in cui si legge che Al di là del
bene e del male «è una sorta di introduzione nei retroscena dello
Zarathustra» (Lettera a E.W. Fritzsch, 7.8.1886)15. Tutto porta a
pensare che, nel redigere questi tre libri, Nietzsche stesse cercan-
do di tradurre i medesimi problemi in diverse formulazioni; ma
soprattutto che, con l’intento di venire incontro ai propri lettori,
egli abbia fatto ricorso a tutta la propria premura didattica.
Se esaminati da vicino, Così parlò Zarathustra, Al di là del bene
e del male e la Genealogia della morale rivelano una certa con-
tinuità. Tra i vari elementi che accomunano questi testi non si
può trascurare il procedimento genealogico. Non ci sono dub-
bi che il termine “genealogia” compaia solamente nell’ultima di
queste opere, così come è indubbio che sia in quest’ultima che
il compito genealogico si manifesti in tutta la sua pregnanza16.
Nietzsche chiarisce in particolare che non si deve far confusione
tra “genealogia” e “genesi”17: mentre il procedimento genetico
ricerca l’origine delle cose, presupponendo di poter risalire fino
alla loro essenza, quello genealogico critica proprio la nozione di
essenza, ponendo in questione il valore che viene da lungo tempo
attribuito alle cose.
Nella Genealogia, Nietzsche prende in esame la nozione di
valore e con ciò opera un’inversione critica. Nel dedicarsi a que-
14 Cfr. anche Stegmaier 1994: 26. Nella stessa lettera a Naumann, e sempre riferen-
dosi alla Genealogia, Nietzsche scrive anche: «Il mio desiderio principale, per quanto
riguarda questa pubblicazione, è quello di ottenere qualcosa che torni a vantaggio dei
miei scritti precedenti: che inviti cioè a leggerli e a prenderli sul serio».
15 Cfr. anche la lettera a R. von Seydlitz, 26.10.1886, in cui si legge: «È una sorta di
commento al mio Zarathustra. Ma come mi si dovrebbe comprendere bene per capire in
quale senso ne sia un commento!».
16 Col termine “genealogia”, Nietzsche specifica quello che in JGB aveva chiamato
«storia naturale della morale». L’idea è in qualche modo già presente in MA, in partico-
lare nella sezione intitolata Contributo alla storia dei sentimenti morali.
17 Cfr. a questo proposito Foucault 1971 e, sull’interpretazione foucaultiana di
Nietzsche, Marton 2009b.
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38 Scarlett Marton
sta nozione, egli pone fin da subito la questione del valore dei
valori, aprendo così la strada per una creazione dei valori. Se
il valore di valori come “bene” e “male” non è mai stato posto
in questione, è perché si guardò a essi come se esistessero da
sempre: in quanto appartenenti a un al di là, questi trovavano
legittimazione nel mondo soprasensibile. Una volta, però, che li
si ponga in questione, essi rivelano immediatamente il loro essere
semplicemente “umani, troppo umani”. Non si può dire dove né
quando abbiano avuto origine, ma sembra certo che questi valori
siano creazioni dell’uomo. Il valore dei valori deve quindi essere
giudicato facendo riferimento al punto di vista dal quale questi
ultimi traggono origine. Non basta, cioè, guardare alle prospet-
tive valutative che essi aprono, ma si deve risalire al valore che
essi possedevano nel momento in cui sono stati posti per la prima
volta. Dal punto di vista nietzscheano, la questione del valore è
duplice: i valori presuppongono valutazioni che hanno dato loro
origine e gli hanno conferito il valore che possiedono; queste,
per parte loro, nel momento in cui creano determinati valori ne
presuppongono altri, che sono il fondamento dello stesso giudi-
zio valutativo18. Il procedimento genealogico comporta, quindi,
due direttrici inseparabili: da un lato, bisogna porre i valori in
relazione col procedimento valutativo, mentre dall’altra bisogna
porre il procedimento valutativo in relazione coi valori.
Se si considera la Genealogia della morale nel suo complesso,
si nota prima di tutto che il movimento del testo è tale per cui
esso si apre con un rifiuto dell’idea che il fondamento ultimo dei
valori morali possa essere trovato sul piano della metafisica e si
chiude con una denuncia dei postulati metafisici surrettiziamen-
te presenti nella morale degli schiavi. L’invenzione di un altro
mondo permette agli uomini del risentimento di restaurare prin-
cipi trascendenti, che vengono posti come fondamento della mo-
ralità; in questo modo, essi disprezzano il mondo in cui vivono e
negano il carattere “umano, troppo umano” dei valori che loro
18 Seguiamo qui la lettura di Deleuze e la sua dettagliata analisi della nozione
nietzscheana di valore e del procedimento genealogico (Deleuze 1973: Il tragico 1-3).
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Genealogia della morale 39
stessi istituiscono. Dopo aver spiegato la prospettiva che intende
adottare per riflettere sulle questioni morali, Nietzsche esami-
na innanzitutto i valori “bene” e “male”, così come sono stati
adottati nelle antitetiche modalità giudicative dei nobili e degli
schiavi. In seconda battuta, egli analizza il modo di procedere
degli uomini del risentimento, mostrando la genesi delle nozioni
di “colpa”, “giustizia”, “castigo” e “cattiva coscienza”. Infine,
Nietzsche si concentra sull’operato di questi uomini nell’ambito
artistico, in filosofia, nella religione e nella scienza, mettendo in
luce come tutte queste siano manifestazioni dell’ideale ascetico.
Nelle tre dissertazioni nel loro complesso, Nietzsche passa al se-
taccio della genealogia della morale il comportamento e la pro-
duzione dell’uomo del risentimento, sottoponendoli a una valu-
tazione critica e giudicandone gli aspetti negativi. In tutti i casi si
tratta di tentativi messi in atto da chi non ha la forza di lottare e
cerca di evitare il conflitto e quindi denigrare la vita, che, secon-
do Nietzsche, non è altro che una lotta senza fine e senza sosta.
La Genealogia si presenta, quindi, come l’opera in cui l’auto-
re esplicita il procedimento genealogico meglio di quanto abbia
fatto nelle opere precedenti – per quanto, torniamo a ripetere,
questo procedimento sia già presente tanto in Al di là del bene e
del male che in Così parlò Zarathustra.
4.
Per verificare il fatto che Nietzsche abbia adottato il procedi-
mento genealogico già prima della Genealogia, si prenda in con-
siderazione ad esempio la sezione intitolata Dei dispregiatori del
corpo del primo libro dello Zarathustra. L’obiettivo del protago-
nista in questo discorso consiste nell’attaccare il dualismo corpo-
anima e, in questo modo, combattere l’idea di un “io”, di un sog-
getto che permane o che può in qualche modo essere individuato.
In nome del Sé (Selbst), Zarathustra promuove quindi la critica
dell’io (Ich). Nietzsche non mostra o rivela cosa sia il Sé, né chia-
risce cosa intenda con questo termine; semplicemente, si limita ad
assumerlo come sinonimo di “corpo”. Una volta identificato con
quest’ultimo, il Sé permette di concepire l’io in un altro modo,
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40 Scarlett Marton
come entità inscritta in un diverso registro. È solo per mezzo di
una finzione che l’io – che è pluralità di affetti e molteplicità degli
impulsi – può costituire un’unità. Non è un caso che Nietzsche
introduca questa sezione subito dopo quella intitolata Di coloro
che abitano un mondo dietro al mondo: la critica del soggetto è di-
fatti chiaramente debitrice della critica della metafisica, in quanto
i metafisici, che postulano una visione dualistica del mondo, po-
stulano allo stesso modo il dualismo corpo-anima.
Dopo aver introdotto il problema che intende trattare – le
diverse prospettive che si hanno del corpo – e aver chiarito la
propria posizione – l’idea che il corpo preceda l’io –, Zarathustra
affronta il suo obiettivo: svolgere una diagnosi dei propri antago-
nisti. «Voglio dire una parola ai dispregiatori del corpo. Che essi
disprezzino è dovuto al loro apprezzare», afferma Zarathustra,
e quindi domanda: «Ma che cos’è che ha creato l’apprezzare e
il disprezzare e il valore e la volontà?». A questo interrogativo,
Zarathustra risponde che «il Sé creatore ha creato per sé apprez-
zare e disprezzare, ha creato per sé il piacere e il dolore», per poi
concludere: «Persino nella follia del vostro disprezzo, dispregia-
tori del corpo, voi servite il vostro Sé. Io vi dico: è il vostro Sé che
vuol morire e si allontana dalla vita».
Osservando che il disprezzo che i suoi antagonisti tributano
al corpo deriva dal loro apprezzamento per l’anima, Zarathustra
mette in relazione valori e valutazioni. Inoltre, egli giudica que-
ste valutazioni, quando conclude che nei dispregiatori del corpo
è il Sé a voler perire e il corpo a voler scomparire. Per quanto
ancora in nuce, il procedimento genealogico, con il suo duplice
movimento, si manifesta comunque già in questo discorso dello
Zarathustra. Prima di tutto, il protagonista dell’opera riporta i
valori alle valutazioni dalle quali essi traggono origine; quindi,
sottopone a giudizio queste prospettive valutative, domandan-
do cosa abbia «creato l’apprezzare e il disprezzare e il valore e
la volontà»; infine, nel rispondere a quest’ultimo interrogativo
affermando che è il proprio corpo a richiedere apprezzare e di-
sprezzare, Zarathustra esplicita il criterio che intende adottare
per valutarli entrambi.
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Genealogia della morale 41
Il Al di là del bene e del male il procedimento genealogico si
mostra ad esempio al § 260. Nietzsche inizia affermando l’esi-
stenza di due tipi principali di valutazioni: quella dei signori e
quella degli schiavi19. La maniera aristocratica di giudicare, in
particolare, dà risalto al sentimento di pienezza e di eccesso di
forza. «“Noi veritieri” – così i nobili chiamavano se stessi nell’an-
tica Grecia». Prendendo se stesso come unico punto di riferi-
mento, l’aristocratico non ha bisogno di approvazione e abban-
dona qualsiasi termine di comparazione; «conosce se stesso come
quel che unicamente conferisce dignità alle cose, egli è creatore
di valori». Inizialmente, egli conferisce valore solamente agli uo-
mini, ma poco dopo, per estensione, lo fa anche con le azioni. Lo
schiavo, al contrario, valuta prima di tutto le azioni e giudica gli
uomini in base a esse. Poco importa quale sia il criterio di giudi-
zio adottato: le azioni possono essere valutate esaminando le loro
conseguenze, considerando i motivi che le hanno ispirate, giu-
dicando le intenzioni con le quali sono state compiute o persino
considerandole buone o cattive “in sé”. Alla fine, comunque, il
principio della valutazione di un individuo sarà sempre il modo
con cui egli si relaziona col gruppo di cui fa parte (se l’aristocra-
tico è “cattivo” perché incute timore, allora colui dal quale non
vi è nulla da temere deve essere “buono”). Ponendo una cesura
tra uomo e atto, si dà avvio a un processo di moralizzazione che
tende a raccogliere tutto al suo interno.
In tutto JGB 260, in cui vengono presi in esame questi due
tipi di valutazione, Nietzsche porta avanti una critica delle
«idee moderne»20. Nel trattare della morale dei signori, quindi,
Nietzsche dimostra di trovarsi agli antipodi rispetto a una morale
che attribuisce valore al disinteresse, all’altruismo e alla compas-
sione. Quando invece si occupa della morale degli schiavi, egli
mette bene in evidenza come quest’ultima dia rilievo ai mezzi
adottati da chi soffre e che facilitano la sua sopravvivenza. Men-
19 È bene ricordare che l’idea di una duplice storia dei valori di bene e male si trova
già in MA 45.
20 Nietzsche considera Al di là del bene e del male proprio come «una critica della
modernità» (cfr. EH, Al di là del bene e del male 2).
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42 Scarlett Marton
tre la morale dei signori «è estranea al gusto dei contemporanei
e per essi spiacevole nel rigore del suo principio, che si hanno
doveri unicamente verso i propri simili», la morale degli schiavi
«è essenzialmente morale utilitaria» (JGB 260).
Nella Genealogia della morale, dopo aver esposto con partico-
lare chiarezza, nella prefazione, cosa intenda per procedimento
genealogico, nel § 10 della prima dissertazione Nietzsche ripren-
de le questioni trattate in JGB 260. Concentrandosi sull’analisi
della coppia di valori “bene” e “male”, “buono” e “malvagio”,
però, invece di assumere come obiettivo critico le “idee moder-
ne”, egli introduce la nozione di risentimento. Le parole chiave
per comprendere questo sentimento sono odio e desiderio di
vendetta. È la differenza, in particolare, che causa l’odio, o, me-
glio, a generarlo è il rifiuto della differenza. Incapace di contra-
stare il forte, l’uomo risentito chiede vendetta, ma, non potendo-
la attuare, immagina il momento in cui la sua ira calerà impietosa
e implacabile; così, egli fantastica sul momento in cui la vendetta
gli sarà finalmente concessa. Il desiderio di vendetta nasce quindi
dalla propria impotenza, e di essa si alimenta. Per questo motivo
il risentimento non è sinonimo di reazione: è proprio perché in-
capace di reagire che il debole diventa risentito.
Sulla base del percorso di analisi svolto da Nietzsche, si pos-
sono trarre alcune conclusioni. Prima di tutto, quello che la mo-
rale dei signori valuta “buono” deve essere diverso da ciò che
la morale degli schiavi indica col medesimo termine. Così come
i valori “buono” e “cattivo” sono stati creati dal punto di vista
aristocratico, “buono” e “malvagio” seguono dalla prospettiva di
valutazione degli schiavi. Questi valori derivano da due attitudini
opposte: nel primo caso da un movimento di autoaffermazione,
nel secondo da una tendenza negatrice e oppositrice. È chiaro,
quindi, che non ci può essere equivalenza nel significato dei
termini adottati, come è evidente nel caso del valore “buono”,
a seconda che esso sia affermato dai signori o dagli schiavi. In
secondo luogo, inoltre, si può dire che questo valore “buono”
affermato in una delle due morali corrisponda esattamente al va-
lore opposto, al “malvagio”, nell’altra. Nel momento in cui i forti
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Genealogia della morale 43
affermano: «Noi nobili, noi buoni, noi belli, noi felici», i deboli
dicono: «Se loro sono malvagi, allora siamo noi ad essere buoni».
Pertanto, dal punto di vista della morale del risentimento, “mal-
vagio” è precisamente il nobile, il coraggioso, il più forte, quello
che nella morale dei signori è definito “buono”. La morale degli
schiavi deriva quindi solamente da un’inversione dei valori e il
suo atto fondativo non va oltre questa reazione. Nel momento
in cui il valore “malvagio” della morale del risentimento corri-
sponde al valore “buono” dell’altra morale, i risentiti non creano
propriamente nuovi valori, ma si limitano ad invertire quelli che
erano stati posti dai nobili.
Possiamo quindi verificare il fatto che, come si era detto in
merito al procedimento genealogico, Al di là del bene e del male
spieghi Così parlò Zarathustra, mentre la Genealogia della morale
offra una delucidazione di Al di là del bene e del male. Nello Za-
rathustra, Nietzsche riflette sul comportamento dei dispregiatori
del corpo; in Al di là del bene e del male, esamina la condotta
degli uomini moderni; nella Genealogia, infine, analizza il modo
di procedere degli uomini del risentimento. In tutti questi casi,
Nietzsche svolge una diagnosi del modo di pensare, di agire e
di provare emozioni di coloro che evitano la lotta e che quindi
voltano le spalle alla vita. Nel passaggio da un libro a un altro, per
quanto Nietzsche affronti in ciascuno di essi diverse questioni,
egli mantiene un obiettivo comune, che consiste nel voler chiarire
e approfondire un’unica problematica principale. Sulla base di
questo, occorre quindi notare che, dal momento che già in Uma-
no, troppo umano si trovano poste questioni che Nietzsche svolge
nella Genealogia della morale, non è possibile isolare quest’ulti-
ma opera dal corpus dei suoi scritti. Inoltre, non sembra corretto
pensare che essa costituisca un testo unitario, separato e autono-
mo rispetto agli altri libri pubblicati da Nietzsche, il cui contenu-
to permetta l’accesso al pensiero del filosofo nel suo complesso.
5.
Un altro aspetto da segnalare consiste però nel fatto che, a
differenza dello Zarathustra e di Al di là del bene e del male, la
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44 Scarlett Marton
Genealogia della morale contiene indicazioni sull’approccio da
adottare nei confronti degli scritti precedenti di Nietzsche. Nella
prefazione a quest’opera, per esempio, Nietzsche scrive:
Un aforisma, modellato e fuso con vigore, per il fatto che viene letto
non è ancora «decifrato»; deve prendere inizio, a questo punto, la sua
interpretazione, per cui occorre un’arte dell’interpretazione. (GM, Pre-
fazione 8)
E continua:
Nel terzo saggio di questo libro ho presentato un modello di quel
che in un caso del genere intendo per «interpretazione» – a questo
saggio è fatto precedere un aforisma ed esso stesso ne rappresenta il
commento. (Ibid.)
Di primo acchito, saremmo portati ad affermare che in questo
libro Nietzsche intenda fornire una chiave di lettura per i propri
scritti aforistici. Ma è bene analizzare con maggiore attenzione
quanto egli dichiara in questo passo. Il testo in esergo a GM III
è il seguente:
– Incuranti, beffardi, violenti – così ci vuole la saggezza: è una don-
na, ama sempre unicamente il guerriero. Così parlò Zarathustra
L’affermazione secondo cui è questo l’aforisma di cui Nietzsche
parla nella prefazione dell’opera è problematica. In particolare,
sono due gli aspetti che saltano immediatamente all’occhio: in-
nanzitutto, il testo citato è tratto dalla prima parte di Così parlò
Zarathustra, un libro che ben difficilmente potremmo definire
aforistico – ma neppure il saggio che segue, con i suoi ventotto
ampi paragrafi, potrebbe essere considerato un testo aforistico.
Inoltre, a prima vista il saggio e l’esergo trattano temi diversi tra di
loro, e sembrano quindi avere poco a che vedere l’uno con l’altro.
D’altra parte, si può anche pensare che l’aforisma che
Nietzsche ha in mente nella prefazione della Genealogia sia il
primo paragrafo della terza dissertazione21, cosa che però è al-
21 Questa testi è stata sostenuta di recente da alcuni commentatori. Cfr. Clark 1997,
Janaway 1997, Wilcox 1998 e Miklowitz 1999.
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Genealogia della morale 45
trettanto problematica. Prima di tutto bisogna considerare che
questo paragrafo è di fatto un riassunto, con poche variazioni, di
quanto Nietzsche tratta nel resto del saggio. Inoltre, dopo aver
presentato un breve dialogo che fa capire che nulla di quello che
è stato detto fino a quel momento sia stato compreso, Nietzsche
taglia corto con la frase «cominciamo dunque da capo» (GM III
1), e con ciò chiarisce che le tesi che aveva presentato schemati-
camente verranno svolte in quanto segue.
Entrambe le possibilità considerate – che l’aforisma cui
Nietzsche si riferisce nella prefazione della Genealogia sia l’e-
sergo di GM III o il primo paragrafo di quel saggio – lasciano
diverse questioni aperte. Senza cercare di rispondere a questi
interrogativi specifici, proveremo invece a contestualizzare l’af-
fermazione di Nietzsche per cui a GM III «è fatto precedere un
aforisma ed esso stesso ne rappresenta il commento». Per far
questo, occorre tornare al § 8 della prefazione e considerarlo per
intero. Nietzsche inizia il paragrafo confrontando la Genealogia
con i propri scritti precedenti: a suo avviso, il suo ultimo libro
è «abbastanza chiaro» rispetto alle sue altre opere – che invece,
per sua esplicita ammissione, «non sono facilmente accessibili»
(GM, Prefazione 8). Prendendo come esempio lo Zarathustra,
Nietzsche osserva poi che per conoscere e comprendere quell’o-
pera è necessaria una disposizione particolare. Infine, riferendosi
agli altri suoi scritti, commenta che «la forma aforistica presenta
difficoltà: ciò è dovuto al fatto che oggigiorno non si dà sufficien-
temente importanza a questa forma» (ibid.). Fino a questo pun-
to sembra che il filosofo si stia preoccupando ancora una volta
della comprensibilità dei propri scritti. Ma è bene osservare che,
in questo paragrafo, Nietzsche si concentra solamente sulle sue
opere aforistiche. In quanto segue, infatti, egli sostiene che non
basta leggere un aforisma per decifrarlo, ma occorre svolgerne
un’interpretazione. Pertanto, bisogna capire bene cosa egli in-
tenda con “aforisma”.
In GM, Prefazione 2, Nietzsche ripercorre l’origine delle pro-
prie riflessioni sui pregiudizi morali e afferma che esse «hanno
ricevuto la loro prima sobria e provvisoria espressione in quella
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46 Scarlett Marton
raccolta di aforismi che porta il titolo “Umano, troppo umano.
Un libro per spiriti liberi”». A questo proposito, è bene sapere
che, negli anni immediatamente precedenti alla stesura del suo
primo testo aforistico, Nietzsche lesse opere dei moralisti ed en-
ciclopedisti francesi. Alla fine del 1877, quando riunì e rilesse i
suoi appunti – pagine e pagine di riflessioni su molteplici temi,
apparentemente molto diversificati e sconnessi – Nietzsche si do-
mandò se non fosse il caso di pubblicarli in questa forma. Con
tutta probabilità, in quell’occasione egli stava pensando a Dide-
rot e Voltaire, due avversari della sistematicità in filosofia, ma
anche a Chamfort e La Rouchefoucauld, con le loro sentenze e
i loro pensieri. In effetti, è noto che nel Crepuscolo degli idoli,
dopo aver sostenuto di essere, fra i Tedeschi, maestro nell’arte
dell’aforisma e della sentenza, Nietzsche dichiari come propria
ambizione «di dire in dieci frasi quel che ogni altro dice in un
libro, – ciò che ogni altro non dice in un libro…» (GD, Scorri-
bande 51). L’attenzione per le formule concise e la capacità di
fissare obiettivi e di suscitare sorpresa nel lettore, sono aspetti
che si ritrovano negli scritti dei moralisti francesi. Non a caso,
Chamfort e La Rouchefoucauld, tanto apprezzati da Nietzsche,
cercano lettori che non abbiano timore di mettersi in questio-
ne. Nei loro scritti si vede chiaramente che leggere una massima
comporta un duello con l’autore e con se stessi. Se una massi-
ma è ben scritta, essa deve infatti stimolare un gioco tra chi la
enuncia e chi la legge, poco importa se essa porta al plauso o a
un commento indignato, se implica accordo o contestazione. È
quindi lecito affermare che, se i moralisti francesi fanno ricorso
alla sentenza, è perché il loro intento è prima di tutto quello di
provocare il lettore.
Nietzsche persegue il medesimo obiettivo. In Così parlò Zara-
thustra, egli chiarisce qual è la propria concezione della sentenza,
e nella sezione Del leggere e scrivere, afferma:
Chi scrive in sangue e sentenze, non vuol essere letto ma imparato
a mente. Sui monti la via più diretta è quella da vetta a vetta: ma per
questo occorre che tu abbia gambe lunghe. Le sentenze devono essere
vette: e coloro ai quali si parla devono essere grandi e di alta statura.
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Genealogia della morale 47
Adottando le sentenze come vette del pensiero, Nietzsche
pensa che esse si contrappongano al raziocinio discorsivo unifor-
me, noioso e monotono. Irriverenti, le sentenze mettono in que-
stione i pregiudizi e scuotono le opinioni comunemente accetta-
te; in breve, provocano il lettore. Tuttavia, dal momento che egli
esige che il lettore le impari a memoria, Nietzsche non si limita a
cercare – come fanno i moralisti francesi – un lettore ricettivo e
soprattutto coraggioso; piuttosto, egli pretende che i propri let-
tori siano disposti a incorporare quelle massime nella loro vita.
Da quanto visto finora si può già inferire che Nietzsche at-
tribuisce al termine “aforisma” impiegato nella prefazione del-
la Genealogia un senso affine a quello di “sentenza”. In effet-
ti, quando nel Crepuscolo Nietzsche definisce se stesso sommo
maestro dell’aforisma e della sentenza tra i Tedeschi, egli stes-
so associa queste due modalità di scrittura. D’altra parte, però,
Nietzsche sostiene anche che per decifrare un aforisma non è
sufficiente leggerlo, ma occorre anche interpretarlo, e a questo
scopo è necessaria un’arte dell’interpretazione.
A questo punto della nostra indagine è bene insistere una
volta di più sull’idea che Nietzsche richieda ai lettori dei pro-
pri aforismi e sentenze la capacità di incorporarle. Interpretare
non può consistere nel solo esame critico della verità o falsità di
determinate proposizioni. Attribuendo un senso completamente
nuovo al concetto di interpretazione – che si aggiunge ai molte-
plici sensi che egli stesso adotta – Nietzsche stabilisce una stret-
ta relazione tra arte dell’interpretazione e filologia, intendendo
quest’ultima come arte del leggere bene. In Al di là del bene e
del male, infatti, Nietzsche non esita a definirsi un «vecchio fi-
lologo che non può esimersi dalla malizia di riveder le bucce a
certe cattive arti interpretative» (JGB 22). Considerando che le
arti interpretative possono essere buone o cattive, Nietzsche af-
ferma in particolare che la fisica del proprio tempo non rappre-
senta una spiegazione del mondo, ma «una [sua] interpretazione
e un ordine imposto ad esso» (JGB 14); in quanto postula una
«normatività della natura» (JGB 22), essa però non fa altro che
proporre una cattiva interpretazione. Non si dimentichi, inoltre,
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48 Scarlett Marton
che Nietzsche, filologo di formazione, intende l’arte dell’inter-
pretazione, che egli stesso esercita, come una pratica finalizzata a
smascherare illusioni e autoinganni, a sospettare di tutto ciò che
ci si presenta come veritiero.
6.
Le considerazioni sull’atteggiamento di Nietzsche nei con-
fronti dei propri lettori stimolano alcune ulteriori osservazioni
sulla Genealogia della morale, a partire dal fatto che essa venga
presentata come uno scritto polemico, uno scritto conflittuale22
e che, nell’esergo di GM III, Nietzsche esprima l’idea che, in
quanto donna, la saggezza ami «sempre e unicamente un guerrie-
ro». Questi due aspetti possono essere collegati, proprio a parti-
re da una riflessione sul rapporto di Nietzsche con i destinatari
delle sue opere. Egli si presenta infatti come un guerriero, non
nascondendo la propria indole bellicosa e provocatoria quando,
nel sollevare la domanda «che significano gli ideali ascetici?»,
mette in questione ciò che fino a quel momento ha orientato l’a-
gire umano. La sua diagnosi del modo in cui l’uomo si è abituato
a concepire il mondo e a trovare il proprio posto al suo interno
culmina infatti in una denuncia della «volontà del nulla» che si
trova alla base della civiltà occidentale (GM III 28), e serve a
Nietzsche per far capire ai propri lettori che essi possono rea-
lizzare una trasformazione del loro modo di concepire uomo e
mondo. Egli si prefigge quindi come scopo recondito quello di
spingere questi lettori ad abbracciare un diverso modo di pen-
sare, agire e provare emozioni, e pertanto passa da una premura
didattica a fini strategici.
È possibile che, nella Genealogia, Nietzsche abbia formulato
con maggiore precisione i problemi relativi ai fenomeni morali
per venire incontro ai propri lettori. È anche possibile che egli
abbia adottato un linguaggio più accessibile per trattare tali pro-
blemi in modo da rendersi meglio comprensibile. Tuttavia, non
22 In alcuni casi quest’ultima può essere la traduzione migliore per rendere l’espres-
sione originale che compare nel sottotitolo al testo: Streitschrift.
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Genealogia della morale 49
possiamo trascurare il fatto che Nietzsche cerchi prima di tut-
to di persuadere il lettore, che voglia che questi fronteggi i suoi
scritti per poi stimolarlo a trasformarsi.
In Ecce homo, quando passa in rassegna le proprie opere pub-
blicate, in merito alla Genealogia Nietzsche scrive che
le tre dissertazioni che compongono questa genealogia sono forse
per espressione, intenzione e arte del sorprendere quanto più di inquie-
tante sia stato scritto fino ad oggi. Dioniso è anche il dio delle tenebre.
(EH, Genealogia della morale)
Lasciamo per il momento da parte l’analisi di quest’ultima
osservazione, a prima vista enigmatica. Nel sottolineare l’ecce-
zionalità della Genealogia «per espressione e intenzione», da un
lato Nietzsche fa riferimento alla forma e al contenuto del libro.
Tuttavia, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, egli
non presenta ragioni logiche o argomentazioni di alcun tipo;
non cerca di sottoporre al vaglio del lettore le proprie idee per
convincerlo della loro validità. Difatti, accanto a «espressione»
e «intenzione» compare l’«arte del sorprendere», che è indisso-
lubilmente connessa a forma e contenuto. Nel seguito di questa
sezione di Ecce homo, Nietzsche si dedica poi al ritmo di ciascu-
na delle tre dissertazioni che compongono la Genealogia. Que-
ste iniziano con un tono «freddo, scientifico, perfino ironico», e
proseguono in un crescendo di «agitazione», «finché poi si rag-
giunge un tempo feroce», in cui la tensione raggiunge il proprio
apice. Nietzsche rivela che l’inizio «deve indurre in errore», e
così facendo chiarisce il fatto di non aver avuto l’intenzione di
conferire al testo un carattere scientifico.
Come si può notare, Nietzsche fornisce qui una descrizione
che potremmo dire di carattere musicale e che è molto simile al
modo in cui, ancora in Ecce homo, egli si esprime in riferimento
alla sua «arte dello stile». A questo proposito, Nietzsche scrive
che «comunicare uno stato, una tensione interna di pathos, per
mezzo di segni, compreso il ritmo di questi segni – questo è il
senso di ogni stile» (EH, Perché scrivo libri così buoni). Sembra
quasi che egli concepisca lo stile come un sintomo: in quanto ma-
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50 Scarlett Marton
nifestazione di uno stato, di un pathos, lo stile indica gli impulsi
che dominano l’autore in un determinato momento, gli affetti
che lo controllano e, di conseguenza, i giudizi di valore che si
esprimono per suo tramite. Da ciò segue che non vi è uno stile
valido per tutti gli autori – qualsiasi esso sia – e neppure uno
stile che valga sempre per uno stesso autore. A questo proposito,
Nietzsche infatti afferma che «buono è qualunque stile che co-
munica realmente uno stato interno, che non si sbaglia sui segni,
sul ritmo dei segni, sui gesti» (ibid.). Vi sono tanti stili quanti
sono gli stati interni. Chiunque pensi che vi sia uno stile “buono
in sé” non è altro che un idealista. Chiunque pensi di possedere
uno stile universalmente buono non sta facendo altro che mani-
festare gli impulsi che lo dominano. Se il buono stile è quello che
comunica la tensione degli impulsi, la disposizione degli affetti,
questa comunicazione è possibile per l’autore solo attraverso se-
gni; inoltre, l’autore ha anche bisogno di trovare dei lettori che
vivano le stesse tensioni, le stesse disposizioni affettive.
Con la propria opera, Nietzsche va precisamente alla ricerca
di questi lettori. Per far questo, però, nella Genealogia della mo-
rale egli non ricorre a una chiarezza cristallina. Invece di affidarsi
alla luce apollinea, che delinea, distingue, dà forma, preferisce
avvalersi di Dioniso che, come si è visto, «è anche il dio delle
tenebre». Simbolizzando il primato del divenire, Dioniso rom-
pe le barriere, infrange i limiti, cancella i contorni. Rivelando
l’esuberanza dell’esistenza, evidenzia la lotta delle pulsioni che
costituiscono e dominano l’essere umano. Nel chiamare in sce-
na Dioniso, Nietzsche ci fa capire che, manifestando particolari
tensioni di impulsi e disposizioni affettive, egli ha come scopo di
stimolare nei propri lettori tensioni affini e analoghe disposizioni
affettive. In questo modo, Nietzsche si augura di suscitare in loro
un effetto trasformativo.
7.
A partire dalle considerazioni sopra esposte, e che offrono
sinteticamente uno sguardo d’insieme su alcuni dei contenuti
della Genealogia della morale, ma soprattutto sugli obiettivi che
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Genealogia della morale 51
Nietzsche si prefiggeva di raggiungere con la pubblicazione di
quel testo, sembra alquanto temerario sostenere che quest’ul-
timo contenga un’esposizione lineare delle sue idee relative ai
fenomeni morali e che si presenti come il suo scritto più acces-
sibile in ragione del suo carattere dimostrativo. Da quanto si è
visto, possiamo piuttosto osservare che il fatto che Nietzsche si
preoccupi in maniera quasi ossessiva della comprensibilità delle
proprie opere riveli ad un tempo il suo desiderio di farsi capire
e la sua ansia di trovare qualcuno che sia in condizione di com-
prenderlo. Inoltre, diventa finalmente chiaro cosa egli intenda
quando, nel Caso Wagner, afferma che la Genealogia della morale
è un libro che «ha la fortuna di essere accessibile soltanto agli
spiriti di più elevato sentire e massimamente rigorosi: agli altri
mancano le orecchie…» (WA, Epilogo).
Traduzione dal portoghese di Pietro Gori
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La bionda bestia e il prete.
Considerazioni su GM I
a partire dalle sue Lebensformen
Alberto Giacomelli
1. Simbolo e forma di vita
La prima Dissertazione della Genealogia della morale, che
reca il titolo Buono e malvagio, buono e cattivo, si presenta come
un’analisi psicologica del cristianesimo a partire dal tema del
risentimento, che Nietzsche in Ecce Homo definisce «un movi-
mento di rivalsa, nella sua essenza, la grande rivolta contro il
dominio dei valori aristocratici» (EH, Genealogia della morale).
Questo contributo intende mettere in luce la rilevanza del pe-
culiare utilizzo da parte di Nietzsche di Lebensformen, ossia di
forme di vita intese come tipi psicologici esemplari, come “para-
digmi esistenziali”, al fine di argomentare, nel contesto di GM I,
la genealogia dei concetti, o meglio dei valori morali, di «buono
e malvagio, buono e cattivo» e il loro intreccio con la questione
del ressentiment. Sebbene il termine Lebensform non costituisca
esplicitamente un concetto chiave nell’economia generale del
pensiero nietzscheano1, l’operazione della tipizzazione psicolo-
1 Nietzsche non sembra attribuire al termine Lebensform, che tra le opere pub-
blicate e i frammenti postumi occorre in tutto una decina di volte, una declinazione
precipua: solo un’occorrenza è contenuta all’interno della Genealogia in riferimento alle
asketischen Lebensformen. Il concetto di Lebensform, connesso a quello di Idealtyp der
Individualität, risulta centrale nella riflessione Eduard Spranger (1921/1966: 20 ss.). Egli
recepì l’influenza nietzschena della cosiddetta Lebensphilosophie in particolare attraver-
so la tradizione ermeneutica inaugurata dal suo maestro Wilhelm Dilthey: per Spranger
i «tipi umani» sembrano costituire esclusivamente uno strumento euristico finalizzato a
ridurre la complessità del reale, tramite quell’operazione di schematizzazione e astrazio-
ne che per Nietzsche è alla base della scienza. La Lebensform appare d’altro canto uno
strumento necessario per stemperare gli esiti nichilisitci dell’eraclitismo nietzscheano,
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56 Alberto Giacomelli
gica rappresenta di fatto – in particolare a partire dagli anni di
stesura dello Zarathustra – una costante nelle opere di Nietzsche,
il quale si serve di figure, di Sinnbilder, Denk-bilder, Gestalten,
per delineare «categorie psichico-culturali» (Yovel 1998: 129) e
dunque particolari modalità di espressione della volontà di po-
tenza2.
A partire dalla Nascita della tragedia, le figure dell’artista dio-
nisiaco, del genio creatore, del coreuta, dell’eroe e in definitiva
gli stessi Omero, Archiloco, Eschilo, Sofocle, Euripide e Socra-
te rappresentano dei “tipi” da intendersi come personificazioni
concettuali, così come il Wanderer e il freier Geist raffigurano in
Umano, troppo umano le modalità di esistenza del confutatore
della metafisica, dello scettico, del maestro del sospetto che si
emancipa dai valori assoluti e dalla logica del risentimento. Nel-
lo Zarathustra, poi, le Lebensformen si affollano nel più colorito
consesso simbolico-allegorico: il pagliaccio-giullare, il santo ve-
gliardo, il cammello, il leone, il fanciullo, il pallido delinquente,
le mosche del mercato, le tarantole, il coscienzioso dello spirito,
l’indovino, il mago e così via sono tutte configurazioni, immagi-
ni sensibili, maschere – nel senso classico di dramatis personae
– in cui si esprime la vasta casistica delle formazioni provviso-
rie dell’umano, dal positivista al borghese, dal socialista al me-
lanconico (Giacomelli 2012: 19). La casistica tipologica, che in
senso lato risulta per Nietzsche sottesa alla grande generalizza-
dal momento che il tipo diventa per Spranger un ausilio tecnico per la psicologia non
lontano dall’idea regolativa kantiana.
2 Commentando la Genealogia, Stegmaier fa significativamente riferimento alla
«Nietzsches Typisierung», mostrando come le «decise tipizzazioni» risultino necessarie
a Nietzsche per delineare i contorni dei caratteri psicologici facendone emergere i tratti
più significativi senza pretese definitorie unilaterali (Stegmaier 1994: 89;107). È noto poi
come la questione “tipologica” di matrice nietzscheana abbia giocato un ruolo essenzia-
le nella fondazione della psicologia analitica di Jung, che individuò in particolare nella
Nascita della tragedia e nella Genealogia della morale i riferimenti chiave per la stesura
nel 1921 dei suoi Psychologische Typen (Bishop 1995: 124-129). L’importanza della que-
stione del “tipo” nella riflessione nietzscheana viene rilevata anche da Heidegger, il quale
afferma che «l’unicità del “tipo” consiste in una chiara regolarità dello stesso carattere
che non tollera tuttavia alcun arido egualitarismo, ma ha bisogno di una peculiare gerar-
chia» (Heidegger 1961/2005: 654).
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La bionda bestia e il prete 57
zione psicologica tra il tipo attivo-creatore e il tipo passivo-reat-
tivo, appare centrale anche nella Genealogia, in cui le figure del
nobile-aristocratico, del padrone e dello schiavo, della bestia da
preda, dell’ebreo, del sacerdote e via dicendo risultano funzionali
all’interpretazione dei vari approcci all’esistenza dei singoli, nei
quali la volontà di potenza rivela la propria natura plurale e mol-
teplice, dal momento che si identifica con l’intreccio di relazioni
delle diverse esistenze singolari, ovvero con i conflittuali campi
di forze mai riconducibili a un centro che costituiscono la rete di
interazioni del mondo. Nietzsche opera dunque consapevolmen-
te un processo di semplificazione, una sorta di reductio ad simile
relativa ai gradi di potenza degli individui concreti, cosicché la
Lebensform assume la funzione di condensare in sé un intreccio
di impulsi altrimenti inesplicabile: dall’aristocratico al prete, dal-
la controversa “bestia bionda” all’ebreo, i comportamenti dei
“tipi umani” si strutturano e si ordinano gerarchicamente, come
la salute e la malattia, in base a «differenze di grado» (NF 1888-
89, 14[65]), cioè in base al rapporto delle forze che essi espri-
mono. Sono perciò prodotti dalla specifica posizione che il tipo
occupa nello scontro tra forze. L’irriducibilità di tale interazione
conflittuale a una dimensione metafisica ci consente di approc-
ciare la Genealogia come teoria morale dell’interpretazione che
riconosce il mondo come gioco infinito di pulsioni rivali, e quindi
come volontà di potenza. Con la sua tipizzazione Nietzsche non
intende inventariare i tipi psicologici del suo tempo incasellando-
li in una rete categoriale stabile di stereotipi, ma al contrario dare
provvisoriamente dei volti ai valori che hanno scandito la storia
della morale occidentale. Il passaggio dall’individuale al tipico
consente a Nietzsche di proporre una “fenomenologia dell’uma-
no” finalizzata a quello che sente essere il compito più stringente
per il filosofo, che «deve risolvere il problema del valore, deve
determinare la gerarchia [Rangordnung] dei valori» (GM I 17n.).
Proprio per il loro carattere cangiante, le Lebensformen
nietzscheane si attestano agli antipodi delle forme simboliche
intese metafisicamente come immagini primordiali sottratte al
divenire: la stessa nozione tradizionale di individuum di fatto
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58 Alberto Giacomelli
viene confutata come semplice parola che sottende una collet-
tività di istinti e affetti che prendono vita metaforicamente nel
linguaggio nietzscheano attraverso personaggi e immagini sensi-
bili. Solo se interpretiamo il tipo non come forma della realtà o
come idea trascendente, ma come immagine interpretativa della
volontà di potenza, possiamo comprendere il tentativo da parte
di Nietzsche di restituire il costitutivo polimorfismo dell’essere e
le sfaccettature prospettiche del nostro io plurale attraverso sim-
boli. Nel Sinnbild come rappresentazione plastica delle pulsioni
si esprime quindi la Lebensform come condensazione di determi-
nate caratteristiche psicologiche.
Lo stesso metodo genealogico si pone come alternativa radi-
cale all’interrogazione metafisica: solo sostituendo alla domanda
filosofica originaria “che cos’è?” la domanda «Per chi significa,
per chi ha valore, a partire da quale visione del mondo, e a favore
di quale tipo umano ciò che ha valore è ritenuto avere valore?»
(Canevari 2008: 18), per Nietzsche diventa possibile la sovver-
sione (Umkehrung) dei valori di «buono» e «cattivo». Al ti èstin
socratico, che inaugura la tradizione platonico-cristiana oppo-
nendo al divenire un’essenza, un modello nel senso di eidos, di
fondamento universale in sé e per sé (auto kath’hauto), il metodo
genealogico oppone un’origine storica, psicologica, umana delle
azioni morali. Il valore perciò va interpretato in relazione alla
sua capacità di accrescere o diminuire la potenza, di vivificare e
indebolire la Lebensform. L’impostazione genealogica contrap-
pone dunque a una ricerca sulle essenze kath’hauto, una ricer-
ca sempre relativa a qualcuno che percepisce, ossia prós ti. La
pratica genealogica nietzscheana ha la finalità di smascherare la
«pudenda origo» della morale (NF 1885, 2[189]), mostrando in-
nanzitutto che i valori non sono mai realtà in sé ma interpretazio-
ni, e in particolare interpretazioni di quegli istinti negati prima
dalla psicologia cristiana e poi idealista. Ecco che una delle virtù
psicologiche essenziali e delle determinazioni fondamentali della
genealogia diventa il sospetto, che «consiste nel guardare dietro,
sotto, in altri termini nell’esplorazione delle origini sotterranee
di un’interpretazione» (Wotling 2006: 55). Sospettare significa
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La bionda bestia e il prete 59
poi anche smascherare, non ai fini di trovare un’essenza al di là
dell’apparenza, ma di attestarsi sulla superficie, di riconoscere
l’impraticabilità di qualsiasi dualismo metafisico e di accoglie-
re la morale come gioco di superfici prive di sfondo (Gurisat-
ti 2012: 15-16). Il cielo dei valori e delle verità assolute viene
dunque riportato da Nietzsche al suo luogo di nascita “umano,
troppo umano” e analizzato nel suo sviluppo storico-psicologi-
co. I valori sono intesi come prodotto relativo allo spazio e al
tempo, legati a condizioni sociali e a complessi meccanismi di
interazione, soggetti a trasformazioni caratterizzate da processi
di generazione, maturazione, morte talora violenta, coinvolti in
un conflitto continuo e capaci di metamorfosi e rinascite. Con il
proprio lavoro di scavo il metodo genealogico prelude sorpren-
dentemente al procedimento psicoanalitico, dal momento che
Nietzsche non parla di sostanza, di essenza, di cause prime, ma
di risentimento, senso di colpa, conflitto dell’interiorità, crudel-
tà, cattiva coscienza: egli affronta il tema dell’enigma del sé, e ne
ricerca, da psicologo, le origini profonde, latenti, un-bewussten.
2. Genealogia della psicologia del profondo.
L’uomo del sottosuolo
Decisivo risulta in questo senso l’incontro di Nietzsche con
il volume L’esprit souterrain di Dostoevskij. La concomitanza
tra la lettura a Nizza delle Memorie dal sottosuolo (seppure in
una traduzione francese assai libera rispetto all’originale)3 e la
stesura della Genealogia consente a Nietzsche di intrecciare le
proprie intuizioni sulla psicologia del profondo con la critica al
3 Il testo letto da Nietzsche a Nizza nel 1886, ossia L’esprit souterrain (trad. di E.
Halpèrine y Ch. Morice, Paris: Plon), non corrispondeva letteralmente alle Memorie del
sottosuolo, ma consisteva, nella sua prima parte, nella traduzione abbastanza fedele di
una novella di gioventù intitolata La patrona (1847), che nel volume appare col titolo di
Katia, protagonista del racconto; la seconda parte de L’esprit souterrain consisteva invece
nella traduzione parziale molto libera delle Memorie del sottosuolo (1864), presentata con
il titolo di Lisa, figura femminile centrale nelle Memorie (Stellino 2011: 114).
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60 Alberto Giacomelli
razionalismo filosofico fondato sulla conoscenza di sé, al punto
che, riferendosi alla seconda parte de L’esprit souterrain, e dun-
que alla rivisitazione delle Memorie del sottosuolo intitolata Lisa,
egli definisce il racconto «una autoderisione del “conosci te stes-
so”» (lettera a F. Overbeck, 23.02.1887). Non solo il socratico
ti èstin, ma anche lo gnothi sautón appare dunque a Nietzsche
come principio da cui diffidare in favore di un’«incoercibile dif-
fidenza verso la possibilità della conoscenza di sé» (JGB 281)4.
Diventa così chiaro il significato delle parole con le quali si apre
la Genealogia: «Siamo ignoti a noi medesimi, noi uomini della
conoscenza, noi stessi a noi stessi (…). Non abbiamo mai cercato
noi stessi – come potrebbe mai accadere che ci si possa, un bel
giorno, trovare?» (GM Prefazione).
Nietzsche riconosce in Dostoevskij un’affinità spirituale, una
sensibilità comune nel modo di scandagliare il mondo sotterra-
neo della psiche, prescindendo da un lato dal primato della co-
scienza e dalla signoria della morale: «sono fermamente convinto
che non solo la troppa coscienza, ma anche qualunque coscienza
sia una malattia» (Dostoevskij 1864/2002: 9), dall’altro negando
l’idea come astrazione, in favore di una realtà valida solo di volta
in volta e mai in assoluto, incarnata e vivente nel personaggio let-
terario. Anche la distinzione tra tipo attivo e reattivo (così come
la nozione di ressentiment), sembra essere stata ispirata dalla let-
tura de L’esprit souterrain5, e sarà il presupposto fisiologico alla
4 Il riferimento allo gnothi sautón non è direttamente ascrivibile a Dostoevskij, ma
ai due traduttori (Halpèrine e Morice) dell’edizione francese, che risultano anche gli au-
tori “apocrifi” di un breve saggio che collega i due racconti al fine di giustificarne la
continuità e di introdurre Lisa (la versione rimaneggiata delle Memorie del sottosuolo).
(Stellino 2011: 117). I due traduttori non firmarono il saggio, nell’intento di fare apparire
anch’esso come opera di Dostoevskij e dunque di ascrivergli il riferimento alla massima
delfica. L’effetto pernicioso della conoscenza di sé viene ribadito da Nietzsche nell’acco-
stamento semantico tra «conoscitore di te stesso [Selbstkenner]» e «carnefice di te stesso
[Selbsthenker]» (DD, Tra gli uccelli rapaci).
5 Per la derivazione dostoevskijana del termine e la storia del concetto di ressen-
timent nel pensiero di Nietzsche si rimanda a Stellino 2011: 212-124. L’Autore rileva
inoltre come l’aggettivo «reaktiv» faccia la sua comparsa in un quaderno del Nachlass
nietzscheano del 1875 all’interno di una citazione tratta dall’opera di Dühring Der Werth
des Lebens.
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La bionda bestia e il prete 61
base di tali acquisizioni, ossia il discrimine tra salute e malattia,
tra l’uomo valoroso e forte e l’uomo impotente e risentito ad in-
durre Nietzsche ad affermare che solo una psico-fisiologia come
teoria dell’interpretazione delle pulsioni del corpo (e dunque
della volontà di potenza), potrà assurgere al ruolo di «signora
delle scienze» (JGB 23)6. La voce che procede all’impietosa disa-
mina dell’animo umano nella novella di Dostoevskij distingue tra
il tipo «senza carattere» e «l’uomo di carattere», ossia «l’uomo
d’azione», (Dostoevskij: 7-8): la Lebensform del «senza caratte-
re», del malato di troppa coscienza come antipode dell’«uomo
immediato», prelude chiaramente quella nietzscheana dell’uomo
del ressentiment come antipode della noblesse aristocratica, ma
il parallelismo non è così pacifico. Se in Nietzsche sarà «l’odio
dell’impotenza» (GM I 7) degli schiavi a consentirgli di rovescia-
re le antiche gerarchie e di soverchiare i ben riusciti sostituen-
do alla morale dei signori il moralismo dei preti, in Dostoevskij
sarà la vittoria dell’inetto, dell’«uomo intensamente cosciente»
a innescare una dinamica di volontà di potenza in negativo, che
crea «il sistema del delitto e del castigo, del senso di colpa e
della quasi vergogna a pretendere la felicità e a prestare ascol-
to al soggetto-corpo piuttosto che alla voce daimonica interiore
6 Tale impostazione antimetafisica, che rigetta la psicologia idealista, la nozione di
anima immateriale e, come vedremo, di intelletto puro e trasparente a se stesso, enfatiz-
zando invece il corpo e la dimensione istintivo-pulsionale, non consente d’altra parte di
innestare il pensiero di Nietzsche nell’alveo del riduzionismo naturalista, dal momento
che Nietzsche non crede che la ricerca empirica abbia un maggiore “gradiente veritati-
vo” rispetto ad altre forme di indagine, ma utilizza il naturalismo in senso metodologico,
offrendo una teoria riguardante il fenomeno morale modellata sulle moderne acquisi-
zioni scientifiche. Il superamento delle nozioni di “soggetto” e di “anima” da parte di
Nietzsche appare comunque in continuità con le acquisizioni scientifiche del suo tempo,
con particolare riguardo per gli sviluppi della cosiddetta “psicologia scientifica” di cui
Nietzsche trova notizia prima di tutto nella Storia del materialismo di F. Lange e il cui
principale obiettivo era l’affrancamento dalla metafisica della sostanza ancora imperante
nelle indagini delle scienze cognitive (cfr. Gori 2015). Nietzsche ci invita quindi a emulare
la disciplina degli scienziati quando indaghiamo noi stessi in termini di psico-fisiologia
(Janaway 2007: 45; Leiter 2002: 113). Recentemente la centralità attribuita da Nietzsche
alla dimensione fisiologica del metabolismo, del rapporto con l’ambiente atmosferico e
con l’alimentazione (EH, Perché sono così accorto, 2-3), è stata messa in relazione anche
allo stile metaforico della Genealogia (Blondel 2006: 67-75).
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62 Alberto Giacomelli
sempre pronta al giudizio». (Russo 2014: 71). L’ipertrofico della
coscienza, in virtù della sua inanità e incapacità d’azione, è una
persona malata e maligna (cfr. Dostoevskij: 5), e tuttavia psicolo-
gicamente sottile, che si trae fuori dalla condizione del mediocre
consenso quotidiano, che si svincola dalle logiche dell’abitudi-
ne e della convenzione proprio in virtù del suo arresto di fron-
te all’azione e in particolare alla volontà di vendetta. Simile ad
un uomo superiore zarathustriano, l’uomo sotterraneo sembra
quindi respingere e attrarre Nietzsche: da un lato Lebensform
risentita che si crogiola «da insetto», o «da topo» nell’amarezza e
nell’umiliazione, dall’altro lucido critico della falsità convenzio-
nale e dell’ipocrisia moralista. Ecco che l’uomo del sottosuolo,
«né cattivo né buono, né mascalzone né onesto» (Dostoevskij:
7), si rivela una figura esistenziale più complessa, che sembra an-
ticipare non tanto lo schiavo della morale, quanto semmai alcuni
tratti dell’Ulrich musiliano, protagonista de L’Uomo senza qua-
lità, figurazione esemplare della deflagrazione della soggettività.
Se è da escludersi uno specifico influsso delle Memorie del sotto-
suolo di Dostoevskij su L’uomo senza qualità di Musil, la filigrana
nietzscheana del romanzo è nota e compendia in modo evidente
i motivi della decadenza, della critica della morale, del prospet-
tivismo, del nichilismo e dell’esistenza sperimentale. Il lavoro di
scavo dostoevskijano e l’analisi genealogica di Nietzsche precor-
rono e inaugurano quindi quella ricerca rivolta alla dimensione
impersonale, irrazionale, e in definitiva inconscia che diverrà de-
cisiva a partire dal primo Novecento prima in ambito letterario,
poi in ambito filosofico e scientifico. L’impronta nietzscheana ne
l’Uomo senza qualità andrà riconosciuta in questo senso soprat-
tutto nella rilevanza dedicata allo sfondo indistinto delle emozio-
ni e delle pulsioni da cui la coscienza emerge come la punta di
un iceberg, nella critica ai valori intesi come immutabili, nell’idea
di mondo come totale relazionalità, indistricabile abbraccio di
Bene e di Male, di gioia e di dolore, che perennemente fluiscono
l’uno nell’altro.
Già all’interno dello Zarathustra la componente magmatica de-
gli istinti, che ribolle al di sotto dell’ego cosciente, viene continua-
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mente convocata: in una prospettiva in cui «mezzanotte è anche
mezzogiorno» e «tutte le cose sono incatenate, intrecciate, inna-
morate» (Za, Il canto del nottambulo), all’uomo non è mai dato di
rischiarare completamente la propria oscurità interiore. Tra i vari
simboli espressione di questa complexio oppositorum, l’albero mo-
stra all’interno dell’opera come l’elevazione della coscienza sia in-
trecciata allo sprofondare delle radici nella terra: «Quanto più egli
vuole elevarsi in alto e verso la luce, con tanta più forza le sue radi-
ci tendono verso terra, in basso, verso le tenebre, l’abisso – verso il
male» (Za, Dell’albero sul monte). I detentori delle «cattedre del-
le virtù» o della «coscienza immacolata», «coloro che abitano un
mondo dietro il mondo», i «dispregiatori del corpo», i «sublimi»,
sono Lebensformen oggetto della critica zarathustriana proprio
poiché, in un modo o nell’altro, operano al fine di arginare, inibire
o “illuminare” gli aspetti corporei, pulsionali, carnali, dionisiaci,
che appartengono all’uomo allo stesso modo in cui l’ombra ap-
partiene all’albero anche nell’ora del mezzogiorno. Il protagonista
delle Memorie del sottosuolo nega al pari di Nietzsche la possibilità
dell’uomo teoretico puro, ab-solutus, tutto coscienza: tentare di
cancellare l’oscuro, il negativo, l’ultimo resto terreno, significa an-
dare contro il monito zarathustriano di fedeltà alla terra, nonché
contro la fede nell’uomo compiutamente riuscito e trionfante po-
stulata nella Genealogia (GM I 12). L’elevazione della coscienza è
intrecciata con lo sprofondare delle radici nella terra, per cui non
esiste funzione psichica razionale che non abbia il suo rovescio
nella sfera ctonia dell’impulso, del notturno, dell’infracosciente,
ovvero nel regno goethiano delle madri (Goethe 1808/2006: 549).
Goethe stesso anticipa in effetti questo tema affermando significa-
tivamente in una lettera a Friedrich Wilhelm Reimer del 5 agosto
1810 che «l’uomo non può rimanere (…) a lungo in una condizio-
ne cosciente; egli deve rigettarsi di nuovo nell’incoscienza; perché
lì vive la sua radice» (Mazzucchetti 1949: 186).
L’uomo si caratterizza quindi per Nietzsche come pluralità
in divenire (Hinübergehender) di impulsi, e dunque come os-
simorica individualità plurale che non può venire circoscritta
dalla psicologia, ma che sfugge alla cattura: di qui la definizione
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nietzscheana «in negativo» di uomo come «animale non ancora
stabilmente determinato» (JGB, 62). Come l’uomo, anche la mo-
rale ha una natura plurivoca, che esclude l’esistenza di un uni-
co oggetto stabile alla base dell’albero genealogico. Proprio in
questa prospettiva Nietzsche polemizza all’inizio di GM I con
gli «psicologi inglesi»: da un lato può condividere con Darwin
la diffidenza nei confronti della derivazione di tutte le specie da
un’unica forma di vita originaria, dall’altro prende decisamente
le distanze dal cosiddetto positivismo evoluzionista anglosasso-
ne, in particolare dalle riflessioni di Herbert Spencer riguardo al
metodo del rigoroso razionalismo antimetafisico e alla convinzio-
ne dell’esistenza di una radice genealogica univoca7. Quest’ulti-
ma critica verrà ripresa in GM II 12:
da tempo immemorabile, infatti, si è creduto di comprendere nello
scopo comprovabile, nell’unità di una cosa, di una forma, di un’istitu-
zione, anche il suo fondamento d’origine (…). Ma tutti gli scopi, tutte le
utilità, sono unicamente indizi del fatto che una volontà di potenza ha
imposto la sua signoria su qualcosa di meno potente e gli ha impresso,
sulla base del proprio arbitrio, il senso di una funzione.
Il riferimento al Wille zur Macht e al suo imporsi nell’ottica
della Rangordnung delinea uno scenario in cui gli impulsi, os-
sia le «puntuazioni di volontà che accrescono o diminuiscono
costantemente la loro potenza» (NF 1888-89, 11 [73]), caratte-
rizzano le relazioni dei singoli come una costante lotta finalizzata
alla presenza e all’imposizione di un istinto sull’altro. I valori ri-
velano così la loro natura di istinti dominanti, cioè si impongono
in virtù dalla posizione, alta o bassa, che i quanti di forza – o
ancora le «radiazioni di potenza» o le «puntuazioni di potenza»
(NF 1879-81, 6[70]; 1884-85, 34[123]) – occupano all’interno di
quella pluralità di forze che noi convenzionalmente chiamiamo
7 È noto come l’impostazione genealogica di Nietzsche si sviluppi in diretta polemi-
ca con lo scritto di Paul Rée Der Ursprung der moralischen Empfindungen (1877), del qua-
le viene criticata l’impostazione darwinista. In particolare i primi due capitoli dell’opera
di Rée Der Ursprung der Begriffe gut und böse, e Der Ursprung des Gewissens affrontano
tematiche strettamente legate a quelle di GM I. (Janaway 2007: 74-89).
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soggetto (Müller Lauter 1978: 189-235)8. In questo senso è pos-
sibile parlare di Rangordnung als Machtordnung, ossia di gerar-
chia come ordine della potenza.
La morale esprime e manifesta quindi la tendenza (intesa
come dinamica necessaria della volontà di potenza) di ciascu-
no a far prevalere il proprio “tipo”, ovvero i propri valori e la
propria visione del mondo. Gli “psicologi inglesi” si riveleran-
no per Nietzsche il frutto più tardivo della morale (platonico-
cristiana), finalizzata all’imposizione degli istinti più meschini e
degradati dell’uomo, ossia alla schiavitù dell’«utile e conforme al
fine» (GM I, 3). Tale morale “inglese” presuppone un concetto-
valore di “buono”, che va sovvertito e inteso non come essenza
extra-storica e astratta, ma come fenomeno storico, materiale e
complesso:
Orbene, per me è in primo luogo un fatto palmare che da parte
di questa teoria viene ricercato e collocato in una sede errata il fulcro
nativo del concetto di «buono»: il giudizio di «buono» non procede da
coloro ai quali viene data prova di «bontà»! Sono stati invece gli stessi
«buoni», vale a dire i nobili, i potenti, gli uomini di condizione superio-
re e di elevato sentire ad avere avvertito e determinato se stessi e le loro
azioni come buoni, cioè di prim’ordine, e in contrasto a tutto quanto
è ignobile e d’ignobile sentire, volgare e plebeo. Prendendo le mosse
da questo pathos della distanza si sono per primi arrogati il diritto di
foggiare valori, di coniare le designazioni dei valori (…). Il pathos della
nobiltà e della distanza, come ho già detto, il perdurante e dominante
sentimento fondamentale e totale di una superiore schiatta egemoni-
ca in rapporto a una schiatta inferiore, a un «sotto», è questa l’origine
dell’opposizione tra «buono» e «cattivo» (GM I 2).
8 Il termine “forza” (Kraft) viene derivato da Nietzsche dalla terminologia della fi-
sica e della termodinamica a lui contemporanee e valeva all’epoca come sinonimo di
“energia” (Energie). Su tale accezione fisica della forza, legata appunto agli studi sul prin-
cipio di conservazione dell’energia e sull’azione a distanza di forze di azione e repulsione
(magnetismo, elettricità), Nietzsche fonda alcune delle sue fondamentali considerazioni
sulla plurivoca nozione di “potenza” (Abel 1998: 82-92; Gori 2007: 219-278).
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3. L’aristocratico
Solo una vita soddisfatta di sé, forte, vigorosa, ben formata,
felice e traboccante di energie attive ha la forza e l’ingenuità fan-
ciullesca per proporre se stessa come modello di ciò che è buono
e di valutare la vita positivamente e non come grave fardello.
Ancora dunque l’origine della valutazione morale di “buono”
non si fonda su astratte concezioni di “bontà”, di altruismo o di
“utilità per i più”, ma su posizioni apparentemente egoistiche e
autocentrate.
Il tipo d’uomo dominante-aristocratico, kalòs kai agathòs, che
pone come buono se stesso e tutto ciò che è affine al suo senti-
re, è dunque riconosciuto all’origine del valore di “buono” dal
punto di vista genealogico. Questa prima acquisizione risulta
problematica perché sembra porre i concetti di “buono” e di
“egoistico” sul medesimo piano: l’opposizione dualistica egoi-
smo-altruismo, buono-cattivo, tuttavia ricalca esattamente quei
modelli semplicisticamente oppositivi della metafisica classica
(Soggetto-Oggetto, Vero-Falso, Buono-Cattivo, Causa-Effetto,
Origine-Fine), che Nietzsche interpreta come mere schematizza-
zioni e astrazioni illusorie del mondo. Come già si è cercato di ar-
gomentare, per Nietzsche il nostro io, inteso come ego cosciente,
non costituisce affatto un primum gnoseologico-metafisico, ma
si configura piuttosto come conseguenza e frutto di dinamiche
pulsionali più originarie: «non esiste alcun “essere” al di sotto
del fare, dell’agire, del divenire; “colui che fa” non è che fitti-
ziamente aggiunto al fare – il fare è tutto» (GM I 13). Proprio
la nozione di “io”, intesa a partire da Descartes come ego cogito,
come certezza immediata che consente al pensiero di cogliere se
stesso in modo puro e senza falsificazioni, è l’illusione che per
Nietzsche sta a fondamento della tradizionale sopravvalutazione
della coscienza da parte della psicologia idealista. Alla realtà del
cogito Nietzsche oppone il primato della lotta tra le pulsioni e
dell’interpretazione, poiché l’io non coglie mai se stesso in modo
chiaro e unitario:
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Continuano ad esserci ingenui osservatori di sé, i quali credono che
vi siano «certezze immediate», per esempio «io penso», o, come era la
superstizione di Schopenhauer, «io voglio»: come se qui il conoscere
potesse afferrare puro e nudo il suo oggetto, quale «cosa in sé», e non
potesse aver luogo una falsificazione né da parte del soggetto, né da
parte dell’oggetto. Ma non mi stancherò mai di ripetere che «certezza
immediata», così come «assoluta conoscenza» e «cosa in sé» compor-
tano una contradictio in adjecto (…). Se scompongo il processo che si
esprime nella proposizione «io penso», ho una serie di asserzioni te-
merarie, la giustificazione della quali mi è difficile, forse impossibile,
– come per esempio, che sia io a pensare, che debba esistere qualcosa,
in generale, che pensi, che pensare sia un’attività e l’effetto di un essere
che è pensato come causa, che esista un «io», infine, che sia già asso-
dato che cos’è caratterizzabile in termini di pensiero, che io sappia che
cos’è pensare. (JGB 16)
Ecco che il tipo aristocratico, e conseguentemente lo stesso
concetto di “egoismo” nell’ambito della Genealogia, non van-
no interpretati in senso meramente soggettivistico, tanto che
Nietzsche parla di soggetto come di «miglior articolo di fede sul-
la terra» (GM I 13): quella del “nobile-ben-nato” rappresenta
semmai, da un lato, come si è visto, una condizione di tracotan-
za fisiologica legata alla «salute fiorente, ricca, spumeggiante al
punto da traboccare (GM I 7), dall’altro, una figurazione simbo-
lica dell’uomo creatore dei propri valori e della propria morale,
ossia dell’aristocratico del carattere e dello spirito inteso come co-
lui che toglie alla vita ogni prevedibilità giocando innocentemen-
te con le sue forme. I riferimenti alla nobiltà omerica, romana
o germanica divengono dunque un pretesto per parlare del tipo
attivo inteso come colui che si arroga un diritto che è insieme
signorile e ludico nei confronti della vita, delle sue imposizioni e
prescrizioni. Il pathos della distanza consente così di riconoscere
secondariamente l’altro da sé come “non buono” in virtù di un
sentimento di differenza irriducibile tra ciò che è nobile e ciò che
è ignobile, ossia tra chi è padrone delle maschere valoriali dell’e-
sistenza e chi è invece schiavo di una morale impositiva. Nessuna
nostalgia passatistica dunque da parte di Nietzsche nei confronti
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68 Alberto Giacomelli
di una perduta età dell’oro ovvero di un mondo arcaico segnato
dall’ethos della forza, ma, al contrario, un auspicio per la venu-
ta futura di uomini «più interi» (JGB 257). Questo punto fon-
damentale viene chiarito da Nietzsche nel paragrafo conclusivo
della nota postuma composta a Lenzer-Heide il 10 giugno 1887
e intitolata Il nichilismo europeo (che precede di esattamente un
mese l’inizio della stesura della Genealogia):
Quali uomini si riveleranno allora i più forti? I più moderati (Mäßig-
sten), quelli che non hanno bisogno di princìpi di fede estremi, quelli
che non solo ammettono, ma anche amano buona parte di caso, di as-
surdità, quelli che sanno pensare, riguardo all’uomo, con una notevole
riduzione del suo valore, senza diventare perciò piccoli e deboli: i più
ricchi di salute, quelli che sono all’altezza della maggior parte delle di-
sgrazie e che quindi non hanno tanta paura delle disgrazie – gli uomini
che sono sicuri della loro potenza e che rappresentano con consapevole
orgoglio la forza raggiunta dall’uomo. (NF 1887, 5[71])
L’aristocratico dunque è «intero» dal punto di vista psicologico
nel senso che rappresenta colui il quale risponde con «serenità»
(Gelassenheit) e senza bisogno di «totalizzazioni» alle sensazioni
di «penuria», «insensatezza», e «causalità» derivanti dall’avanzata
del nichilismo. (Stegmaier 2006: 47). Intesa in questo senso la Le-
bensform aristocratica condivide tratti di quella dello spirito libero
e addirittura di quella indefinita e controversa dell’Übermensch,
con la differenza che l’oltreuomo è figurazione che si pone addirit-
tura al di là della tracotanza affermativa del signore, proprio per-
ché si pone oltre ogni etica, compresa quella signorile. Con l’ol-
treuomo il nobile condivide da un lato la capacità di riconoscere
nel nichilismo e dunque nella svalutazione dei valori tradizionali
un’occasione e un «ideale di suprema potenza dello spirito» (NF
1887, 9 [39]), dall’altro la condizione di «straricco» (Überreich),
legata alla “sovrabbondanza” (Überfluß). Perciò egli è assimilabi-
le, nel suo agire, alla straripante pienezza della «virtù che dona»:
Sta in primo piano il senso della pienezza, della potenza che vuole
straripare, la felicità della massima tensione, la coscienza di una ric-
chezza che vorrebbe donare e largire – anche l’uomo nobile presta soc-
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corso allo sventurato, ma non, o quasi non, per pietà, bensì piuttosto
per un impulso generato dalla sovrabbondanza di potenza. (JGB 260)
Alla cosiddetta «prassi di guerra», che talvolta Nietzsche fa
propria nelle ultime opere edite esponendo il proprio pensiero
a facili semplificazioni ideologiche (Stegmaier 1994: 57-59), si
alterna dunque, specialmente nel Nachlaß l’immagine immune
da hybris dell’uomo «di buon umore», «sicuro di sé», in cui «il
piacere del caso, dell’incerto e dell’improvviso si manifesta come
solletico» (NF 1887, 10[21]).
Similmente alla «virtù che dona» che è intrinsecamente con-
nessa al corpo, il pathos della distanza, proprio in quanto pathos,
precede la dimensione cosciente e valutativa, prescinde da utilita-
ristici rendiconti, è un attitudine fisiologica dell’aristocratico che
rivela come alla base del giudizio morale vi sia una più originaria
pulsione volta a differenziare e gerarchizzare le Lebensformen.
Espressioni quali Pathos der Distanz, Affekt der Distanz, mo-
ralische Distanz pongono il tema della differenza (sociale, di
rango, ma più perspicuamente di potenza), come fondamentale
elemento genealogico per la morale: solo un Dio che ci osser-
vi da lontanissimo, sostiene Nietzsche, può vederci come tutti
uguali, e sono note le parole di Zarathustra contro le tarantole,
Sinnbild dei democratici: «Con questi predicatori dell’eguaglian-
za io non voglio essere confuso né scambiato. Perché così parla
a me la giustizia: “gli uomini non sono eguali”» (Za, Delle taran-
tole). Il nobile, il potente, il forte si arroga il diritto di foggiare
quei valori che il debole-kakós-deilós, l’infelice-meschino riceve
supinamente. Si configura così la discriminante tra morale dei
padroni e morale degli schiavi, in cui la distinzione tra buono e
cattivo rispecchia quella tra dominante e sottomesso, tra potente
e debole, tra prestante e malriuscito. Emerge qui un altro snodo
problematico: come è possibile sovvertire radicalmente l’odierna
gerarchia dei valori se ogni valore rappresenta in definitiva un
agglomerato pulsionale provvisorio? In una prospettiva di critica
all’oggettività, in cui tutti i valori sono semplicemente pregiudizi
intersoggettivi, come si può scandire un nuovo ordine morale
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garantito dal rango? (cfr. Conway 1994: 319). Non risulta con-
traddittorio voler proporre qualsiasi nuova tavola di valori che
si configuri come immagine rovesciata, come un rovesciamento
di idoli perfettamente speculare a quelle tavole appena infrante
dal martello genealogico? Se l’efficacia di un valore morale ha
unicamente a che vedere con la capacità di quest’ultimo di incre-
mentare la forza, accrescere la potenza e favorire la vita, d’altra
parte Nietzsche nega la possibilità di definire il valore stesso della
vita: «Giudizi, giudizi di valore sulla vita, in favore o a sfavore,
in ultima analisi non possono essere mai veri; hanno valore sol-
tanto come sintomi (…) in sé tali giudizi sono delle sciocchezze»
(GD, Socrate 2). Procedendo su questa linea Nietzsche argomen-
ta che «si dovrebbe avere una posizione al di fuori della vita (…)
per poter toccare in generale il problema del valore della vita»
(GD, Morale come contronatura 5). Le aporie in cui la riflessio-
ne nietzscheana sembra incombere appaiono meno perentorie
se si pensa alla possibilità di ordinare gerarchicamente i valori
solo come sintomi intesi in senso fisiologico: un nuovo ordine di
valori pertanto non si basa sul semplice rovesciamento di quelli
tradizionali, ma su una trasvalutazione (Umwertung) nel senso
di una rivalutazione dei valori sulla base della loro vicinanza e
lontananza dalla salute. Ecco che la morale assume il significa-
to di cura della malattia della décadence, e una definizione della
vita e dei suoi valori risulta superflua se tali valori si interpretano
come «virtù senza moralina» (EH, Perché sono così accorto), cioè
solo sulla base schiettamente antimetafisica della fisiologia. Fu
proprio il risentimento, inteso come odio dei molti malati nei
confronti dell’esuberante salute del singolo, dell’animo superio-
re, a segnare il fondamentale cambio di segno nella definizione di
“buono” e “cattivo”. I “cattivi” non sono connotati moralmente
in senso stretto dall’etica eroica, ma definiti dai nobili in base a
constatazioni di dati di fatto, a differenze reali che non hanno
nulla di astratto, sono cioè i semplici, gli inetti, i mediocri. Di qui
la comparazione semantica proposta da Nietzsche tra le parole
tedesche schlecht (cattivo), e schlicht (semplice) in GM I 4. Il
cattivo è kakós-deilós nel senso di uomo comune di basso rango,
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La bionda bestia e il prete 71
che non ha ancora alcun legame con la malvagità. Il passaggio
fondamentale dal “cattivo” al “malvagio” si ha quando il tipo
reattivo sente il bisogno di introdurre un altro sistema di valuta-
zioni che lo riscatti dalla propria situazione di sottomissione: il
cattivo inteso come uomo semplice o plebeo reagisce alla razza
dominante, ed è a questa altezza che Nietzsche introduce la figu-
ra quanto mai controversa della bionda bestia (die blonde Bestie).
4. La bionda bestia
La Lebensform della «bionda bestia» rappresenta la metafora
che diede probabilmente adito alle più pericolose mistificazioni
ideologiche del pensiero nietzscheano: già dal quinto paragrafo
della prima dissertazione Nietzsche propone un’analisi filologi-
ca in cui affianca il greco kakòs al latino malus e al greco mélas
(nell’accezione di nero-scuro, bruno-moro), designante origina-
riamente «l’uomo volgare in quanto appunto individuo dal colo-
re scuro, soprattutto nero di capelli (“hic niger est”), l’autoctono
preariano del suolo italico, che per il colore della pelle si distacca-
va, con la massima evidenza, dalla bionda razza dominante, cioè
quella ariana dei conquistatori» (GM I 5)9. Dal punto di vista
metaforico il Sinnbild della “bestia” rimanda in primo luogo al
piacere selvaggio e sensuale legato alla “crudeltà dionisiaca”, e
dunque da un lato all’innocenza barbarica, dall’altro all’essen-
za agonistica dell’ellenismo. Se associato all’aggettivo “bionda”
rinvia invece ai caratteri di forza, nobiltà e purezza che i romani
in fase di decadenza ascrivevano ai guerrieri germanici, i quali
gradualmente si integravano nei ranghi dell’esercito imperiale
(Schank 2004: 143, 148). Già nella Nascita della tragedia la di-
mensione della bestialità condensa l’immagine dell’integrazione
9 Il termine blonde Bestie entra nel vocabolario politico tedesco a partire dal 1895 e
diverrà uno slogan antisemita, a partire dal 1906. Esso sarà poi il soprannome drammati-
camente noto di Reinhard Heydrich, conosciuto anche come “il boia di Praga” (Brenne-
cke 1976: 136).
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72 Alberto Giacomelli
delle fiere selvagge nel corteo dionisiaco, esprimendo il rapporto
sinergico tra natura e cultura caratteristico del mondo tragico:
«Il carro di Dioniso è tutto coperto di fiori e di ghirlande: sot-
to il suo giogo si avanzano la pantera e la tigre» (GT I). Le tre
occorrenze dei termini «bionda bestia» all’interno della Genea-
logia (GM I 11) si riferiscono tuttavia alla «belva feroce» come
assoggettata dalla malattia della morale addomesticante, ossia
della civiltà che marca la netta separazione tra natura e cultura,
conseguenza dell’avvicendamento degli schiavi e dei soggiogati
agli audaci, ai nobili e ai tracotanti. Nel Crepuscolo degli idoli il
concetto viene poi ribadito: «Nel primo Medioevo, quando effet-
tivamente la Chiesa era soprattutto un serraglio, si dava ovunque
la caccia ai più begli esemplari della “bionda bestia” – si “miglio-
ravano”, per esempio, i nobili Germani» (GD, I “Miglioratori”
dell’umanità 2). Il nuovo «senso di civiltà» consiste quindi nel
«disciplinare con l’educazione la bestia da preda “uomo” così da
farne un animale mansuefatto e civilizzato, un animale domesti-
co» (GM I 11). La figura della «bionda bestia germanica» venne
riconosciuta anche nell’immagine zarathustriana del «leone giallo
dalla bionda criniera» (Za, Tra figlie del deserto), ma saranno le
parole della Genealogia dedicate alla «bionda razza dominante,
cioè quella ariana dei conquistatori (der herrschend gewordenen
blonden, nämlich arischen Eroberer-Rasse)» (GM I 5), a indurre
interpreti ideologicamente schierati a giustificare una continuità
tra le teorie della superiorità su basi biologiche della razza e la
riflessione nietzscheana. Sappiamo che Nietzsche possedeva nella
sua biblioteca il libro di Theodor Poesche Die Arier. Ein Beitrag
zur historischen Antropologie (Jena, 1878), nonché un testo cano-
nico sull’antisemitismo: Über die gegenwärtige Lage des deutschen
Reich di Paul de Lagarde (Göttingen, 1876; cfr. Vivarelli 2011:
183). Alla luce di una presunta vicinanza dei passi della Genealo-
gia a questi lavori e all’opera di Joseph Arthur de Gobineu (Essai
sur l’inégalité des races humaines, 1853-1854), non solo interpre-
ti come Thomas Fritsch, Lanz-Liebenfels e Houston Steward
Chamberlain forzeranno la connessione presentata nell’opera
tra “buono”-“malvagio”,“puro”-“impuro”, ma individueranno
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La bionda bestia e il prete 73
nella contaminazione razziale della “bionda bestia” l’inesorabile
declino dell’Europa, influenzando direttamente l’ideologia hitle-
riana10. Se la conoscenza diretta da parte di Nietzsche dell’opera
di Gobineau sembra decisamente dubbia11, una semplice disami-
na più attenta di GM I 11 è sufficiente a mostrare la distanza tra
Nietzsche e qualsivoglia apologia razziale. Leggiamo infatti che,
nel momento in cui «la belva deve di nuovo balzar fuori, deve di
nuovo rinselvarsi – aristocrazia romana, araba, germanica, giap-
ponese, eroi omerici, Vichinghi scandinavi – tutti sono uguali in
questo bisogno», e ancora come «tra gli antichi germani e noi al-
tri tedeschi esista a malapena un’affinità concettuale e tantomeno
una parentela di sangue» (GM I 11)12. Consapevole del pericolo
di fraintendimenti e mitizzazioni fondate sulla devozione acritica
di seguaci in cerca di nuove fedi, Nietzsche si pone dunque al di là
delle letture eroico-germaniche, biologistico-darwiniane, religio-
se e addirittura antisemite, dal momento che la «bestia bionda» è
10 Lo spirito materialistico, biologistico e collettivista legato alla dottrina dell’igiene
della razza (Rassenhygiene), verrà fatto proprio da autori del nazionalsocialismo ortodos-
so quali Baeumler, Rosemberg, Spethmann, Weichelt e Obenauer. (Penzo 1997: 132). È
noto come in particolare le dottrine nietzscheane della blonde Bestie e dell’Übermensch
verranno rilette dai teorici di regime in una prospettiva sia di esistenzialismo eroico dal
punto di vista psicologico-pedagogico, che di selezione e perfezionamento biologico dal
punto di vista scientifico. Tale prospettiva diede adito all’intreccio tra l’elemento “spiri-
tuale” dell’educazione (Erziehung) e l’elemento “naturale” dell’allevamento (Züchtung)
in visione di una Überart, di una specie superiore.
11 Il nome di Gobineau compare solo una volta negli scritti di Nietzsche, in una lette-
ra a Köselitz del 10.12.1888. Inizialmente vicino a Wagner, Gobineau avrebbe poi preso
le distanze dal musicista criticando il Parsifal. Dalle testimonianze biografiche di Andler
(1928: 175) e di E. Förster-Nietzsche (1904: 886), si evince che il rapporto tra Gobineau
e Nietzsche – che non si conobbero mai personalmente – fu sostanzialmente irrilevante.
Va quindi senz’altro ridimensionata l’idea di Taureck il quale, relativamente a GM I 5,
afferma che Nietzsche sarebbe «caduto nella trappola di Gobineau». (Taureck 1989:
31). Nietzsche si interessò invece alle ricerche del medico e patologo Rudolph Virchow
relativamente all’ipotesi dell’esistenza di una popolazione preariana dai capelli scuri in
Prussia. (GM I 5; Orsucci 1998: 1).
12 Già durante gli anni di insegnamento a Basilea, del resto, Nietzsche era solito stig-
matizzare il mito dell’autoctonia greca sottolineando l’importanza degli influssi orientali
e semitici sulla cultura ellenica, mentre all’altezza di Umano, troppo umano la mescolanza
dei popoli viene interpretata, alla luce di diverse letture antropologiche coeve, come un
arricchimento.
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innanzitutto un tipo umano, rappresenta cioè la Lebensform del
dominatore «indipendentemente da qualsiasi contesto razzia-
le e da qualsiasi riflessione sul legame tra razza, suolo, clima e
cultura» (Canevari, 2008). Ma è possibile spingersi ancora oltre:
proprio in quanto lontana da ogni fervore tellurico legato alla re-
torica völkisch del Blut und Boden, la Lebensform della «bionda
bestia» che incarna il tipo dominatore si può associare a quella
dell’artista, inteso ancora una volta non come signore nel senso di
soggetto prevaricatore, ma come colui che nel senso più alto non
crea solo opere ma nuove forme di esistenza, in un’ottica in cui
vita e arte vengono a convergere. L’artista pertanto non è colui
che semplicemente raggiunge, afferra e si nutre della propria pre-
da, ma colui che istintivamente, inconsapevolmente, irresponsa-
bilmente, plasma e produce esperimenti esistenziali. Nel suo pre-
dare, l’artista cattura, distrugge e insieme crea qualcosa di vitale
dall’altrimenti informe massa degli ultimi uomini.
5. Il prete
Alla plurivoca figura della «bionda bestia» si oppone radical-
mente la forma di vita dell’animale addomesticato, che trova la sua
quintessenza nel prete, responsabile della metamorfosi dell’anima-
le da preda in animale in gabbia. Inizialmente accettata nell’appa-
rentemente innocua veste del mago e dello sciamano, addirittura
considerata indispensabile per l’organizzazione e la decodifica dei
sistemi simbolici delle nobili bestie da preda, la figura del prete si
rivela invece responsabile non solo del passaggio dall’opposizione
buono-malvagio all’opposizione buono-cattivo, ma anche del ro-
vesciamento di tali termini: il sacerdote ha saputo cioè trasforma-
re le volontà puramente negative che covavano negli animi ancora
semplici dei sottomessi kakòi-malvagi in energie capaci di creare
valori, anzi, contro-valori in grado in definitiva di vincere sugli
antagonisti, ovvero sui buoni-nobili. Ma vi è nella Lebensform sa-
cerdotale una forza sovvertitrice più profonda: come possiamo
leggere in Ecce Homo, la figura del sacerdote risulta centrale per
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La bionda bestia e il prete 75
le riflessioni psicologiche della Genealogia nel senso più ampio:
«questo libro contiene la prima psicologia del sacerdote» (EH,
Genealogia della morale). Ebbene, se l’intera psicologia nietzsche-
ana si fonda sul primato del Trieb, dell’impulso – e in generale
delle Stimmungen e delle Neigungen intese come stati d’animo e
passioni – rispetto alla Selbstgewissheit intesa come soggetto co-
sciente, il sacerdote emerge come responsabile tout court della
comparsa della coscienza come elemento preminente sull’impul-
so. La responsabilità del sacerdote è da riconoscersi nella sua ope-
ra civilizzatrice: la metafisica del prete in quanto nemica dei sensi
reprime quella dimensione oscura, tracotante, notturna, istintuale
e pre-cosciente che era incarnata dall’aristocratico e dalla bestia
bionda, opponendole l’interiorizzazione, il ressentiment come co-
scienza dei deboli e dei sottomessi. Nella Lebensform del prete
sembra così specchiarsi la figura antidionisiaca per eccellenza di
Socrate, che a sua volta aveva opposto l’ottimismo intellettuali-
sta all’abisso del tragico. Riemerge qui l’influsso dostoevskijano
relativo al ressentiment: il prete asceta, che risulterà una figura
centrale per le riflessioni contenute in GM III, è il solo in grado
di sedurre lo schiavo donando nuovo senso alla sua sofferenza.
La condizione fondamentale di sofferenza che rende ingiustificata
e ingiustificabile l’esistenza finalmente trova una spiegazione nel
concetto di colpa. L’essenza stessa del tragico, ossia l’impossibilità
di «spiegare da dove venga e da cosa sia motivato il dolore che è
intrinseco all’essere uomini» (Curi 2008: 68), trova dunque il suo
phármakon, il suo rimedio nelle nozioni «paradossali e paralogi-
che come “colpa”, “peccato”, “peccaminosità”, “pervertimento”,
“dannazione”» (GM III 16). La mancanza di felicità, di piacere e
di gioia che segna la vita dello schiavo, lo induce a trovare motiva-
zioni: «“qualcuno deve essere responsabile del fatto che mi sento
male” – è caratteristica di tutti i malati questa conclusione, (…)
“io soffro: qualcuno deve averne colpa”» (GM III 16). La ma-
lattia consiste esattamente nell’incapacità di superare l’assurdità
della sofferenza, e la cura del prete sta nel fornire una risposta alla
domanda pressante e tormentosa sulla mancanza di senso: «in se
stesso» l’uomo deve cercare «il primo avvenimento sulla “cagio-
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ne” del suo soffrire (…) in una colpa, in un frammento di passato,
deve comprendere la sua stessa sofferenza come una condizione di
castigo» (GM III 20). In questo modo il sofferente diviene «pec-
catore», e la sofferenza diviene «colpa, timore, castigo» (ibid.). Il
“farmaco” somministrato al “malato” non ha come effetto una ef-
fettiva Überwindung della sofferenza, nel senso di una guarigione
che consenta il pieno recupero della vita terrena, bensì determina
una volontà nichilistica e passiva di sofferenza, di macerazione, di
avvilimento del corpo nella prospettiva escatologica di guadagna-
re una vita postuma beata, nella quale felicità ed assenza di dolore
coincideranno. Più l’ideale si allontana dalla corporeità e si attesta
nella sua irrealizzabilità terrena, più motiva la tensione verso di
sé (Stegmaier 2004: 155). Il prete annulla la mancanza di senso
della vita ricomprendendo il male nella dimensione della colpa
che esige un castigo:
Ormai si indovina che cosa per lo meno ha tentato, a mio avviso,
l’artistico istinto risanatore della vita attraverso il prete ascetico (…): a
rendere innocui sino ad un certo punto i malati, a distruggere gl’ingua-
ribili attraverso se stessi, a dare ai malati lievi una rigorosa direzione
alla volta di sé, una direzione a ritroso del loro ressentiment (…). Va
da sé che non può trattarsi assolutamente (…) di un reale risanamen-
to fisiologicamente inteso; non si potrebbe neppure affermare che qui
l’istinto della vita abbia in qualche modo intenzionalmente mirato al
risanamento. (GM, III, 16)
La sovversione morale e psicologica di cui il sacerdote è respon-
sabile ha dunque la sua origine nella «grande ragione» del cor-
po, che Nietzsche in Così parlò Zarathustra (Za, Dei dispregiatori
del corpo) descrive non solo nel senso di Leib, di mera fisicità, ma
come Selbst, ossia come complesso di attività istintive che riassume
in sé quei conflitti delle funzioni corporee che per Nietzsche sono
in continuità con i processi mentali. Esattamente agli antipodi di
tale rivalutazione fisiologica, che non riconosce più nel corpo un
elemento umile e basso, sottomesso all’intelletto, ma al contrario
stabilisce una corrispondenza totale tra corpo e “spirito”, il sacer-
dote incarna le pratiche antivitali di astinenza e rinuncia. E tut-
tavia, proprio in quanto espressione del tipo debole, Lebensform
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in cui si manifesta un deficit di volontà di potenza, egli si innalza
paradossalmente a dominatore, riuscendo a far prevalere la pro-
pria valutazione risentita e reattiva del mondo. Assistiamo quindi
ad una torsione per cui, agli occhi del sacerdote, il corpo diviene
centrale in virtù del suo essere negato, ossia non nella prospettiva
di una rivalutazione dei sensi, ma di una loro spiritualizzazione,
mortificazione e infine negazione. Tutta la dimensione dietetica,
che postula l’astensione dalla carne, il digiuno, la continenza ses-
suale, la fuga «nel deserto» (GM I 6), è finalizzata a fornire un
nuovo significato morale a quei termini di «puro» «e impuro» che
originariamente segnavano le discriminati tra classi. Le pratiche
rinunciatarie gettano l’uomo in una condizione di prostrazione,
ne perpetrano lo stato di malattia, eppure proprio il prete che di
tali pratiche è foriero è portato a proporre dei rimedi, delle tera-
pie, delle prognosi. Egli edifica così un intero mondo alternativo
tanto alla malattia fisica quanto alla patologia esistenziale e psi-
cologica. Tale apertura allo spazio dell’interiorità è riconosciuta
da Nietzsche come pericolo (Gefahr), termine decisivo all’interno
della Genealogia che indica come la condizione di debolezza dello
spirito reattivo si rivolga in volontà di vendetta che tenacemente
ribolle consumando l’animo del debole e del malriuscito: «l’imme-
schinirsi e il livellarsi dell’uomo europeo nasconde il nostro massi-
mo pericolo (unsere grösste Gefahr)» (GM I 12). Su questo terreno
nasce l’alleanza tra il prete e i sottomessi, qui il termine “cattivo”
passa a significare “malvagio”. Nascono nell’ultimo uomo la dop-
piezza, l’ambiguità, il risentimento che erano estranei alla schietta
semplicità dei signori, che appunto da ora divengono i “malvagi”.
Lo stile di vita del sacerdote comporta dunque un sovverti-
mento morale della massima pericolosità poiché fonda nuove
tavole di valori sul terreno dell’interiorità.
6. L’ebreo
Il volto concreto che Nietzsche dà al personaggio del prete
è da riconoscersi nell’Ebreo, che è Sinn-bild del popolo che ha
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portato il tipo sacerdotale alla sua massima espressione. Tra il
1886 e il 1888 l’atteggiamento di Nietzsche nei confronti degli
ebrei oscilla pericolosamente tra l’ammirazione e la critica: in Al
di là del bene e del male leggiamo ad esempio che: «gli Ebrei sono
senza dubbio la razza più forte, più tenace e più pura che viva
oggi in Europa» (JGB, 251)13. All’interno della Genealogia egli
ascrive ai semiti la responsabilità di aver inaugurato la rivolta de-
gli schiavi della morale e di aver rovesciato l’originario significato
dei termini «buono» e «cattivo»:
Tutto quanto è stato fatto sulla terra contro «i nobili», «i potenti», «i
signori», «i depositari del potere» non merita una parola in confronto
a ciò che contro costoro hanno fatto gli Ebrei; gli Ebrei, quel popolo
sacerdotale che ha saputo infine prendersi soddisfazione di propri ne-
mici e dominatori unicamente attraverso una radicale trasvalutazione
dei loro valori, dunque attraverso un atto improntato alla più spirituale
vendetta. (…) Sono stati gli Ebrei ad aver osato, con una terrificante
consequenzialità, stringendolo ben saldo con i denti dell’odio più abis-
sale (l’odio dell’impotenza), il rovesciamento dell’aristocratica equazio-
ne di valore (buono = nobile = potente = bello = felice = caro agli dei)
[gut = vornehm = mächtig = schön = glücklich = gottgeliebt] ovverosia «i
miserabili soltanto sono i buoni; solo i poveri, gli impotenti, gli umili
sono i buoni, i sofferenti, gli indigenti, gli infermi, i deformi sono anche
gli unici devoti, gli unici uomini pii per i quali soli esiste una beatitu-
dine». (GM I 7)
Il risentimento ebraico nei confronti dei nobili dominatori,
considerati come crudeli tiranni, non solo sovverte l’aristocra-
tica coincidenza dei valori di bontà e potenza, ma subisce poi
la sua più sottile metamorfosi nell’amore cristiano, interpretato
come «la più raffinata forma di vendetta mai apparsa, dove la
volontà di preminenza degli schiavi sui dominatori raggiunge la
sua migliore espressione» (Canevari: 2008, 79). L’amore cristia-
no si configura così come il trionfo del debole e del malato sul
13 È del resto noto il disprezzo nietzscheano per gli antisemiti, come dimostrano le
critiche a Eugen Dühring, a Lagarde, al cognato Förster e soprattutto a Wagner (Vivarelli
2011: 184).
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La bionda bestia e il prete 79
forte e sul sano, come la vittoria della volontà di negazione su
quella di affermazione. La glorificazione del dolore, della pas-
sione sulla Croce, è l’apogeo dell’automortificazione e insieme
la giustificazione della vendetta dei deboli contro i nuovi malva-
gi, ossia i cattivi, ossia i nobili. La vendetta degli schiavi innesca
così un sentimento che potremmo definire di Shadenfreude, di
godimento per l’infelicità inflitta agli antichi padroni, segnati e
avvelenati dalla colpa. È a questa altezza che, come si è già accen-
nato, si può rilevare una latente ma centrale affinità tra le figure
del sacerdote ebraico, del prete cristiano e quella del Socrate de-
scritto nella Nascita della tragedia: figura sostanzialmente plebea,
impertinente e irriguardosa nei confronti degli ideali dei nobili,
fautrice di un metodo dialettico finalizzato alle essenze e dun-
que agli antipodi rispetto al metodo genealogico, Socrate divie-
ne per Nietzsche il corresponsabile dal punto di vista teoretico
della decadenza e del pervertimento che sacerdoti e preti hanno
innescato dal punto di vista morale. Socrate gode nell’umiliare
la crème aristocratica ateniese attestandola in una condizione di
inferiorità non fisiologica o psicologica, ma dialettico-razionale.
Nel Simposio assistiamo a un esempio tipico di Schadenfreude nel
momento in cui il nobile Alcibiade dichiara che soltanto Socrate
è in grado di fargli provare vergogna di se stesso (Simposio 216
b): l’intero metodo socratico si può così considerare una messa
in luce dell’incapacità da parte di nobili e dominatori di rendere
ragione del loro modo d’essere e del loro sistema di valori. L’a-
ristocratico soccombe perché non ha mai sentito il bisogno di
giustificare se stesso e le proprie azioni, non è quindi necessario
riferirsi alle riflessioni nietzscheane sulla tragedia euripidea per
vedere come l’ingenua esuberanza del nobile decada agli occhi
di Nietzsche sotto una nuova forma di agone fondato sul lógos.
Se il nome di Socrate all’interno della riflessione nietzsche-
ana all’altezza della Genealogia compare esplicitamente solo
una volta in relazione alla critica al matrimonio (GM III 8), ben
più esplicito è il riferimento alla figura storica di Paolo di Tarso
(considerato la terza figura ebraica più importante dopo Gesù e
Pietro). In Paolo Nietzsche riconosce il catalizzatore dell’odio
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sordo covato dalle masse oppresse dell’Impero romano, colui
che trasformò il disprezzo (la Ver-achtung) verso i forti in «forza
organizzata sul piano sociale (Chiesa), ed in forza coerente sul
piano dottrinale, (Dogma)» (Canevari 2008: 83). In questo senso
Nietzsche osserva:
Atteniamoci ai dati di fatto: il popolo ha vinto – ovvero «gli schiavi»
o «la plebe» o «il gregge», chiamateli come vi piace – e se questo è
avvenuto per mezzo degli Ebrei, ebbene mai un popolo ha avuto una
missione più grande nella storia del mondo. “I signori” sono liquidati,
la morale dell’uomo comune ha vinto. (GM I 9)
Lo spirito del popolo, prima ebraico e poi cristiano, ha assunto
all’epoca di Nietzsche il volto degli ideali democratici, del sociali-
smo, e, per tornare all’inizio della dissertazione, il volto dello spi-
rito positivista di quegli psicologi inglesi ignari che la predilezione
per il “fatto” sia debitrice al medesimo spirito livellatore di cui è
affetta la morale dei servi. Se nell’incondizionata fiducia nell’og-
gettività scientifica Nietzsche riconosce il rischio di una nuova
fede laica – pensiamo al catechismo positivista di Comte – egli
riconosce al contempo nei movimenti politici e sociali espressioni
delle classi lavoratrici un desiderio di livellamento e di uguaglian-
za come espressione delle pulsioni di vendetta e di risentimento
(cfr. ad esempio JGB 203 e Pasqualotto 2008: 114-133).
L’odio originario, la volontà del nulla, dopo molte metamor-
fosi si rivela oggi come nichilismo che pervade ogni manifestazio-
ne dello spirito: a questo progressivo esaurimento dello spirito,
ovvero alla décadence, Nietzsche vuol opporre una Lebensform
inedita, che, come si è accennato, superi anche la tracotanza del
signore:
A questo punto non riesco a reprimere un sospiro e un’ultima spe-
ranza. (…) Ma concedetemi di tanto in tanto – posto che esistano di-
vine dispensatrici, al di là del bene e del male – uno sguardo, un solo
sguardo concedetemi unicamente rivolto a qualche cosa di perfetto,
di compiutamente riuscito, di beato (…). A un uomo che giustifichi
l’uomo, a una fortunata, complementare e redentrice, ventura umana
(…). Oggi nulla vediamo che voglia divenire più grande, abbiamo il
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presentimento che tutto continui a sprofondare (…). La vista dell’uomo
rende ormai stanchi – che cos’altro è oggi nichilismo, se non è questo?...
Noi siamo stanchi dell’uomo… (GM I 12)
Ecco che il vuoto di senso dell’epoca attuale si fa per Nietzsche
chance per l’avvento dell’oltreuomo, il quale, benché non venga
esplicitamente nominato nella Genealogia, resta presente in fili-
grana come orizzonte di sublimazione dell’etica agonale in una
sovrana e innocente indifferenza, che disattiva la dinamica del
ressentiment appunto per assenza di antagonisti. Risulta centrale
allora, come argomenta Loeb (2006: 163-173) il riferimento in
apertura della seconda Dissertazione alla «forza del dimenticare
(Kraft der Vergeßlichkeit)» intesa non come svuotamento o oblio
assoluto, ma come emancipazione da due millenni di morale e
insieme come facoltà attiva di incorporazione-assimilazione (Ein-
verleibung e Einverseelung), «appropriazione spirituale» di un
passato che diviene linfa vitale per il corpo, che viene digerito e
dimenticato come una pietanza nutriente. Il mantenersi nel pre-
sente, l’attestarsi nell’attimo, impedisce la duplicazione riflessiva
tipica del modello platonico-cristiano e quindi la morale risentita
dello schiavo, che necessita costitutivamente di un mondo a lui
esteriore e opposto.
Come questa umanità futura possa concretizzarsi nel tempo e
nella storia resta taciuto, rimangono aperti il presagio e la grande
promessa di una Lebensform a venire:
Ma in qualche tempo, in un’età più forte di questo marcido, dubi-
toso presente, dovrà pur giungere a noi l’uomo redentore, l’uomo del
grande amore e disprezzo, lo spirito creatore che sempre la sua forza
incalzante torna a spingere via da ogni eremo e da ogni trascendenza
(…). Quest’uomo dell’avvenire, che ci redimerà tanto dall’ideale per-
durato sinora, quanto da ciò che dovette germogliare da esso, dal gran-
de disgusto, dalla volontà del nulla, dal nichilismo, questo rintocco di
campane del mezzodì e della grande decisione (…) dovrà un giorno
venire… (GM II 24)
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Note su alcune forme incompatibili
Jean-Michel Rey
1.
Genealogia, il termine è di evidente interesse nell’ambito della
morale. Poiché, anzitutto, se si segue Nietzsche, esso permette
di evitare ogni percorso di ordine storico che pretenda di ren-
dere conto di quei grandi concetti che troviamo all’origine del
nostro modo di pensare; esso permette anche di disfarsi di ogni
preoccupazione riguardante la ricerca di un’origine e tutto ciò
che le assomiglia. Evidente e di una grande utilità, nella misura
in cui la morale è, a colpo sicuro, l’ambito prediletto delle cose
indeterminate, quelle che talvolta sono capaci di generare con-
senso con poca spesa e, allo stesso tempo, di trovare un’ampia
approvazione per la maggioranza delle proposizioni che proli-
ferano in questo campo. Lo si vede immediatamente leggendo
la Genealogia della morale, quando serve Nietzsche non teme di
utilizzare le virgolette per i vocaboli più noti, quelli che neces-
sariamente vengono richiesti in questa prospettiva – per esem-
pio nella seconda Dissertazione, “colpa” e “cattiva coscienza”
e, nella prima, “buono” e i diversi contrari di questo aggettivo
determinante. La tipografia va qui pienamente tenuta in conto
e più che mai fa parte del lavoro di scrittura, partecipa dunque
di una prospettiva fondamentalmente critica. Ci sono quindi dei
termini correnti che non possono più essere intesi per delle ra-
gioni che conviene precisare, termini che possono essere tanto
meno compresi quanto più essi organizzano un buon numero
dei nostri enunciati e autorizzano la circolazione di ciò che, da
troppo tempo, sembra esprimersi con una facilità sconcertante.
Credo che questo sia uno dei Leitmotiv di Nietzsche, special-
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86 Jean-Michel Rey
mente in questo libro. Una certa facilità nell’uso può talvolta
avere valore di sintomo, in ogni caso essere l’indizio di un vero
problema e, conseguentemente, convocare in particolare la ri-
flessione o – cosa che può avere lo stesso senso – suscitare delle
considerazioni ironiche per chi diventa attento a un fenomeno di
tale natura. Delle frasi troppo ben formate, in effetti, sono capaci
di far sorgere il sospetto e di rimettere in moto un’interrogazio-
ne. Degli enunciati troppo lisci e con una portata troppo grande
sono in grado di far nascere molte domande, domande neces-
sariamente sconvolgenti rispetto a ciò che crediamo (da molto
tempo) riguardare l’ambito della morale.
La genealogia è un cammino che ha soprattutto l’obiettivo di
mostrare da dove vengono certe parole, da quali luoghi proce-
dono un certo numero di concetti, i quali, esaminati da vicino,
dimostrano di essere senza alcun rapporto con ciò che designa-
no. Bisogna imparare a ricostituire tali traiettorie ma anche ad
ascoltare queste grandi parole che s’impongono tanto nei discorsi
più correnti, quanto negli enunciati presunti astratti. È la messa
in opera di una posizione di ritirata che è sul punto di lasciar in-
tendere che, contrariamente a ciò che è dichiarato qua e là, non
è il senso delle parole ad essere in gioco, dato che, a considerarla
con precisione, una dimensione di questo tipo è in effetti intro-
vabile. Si dirà che qui si tratta in qualche maniera di una sorta
di ripiegamento della filosofia (e di tutta la morale) su se stesse,
come un seguito dato al movimento kantiano della “critica” sotto
un’altra forma, indubbiamente più radicale. Poiché non è più la
ragione1 a far le spese dell’operazione, ma il linguaggio, nella sua
forma reputata più nobile o più compiuta, cioè la produzione
dei concetti e la formazione delle proposizioni che vi derivano.
La constatazione che Nietzsche fa qui come in altri testi può in-
somma riassumersi così: noi non sappiamo più ciò che diciamo
quando continuiamo ad utilizzare questi grandi termini o i loro
equivalenti; i concetti più comuni hanno tutto ciò che serve per
1 Ricordo una frase di Adorno che sembra andare nella stessa direzione: «[...] l’au-
tocritica della ragione è la sua vera morale» (Adorno 20069: § 81, 146).
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Note su alcune forme incompatibili 87
disorientarci. Per Nietzsche non si tratta affatto di rifiutarli e
nemmeno di volerli confutare – ciò sarebbe assurdo o a spropo-
sito. Si tratta piuttosto di tentare di comprendere e di esplicitare
dove ci conducono, quel che ci fanno cogliere o, anche, quel che
ci fanno fare, le operazioni alle quali essi si prestano mediante se
stessi senza che noi possiamo intervenire, ciò su cui ci accecano,
e via di seguito. La funzione di concetti di questa importanza
non è quindi mai univoca. Poiché qui si trova una vera eredità di
cui, spesso, ci si serve senza mai interrogarsi sulla sua provenien-
za, sui suoi aspetti maggiori o sulle sue più diverse costituenti.
L’erede si trova in qualche modo spossessato di ciò che presu-
meva ricevere. Il “noi” perde il controllo delle forme di discorso
più abituali, e allo stesso tempo indubbiamente perde anche una
parte della sua consistenza, volendo mantenere ad ogni costo dei
concetti e delle proposizioni vacanti.
Conferiamo tutta la fiducia al Senso senza avere i mezzi per
comprendere di cosa si costituisca; investiamo senza posa su al-
cune evidenze di cui supponiamo, inoltre, che esse siano ricon-
ducibili come automaticamente attraverso il tempo, e conseguen-
temente al di là di noi stessi. Vogliamo ignorare che questo Senso
può, come altre cose d’altronde, alterarsi nella durata, modifi-
carsi da cima a fondo, che non potrà mai essere fissato una volta
per tutte. Così l’eredità si disfa nella misura in cui si trasmette, è
capace di essere ricevuta in modi diversi – supponendo che sia
un solo blocco nei suoi primi momenti. Assumere la misura di
una tale mancanza è il primo passo di un cammino che antepone
tutto alla genealogia. Indubbiamente è anche ciò che permette
di fare un uso effettivamente ironico del pensiero, per esempio
sospendendo le diverse credenze che certi termini sembrano vo-
ler sostenere o che certe frasi possono suscitare. Impegnarsi in
un cammino genealogico di questo tipo è avere continuamente a
che fare con delle modalità di credenza – Glaube – e di fiducia –
Vertrauen – che giungono a noi da lontano e che, oltretutto, non
si danno mai come tali, sembrano dissimularsi dietro alla facciata
concettuale e scomparirvi quasi totalmente, lasciando intatta la
facciata stessa.
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Nietzsche è filologo quanto filosofo. Per lui non si tratta affat-
to di chiedersi, ancora una volta, cosa sia la “colpa” o la “cattiva
coscienza”, cosa siano il “buono” o il “cattivo” – e via di segui-
to, ma di spostare interamente l’insieme del problema. Bisogna
dunque, del tutto diversamente, chiedersi da dove arrivano desi-
gnazioni di quest’ordine, a cosa corrispondono, che cosa nascon-
dono, da dove vengono le diverse azioni – o reazioni – alle quali
sono sottoposte. A fondamento del cammino nietzscheano c’è il
seguente elemento su cui s’insiste: sotto ai concetti più correnti
– i più datati, quelli che troviamo sotto il segno della più grande
evidenza – si trova un gioco di forze, dei conflitti, delle interpre-
tazioni e, ancora di più, dei movimenti continui che si direbbero
riguardare una vera captazione di tipo ideologico2: altrimenti det-
to, tutto quel che arriva ad annebbiare il Senso interferendo con
le sue pretese, tutto quel che gli fa perdere il suo prestigio, le sue
tradizionali caratteristiche, tutto quel che può contribuire a ero-
derlo. In fondo, ogni volta, è come se la società non smettesse di
intervenire nelle nozioni rientrando nel campo della morale più
ordinaria, come se essa premesse senza posa sulla parola tramite
concetti a cui, d’altronde, la stessa morale – quando non la so-
cietà stessa... – attribuisce valore al carattere astratto, all’aspetto
distaccato, ossia assoluto. La genealogia deve inventarsi le basi
mediante le quali potrà cogliere o riconoscere tale pregnanza e
le diverse modalità di un’intercessione, le forme di un’incessante
interferenza – cosa che si potrebbe designare come esistente nelle
pieghe del pensiero. La morale esiste raramente senza che vi sia
un’influenza della “sociologia”.
L’esempio indubbiamente più probante di questo lavoro si
trova in GM II 13, che fondamentalmente affronta la cruciale
nozione di “pena”. Qui si vede chiaramente come l’introduzione
di un cammino genealogico permetta a Nietzsche di precisare al-
cuni discorsi precedenti e anche di riformulali in modo più serra-
to, di riprendere delle intuizioni molto più antiche per dare loro
un corso più ampio o una portata più generale. In altri termini:
2 Qualificativo da intendersi in senso generale.
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Note su alcune forme incompatibili 89
ogni enunciato di portata filosofica (o morale) dipende da un’in-
terpretazione, è legato a delle preferenze (o a degli obblighi) che
sfuggono all’interrogazione, non è del tutto separabile dalle di-
verse circostanze della sua formazione; insomma, i “giudizi di
valore” sono allegorici, molto spesso dicono una cosa proprio
mentre la nascondono, avendo di mira un’altra cosa rispetto a
quella che ci mettono davanti, costantemente sfasati da se stessi,
senza posa in equilibrio instabile. Quindi la morale appare essere
prima di tutto come un problema d’insieme più che una risposta,
come costituita di fatto da diversi enunciati dei quali non è pos-
sibile fidarsi. Di conseguenza è una sorta di fondamentale disin-
ganno che il cammino genealogico concepito da Nietzsche mette
in moto. È come se, malgrado tutte le smentite che sono state
loro inflitte, si mantenessero delle promesse molto precedenti,
come se il fatto che esse non siano state mantenute in questa pro-
spettiva non avesse grande importanza e non fosse grave.
Nella “Prefazione” della Genealogia della morale Nietzsche
afferma che bisogna «cominciare a porre una buona volta in que-
stione il valore stesso di questi valori – e a tale scopo è necessaria
una conoscenza delle condizioni e delle circostanze in cui sono
attecchiti, poste le quali si sono andati sviluppando e modifican-
do» (GM, Prefazione 6). Tanto lo sviluppo quanto la modificazio-
ne cambiano il bersaglio iniziale – o ciò che può farne le veci, ciò
che si può supporre essere stato così (per le necessità della di-
mostrazione). Ciò vale soprattutto per la “pena”, esclusivamente
posta in questione in questo paragrafo. Rapidamente ricordo qui
a grandi linee questo cruciale discorso per sottolinearne qualche
punto o eventualmente per ampliarlo, ovviamente senza alcuna
pretesa di esaustività.
2.
A partire dal momento in cui si prende in considerazione la
“pena”, si è obbligati a distinguere con precisione ciò che è dure-
vole, «l’uso, l’atto, il “dramma”», una successione di procedure
diverse, sia che da un lato, in un simile dispositivo, si formi una
costante, sia che, dall’altro lato, si formi ciò che è fluido, «il signi-
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ficato, lo scopo, l’attesa, che si connette all’esecuzione di tali pro-
cedure» (GM II 13). Tutto ciò che è dell’ordine della procedura
riguarda, con ogni probabilità, una certa preesistenza, e da essa
sembra trarre anche una parvenza di legittimità; mentre il “signi-
ficato” è manifestamente più tardo, come secondario, accessorio,
e richiede delle virgolette o un trattamento similare. Il grande
privilegio che la filosofia ha accordato a questa categoria superio-
re del Significato sembra essere qui particolarmente maltrattato,
in qualche modo abolito, sembra non avere più nessuna porta-
ta. È d’altronde per questo verso che Nietzsche reintroduce una
parvenza di storia – a parte il fatto che il termine è evidentemente
assunto in un’accezione del tutto minore, quasi peggiorativa; ser-
ve solo per menzionare una successione di esecuzioni, una serie
di utilizzi contingenti di cui ora, secondo Nietzsche, si può anche
vedere il compimento nell’Europa attuale; degli abbondanti uti-
lizzi che svuotano il termine dell’essenziale della sua sostanza e
conseguentemente lo privano dei suoi poteri, si potrebbe anche
dire che ne fanno una sorta di grande carcassa vuota che può
di conseguenza servire da supporto ai disegni più insensati, alle
correzioni più casuali o alle imprese più nefaste – soprattutto,
agli enunciati più incompatibili. Qui la storia è convocata solo
per testimoniare di questo corso accidentato, di queste derive
insensate, nella misura in cui è in grado di indicare una serie di
problemi che richiedono di essere trattati.
Tanto vale dire che lo stesso concetto di “pena” è propria-
mente introvabile, che di fatto non c’è alcuna unità di senso
quando questo termine viene enunciato, che dunque non ci si
può sostenere su ciò che un termine così incerto è supposto si-
gnificare. Con questa parola si ha una sorta di cristallizzazione
tardiva che non può mascherare a lungo il fatto che ce ne siamo
serviti per gli scopi più vari – e che si continua d’altronde per la
stessa via, come se niente fosse, come se il concetto potesse man-
tenersi intoccabile nelle sue variazioni. L’esito di questa storia si
riassume nel fatto che questo concetto non ha più alcun rapporto
col “senso”, che è sottomesso ai movimenti più contraddittori o
più contrastanti, tormentato da forze incompatibili – si dirà che
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è diventato propriamente inutilizzabile, che non risponde più a
niente di specifico – mentre al tempo stesso non si smette di farvi
appello sotto una forma o un’altra, menzionandolo o meno.
Per ampliare un po’ il discorso di Nietzsche, si dirà che la
nostra modernità è costituita da termini – o concetti, nozioni – di
questo tipo; diciamo anche da parole che articolano (senza mai
arrivare a dirlo in quanto tale) un «dramma» e un’«attesa», una
struttura molto antica e una legittimazione recente che rispon-
dono a un bisogno momentaneo. Si noterà dunque che qui ci
sono all’opera due processi differenti che entrano forzatamen-
te in gioco: da un lato, l’articolazione tra la forma detta dure-
vole e l’elemento presentato come fluido, dall’altro il fatto che
si destina a questa struttura lontana uno scopo a seconda delle
circostanze, che gli s’impone un nuovo orientamento – perlome-
no in apparenza. Il tempo è per forza il beneficiario di questo
insieme; tenerne conto contribuisce a rovinare ogni intento di
Senso; tutto ciò che può sembrare prendere a prestito dei tratti
dall’“eternità” (o dai suoi equivalenti) si disfa.
3.
Ciò che trattiene l’attenzione di Nietzsche è in primis che que-
sta storia ha un esito che diventa visibile – diciamo che ciò vale
anzitutto per chi si preoccupa della genealogia e ha compreso
che bisogna, per quanto possibile, attenersi sempre a siffatta pro-
spettiva. I termini che Nietzsche utilizza qui sono di primaria
importanza: «una sorta di unità, che è difficile a risolversi, dif-
ficile ad analizzarsi e (...) del tutto impossibile a definirsi» (GM
II 13). Si coglie in questo il paradosso di un’unità che giunge a
mantenersi proprio quando è impossibile farsene qualsiasi cosa,
quando è impossibile avvalersene. In questo modo uno dei mag-
giori concetti della morale sfuggirebbe alla definizione, sarebbe
propriamente inafferrabile, si potrebbe aggiungere che farebbe
parte di quel che Paul Valéry chiamò spesso le «Cose vaghe». La
conseguenza di questa mancanza maggiore è immediatamente
indicata a chiare lettere da Nietzsche come dipendente dall’evi-
denza più elementare: «È oggi impossibile dire esattamente per
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92 Jean-Michel Rey
quale ragione si addiviene alla pena» (GM II 13). Logica implaca-
bile di una tale constatazione. La questione «per quale ragione?»
non è dunque più all’ordine del giorno in questa prospettiva, essa
dev’essere necessariamente accantonata; si può capire facilmente
come ciò comporti delle conseguenze di primaria importanza,
ovvero anzitutto una lenta rovina delle “evidenze” tanto dell’am-
bito della morale come in altri ambiti, in particolare il politico o
l’economico. Dover abbandonare definitivamente una questione
di questa ampiezza produce, di tanto in tanto, degli effetti su
ogni cammino di pensiero, sposta alcuni dei suoi giochi, modifica
da cima a fondo il regime generale della riflessione. Qualcosa di
cruciale viene a mancare alle nostre abitudini di pensiero e giun-
ge a farsi sintomo. Per dirlo altrimenti: un’istanza che rivendica,
sotto una forma o un’altra, la “pena”, che la auspica, giunge per
forza a parlare nel vuoto, non sa più nemmeno cosa dice, perché
non è più nella misura di enunciare un qualunque motivo per
reclamare un’azione di questa natura, poiché di fatto essa resta
senza un “perché”. L’orecchio del filologo è capace di percepire
questi spazi vuoti, questi buchi nel discorso, di cogliere che vi
sono delle cose maggiori che non sono più formulate del tutto.
In qualche modo la morale diventa orfana e, al contempo, gli
enunciati a poco a poco perdono ogni credibilità, ogni affidabi-
lità; essi non hanno più il fondamento che gli si supponeva da
tanto tempo. È come la fine programmata di una “fede”, neces-
saria in simili contesti, una fede che non diceva il suo nome, che
non poteva farlo e che aveva tanta più efficacia quanto meno si
mostrava.
Di questa «unità difficile da risolversi, difficile ad analizzarsi»,
che sfugge ad ogni presa concettuale ossia a ogni circoscrizione, si
dirà anche che essa paradossalmente accompagna delle pratiche
instabili – con ciò voglio indicare delle azioni che obbediscono a
una necessità momentanea o a un’urgenza d’ordine strettamente
sociale –, che rispondono a un’aspettativa che non è più formula-
ta, che hanno di mira uno scopo che non si nomina mai in quan-
to tale. Zweck ed Erwartung sono i due migliori indicatori per
comprendere come proceda la “pena”: il Sinn si disfa del fatto
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Note su alcune forme incompatibili 93
della sola presenza di questi due tipi di realtà operanti nel mec-
canismo. Si ha qui all’opera una sorta di mutismo obbligato, dei
modi di fare che, a colpo sicuro, esigono di non essere mai men-
zionati, che restano obbligatoriamente in disparte – un mutismo
che è come la condizione stessa del funzionamento di un buon
numero di processi analoghi o semplicemente simili nell’ambito
della morale o altrove. È quel che Nietzsche indica qui proprio
in filigrana e che spesso si ritroverà altrove, in parecchi dei suoi
testi. Già Pascal e Jeremy Bentham, ovviamente per vie diverse,
mettevano l’accento su meccanismi di questo tipo o su processi
in buona parte analoghi; per il primo ciò riguarda anzitutto la
“religione”, per il secondo “la politica”, più ancora della morale.
Montaigne, da parte sua, parlava di questa cosa determinante
che ai suoi occhi era il «fondamento mistico dell’autorità» – una
formula densa, particolarmente ricca, che, poco dopo, sarà ri-
presa e lungamente commentata da Pascal. Nietzsche si è fatto
l’erede – diretto o indiretto, se così si può dire – di discorsi di
una simile portata; la sfumatura è minima, di poco peso, tra il
fatto di interpretarli, ossia di prolungarli riconoscendo loro un
potere di suggestione, o il gesto, in apparenza del tutto diverso,
che consiste nel reinventarli con i propri mezzi, in altri contesti,
riprendendoli in frasi totalmente differenti.
Valéry, coi termini che gli sono propri, mi sembra iscriversi
in una prospettiva simile, particolarmente vicina anche per via
dell’interesse che dimostra per le diverse istituzioni e, soprattut-
to, com’è noto, a ciò che sempre sembra fondarle su di una mo-
dalità singolare, a ciò che in ogni caso conferisce loro un corso
in gran parte immaginario (e, non bisogna dimenticarlo, solido
allo stesso tempo), ciò che egli chiama Fiducia. È difficile dire
se egli abbia letto con attenzione la Genealogia della morale o
solamente sfogliato il libro. Che importa, d’altronde: credo che
egli ne reinventi le vie e i percorsi attraverso modalità proprie, ne
riscopra il movimento con effetti del tutto diversi e grazie a dei
termini rielaborati all’infinito. A mio avviso, i suoi Cahiers pos-
sono essere letti come degli interminabili esercizi in vista di una
genealogia – parallela a quella ingaggiata da Nietzsche – che non
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si occupano unicamente della “morale”, ma che si preoccupano
piuttosto dei grandi concetti all’opera nell’insieme della filoso-
fia. In quest’ottica, l’ironia, com’è noto, è senza posa messa in
opera da Valéry; essa risponde anche a una necessità che si dirà
di “metodo”, partecipa del lavoro di tutti gli istanti; è una delle
modalità fondamentali di un pensiero di questo tipo.
Si trovano qui dei discorsi che, attraverso percorsi diversi,
vanno incontro alla grande Idea filosofica tedesca – anzitutto he-
geliana –, quell’Idea secondo cui è la Storia che a poco a poco
fa accadere il Senso conferendogli un corso concreto; di con-
seguenza per il Senso il Tempo è il concetto stesso3. Secondo
Nietzsche, il carattere «tardivo» dell’Europa (cfr. GM II 13) fa
sì che essa non sia più orientata verso la prospettiva privilegiata
della definizione (verso quel che per molto tempo è stato chia-
mato “Concetto o Senso”), e anche che abbandoni del tutto la
prospettiva del “perché”.4 La principale ragione di questa man-
canza deriva specialmente dal fatto che “pena” non può altro che
essere indicata tra virgolette e che la stessa cosa accade indub-
biamente anche per i grandi imperativi, i concetti maggiori della
morale – così come per altri, d’altronde.
Le principali nozioni morali dicono sempre di più o un’altra
cosa rispetto a quel che si presumeva enunciassero o anche pro-
ducessero: il “Senso” fa le spese di questo fondamentale difetto,
assentandosi dall’orizzonte. Un certo tipo di discorso è come vo-
tato a dissolversi, quindi a disfarsi dall’interno, non obbedendo
più alla destinazione che gli era propria, non assolvendo più al
ruolo che gli era stato assegnato da lunga data: si tratta in parti-
colare di un effetto di usura, per riprendere una metafora comu-
ne a Valéry e a Nietzsche, e anche di un effetto di svalutazione
3 Come è noto, è stato Alexandre Kojève a modificare la filosofia hegeliana in questo
senso, pur restando del tutto fedele al testo hegeliano.
4 Questo viene a volte chiamato “nichilismo”: è come il momento in cui un pensiero
incontra i possibili che ha emesso per molto tempo, il momento in cui si deve confrontare
con ciò che ha prodotto senza averlo né misurato né compreso, in cui il pensiero diventa
dunque fortemente dipendente da ciò che ha dovuto fabbricare in momenti diversi, da
quegli artifici sui quali ha dovuto sostenersi.
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Note su alcune forme incompatibili 95
che genera una pratica quasi illimitata del sospetto.5 Entrambi
gli effetti mostrano quel che vi è di profondamente enigmatico
nel solo fatto di essere obbligati a dire che, in un dato momento
della Storia, i valori si svalutano, quali che siano le motivazioni o
le modalità di questa diserzione maggiore. Una rovina che anzi-
tutto proviene dal modo in cui, ben prima di noi, essi sono stati
posti, e dalle credenze di cui li si è dotati6, dagli investimenti che
essi hanno sopportato.
4.
È una sorta di forte messa in guardia quella che Nietzsche
compie qui, su questo oggetto che è lontano dall’essere insigni-
ficante, la “pena” – realtà che si presume rispondere a un’azione
distruttrice, far fronte a ciò che è “male”, rimediare ai diversi
tipi di “crimine” che una società può conoscere. La constata-
zione è implacabile: difetto di senso e mancanza di coerenza da
parte di coloro – evidentemente molto numerosi: la società nella
sua interezza e come istanza d’insieme – che evocano la necessità
della “pena” e l’incapacità di legittimare ciò che si formula (più
spesso) con un grande vigore. È dell’ordine del dev’essere così e
non altrimenti. Senza minimamente forzare il discorso, si dirà
che, come conseguenza diretta di quest’osservazione cruciale,
una società non sa più ciò che fa quando pretende di obbedire a
questa necessità interna, ossia il fatto di doversi preoccupare con
priorità delle forme del “crimine”, di dover quindi trovare le mo-
dalità (le più umane, le più razionali...) di sbarazzarsene. Resta il
fatto che formulare un’economia di siffatta natura non va mai da
sé, espone colui che vi si arrischia a molti fastidi – evidentemente
da parte del corpo sociale, cioè del tale o talaltro dei suoi rap-
presentanti nell’ordine morale o ancora nell’ambito politico. A
questo proposito le accuse non mancheranno, com’è noto, tanto
5 L’economia è molto spesso presente in queste operazioni, per una ragione o per
l’altra: essa ha un ruolo maggiore da giocare, molto spesso su alcune modalità metafori-
che a partire dal XIX secolo.
6 Cosa che non è senza analogie con l’insieme del percorso di Etienne de La Boétie
nel famoso Discorso sulla servitù volontaria.
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per Nietzsche quanto per Valéry, del resto con la medesima ba-
nalità e senza riguardare nulla di preciso. Anche se si hanno delle
buone ragioni per credere che siano in gran parte conosciuti, dal
fatto in particolare che molti altri li hanno già lungamente evoca-
ti o suggeriti, esistono delle specie di segreti che evidentemente
è preferibile non scoprire, delle modalità di funzionamento sul-
le quali è meglio non attardarsi troppo. Si taccerà presto come
inutile – o anche come propriamente inumano... – ogni percorso
che, brancolando, si azzardi ad enunciare qualcosa secondo una
simile logica o che, cosa ancora più grave, mostri tutta l’assurdità
di questo processo, facendo intendere che qui si finisce nell’am-
bito delle operazioni che non obbediscono ad alcuna razionalità.
Se non si sa più «per quale ragione si addiviene alla pena»,
sembra che non si riesca più a sapere precisamente quel che si
pretende punire, rispetto a chi e in quale prospettiva si possa
avere una risposta al “crimine”. La questione resta, inevitabile,
imprescindibile: è quindi la stessa istanza che indica ciò che è il
misfatto, che annuncia che vi dovrà essere punizione e che forni-
sce anche le “ragioni”7 per procedere in questo modo?
Si potrebbe dire che è il corpo sociale che non comprende più
ciò che mette all’opera, che non ha più i mezzi per cogliere ciò
che enuncia, ciò che decreta come morale elementare, ciò che
propone come “valori” del momento, ciò che eredita su modalità
contraddittorie. Vi sono qui molti sintomi che diventano insepa-
rabili e che s’impongono sempre più all’attenzione, divenendo
in qualche modo parlanti. Il corpo sociale non sa più e dunque
non è in grado di enunciare cosa sia la pena. Insomma, siamo di
fronte ad un’impossibilità radicale di dare senso a quel che può
costituire il cimento stesso di una società; come un fondamentale
divieto di parlare e, soprattutto, un’incapacità di pronunciarsi su
ciò che sembra dover (o poter) riunire una società, su quel che
eventualmente gli conferirebbe consistenza. Manteniamo il ter-
mine “pena” in circolazione – d’altronde, come fare altrimenti? –
ma non possiamo più comprenderlo, coglierne la coerenza inter-
7 Si capisce perché qui servano, specialmente, delle virgolette.
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Note su alcune forme incompatibili 97
na; esso resta fluttuante, totalmente indeciso, pronto soprattutto
a servire le cause più diverse, le più contraddittorie – mi sembra
un po’ come il tempo in Sant’Agostino: se nessuno ci chiede cosa
nasconde il termine stesso, le cose possono seguire il loro corso
senza grandi difficoltà, almeno per un po’; di contro, se qualcuno
– che s’intenda di genealogia o meno – ci chiede di precisarlo o
d’indicarne almeno un po’ i contorni e di cosa effettivamente si
tratti con un simile termine, il problema si presenta in tutta la sua
ampiezza, il concetto stesso sembra effettivamente inutilizzabile
nella misura in cui lascia spazio, ad ogni occorrenza, a un utilizzo
particolare o a un’applicazione interessata. La fine del Concet-
to, la sua sparizione, è in particolare quel momento in cui una
società – o almeno alcuni dei suoi rappresentanti, specialmente
quelli che parlano per gli altri – fa intervenire un interesse parti-
colare con il pretesto della più grande generalità, in cui uno sco-
po specifico predomina assumendo tutte le apparenze del bene
comune. Come si può facilmente supporre, la cosa avviene di
frequente – nell’ambito della morale, ovviamente in quello della
politica e oggi, a caratteri cubitali, in quello economico. La fine
del Concetto coincide anche con questi momenti, abbastanza
abituali, in cui si arriva a confondere l’aspettativa (o la speranza)
e la verità, lo sconto e il risultato, il semplice desiderio e la realtà;
tutte quelle numerose operazioni attraverso le quali si canalizza-
no delle forze conferendo loro un nome nobile in apparenza, una
nomina che crea consenso.
Si dirà, in un modo un po’ diverso: a furia di impiegare in
questo modo un termine di siffatta portata – intendo la “pena”
–, un bel giorno si manifestano i danni dovuti all’usura, l’in-
determinazione fa problema nella durata e lascia spazio a cap-
tazioni o assoggettamenti imprevedibili. Attraverso questo,
si può senza dubbio capire tutta l’importanza che Nietzsche
riconosce al «noi» – ai diversi «noialtri...» che egli d’altronde
cerca di costituire secondo registri differenti –, in particolare
nei suoi ultimi testi, e tutte le difficoltà che egli ugualmente
incontra per differenziare, all’interno di questa istanza gram-
maticale e di questa sorta di realtà manifestamente polimorfa,
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98 Jean-Michel Rey
delle forme fondamentalmente diverse8.
Chi può dunque dire “noi” nei diversi enunciati che mirano a
punire? In quale tempo un simile “noi” può effettivamente par-
lare? A chi direttamente si rivolge quando raccomanda la “pena”
come principale soluzione? A che cosa questo “noi” può richia-
marsi senza rischiare d’essere immediatamente contraddetto?
5.
È noto il grande Leitmotiv di questi ultimi anni di Nietzsche,
ciò che egli tenta di riprendere facendolo variare in particolare
sotto il nome di «nichilismo»: i valori stessi si svalutano forte-
mente; vi è una caduta visibile del loro corso, quest’ultimo es-
sendo spesso stato forzato senza che si potesse ammetterlo; non
è più possibile evitare un crollo di questa portata o continuare a
mantenere i valori in rialzo; è impensabile il non vedere ciò che
accade davanti ai nostri occhi; è sempre più vano ricorrere a degli
artifici che, anche loro, hanno fatto il loro tempo e qui non pos-
sono più essere d’alcun aiuto. La morale si trova costantemente
in una situazione precaria, diventa insensata: è ciò che permette
a qualunque captazione ideologica di giungere a innestarsi sulla
“procedura” e di influenzarla, conferendogli un orientamento
disastroso, senza grande rapporto con i diversi valori esaltati. Il
risentimento o altri movimenti della stessa natura sanno sfruttare
bene questa situazione. È proprio questo che occupa Nietzsche
nei suoi ultimi testi. Si dirà che per lui si tratta di definire un
«noi» liberatosi il più possibile dai diversi artifici di cui si è dota-
to – altrimenti detto, un «noi» che abbia compreso che conviene,
prima di tutto, separarsi da «obiettivi» prefissati e da «aspetta-
tive» già formulate, per cominciare semplicemente ad esistere.
Evidentemente la «genealogia» nietzscheana costituisce vera-
mente un problema moderno, più precisamente post-hegeliano.
Lo riassumo in due parole nel modo seguente: la massima incom-
8 Per un approfondimento sulla questione del “noi” in Nietzsche, ci si permette di
rimandare al nostro Rey 2010.
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patibilità tra la definizione (o il concetto) e lo svolgimento di un
processo. Un problema di una simile portata è comune, secondo
forme ovviamente differenti, a Kierkegaard, Bergson e Heideg-
ger (prima di tutto in Sein und Zeit). Dal momento in cui vi è
un processo – trasformazione, modificazione, lavoro... – l’unità
rischia di diventare inafferrabile e la prospettiva concettuale di
rivelarsi effettivamente impraticabile; bisogna in qualche modo
procedere diversamente, inventare dei modi di dire (e di fare)
che provengano da altri orizzonti. Ognuno di questi pensatori
si serve della messa in opera di un dispositivo in vista di rendere
conto di questa inadeguatezza congenita, di questo disadatta-
mento tra ciò che è e una forma di Discorso che ha largamente
predominato e ha prescritto le forme (e i limiti) di ciò che è pen-
sabile. Il modo attraverso cui Nietzsche tratta questo problema
consiste anzitutto nell’introdurre la prospettiva di quel che egli
chiama semiotica nel modo seguente: «Tutte le nozioni, in cui si
condensa semioticamente [semiotisch] un intero processo, si sot-
traggono alla definizione». Per precisare bene i giochi di questa
posizione, Nietzsche aggiunge questa osservazione: «Definibile
è soltanto ciò che non ha storia» (GM II 13). Qui come altrove,
Nietzsche oscilla tra i “segni” (dalla forte connotazione medica,
com’è noto) e i “geroglifici” – trattati nella “Prefazione” della
Genealogia della morale – di cui si conosce la provenienza ma
che, ciononostante, restano profondamente enigmatici.
Questi due termini (intesi secondo un’accezione nietzschea-
na) possono essere confrontati con l’«als» che compare alla fine
di GM II 13, nell’assai lungo elenco che va a chiudere questo pa-
ragrafo conferendogli una grande forza teoretica. La “pena” in
quanto..., la “pena” come... o al posto di... Questa è una modalità
per introdurre ai differenti “sensi” della pena – cioè rispetto agli
usi, alle modifiche, alle ristrutturazioni, alle reinterpretazioni – i
termini si potrebbero moltiplicare: è ciò che fa Valéry – rispetto a
ciò che chiamiamo, malgrado tutto, “pena”: sia essa ciò che usur-
pa questa denominazione, quel che siamo costretti a chiamare in
tal modo, dunque ciò che può essere formulato solo facendo a
poco a poco scoppiare il concetto stesso. La “pena” non giunge
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100 Jean-Michel Rey
mai propriamente a enunciarsi, ma è necessariamente sempre als,
esiste solo come qualcos’altro; non può dunque accedere a nes-
suna generalità, è già sempre al servizio di uno Zweck o anche
semplicemente impegnata con una Erwartung, non ha dunque
nessuna purezza, è sempre sminuita, non è quasi niente di per sé.
Dal momento in cui si pronuncia questa parola – o quando la si
sottintende: fa lo stesso –, c’è un asservimento che interferisce,
viene a prodursi un’impostazione gerarchica, una scala di valori
che viene posta come in silenzio – e via di seguito9. La “pena” è
sempre altra cosa da se stessa, un’altra cosa che, essenzialmente,
canalizza e sfrutta ciò che può sembrare durevole e stabile nel
dispositivo d’insieme; essa è come necessariamente abitata da un
“als” che in qualche modo ne moltiplica all’infinito le forme. Del
resto, è ciò che fa sì che essa non possa avere nessuna portata
nell’ordine della morale – pure nella morale sociale.
In questa lunga enumerazione si vedono bene le possibili de-
stinazioni della “pena”. Ma s’intravede altrettanto quel che di
fatto è la sua economia – quella che in particolare si lascia ri-
condurre all’opposizione “creditore/debitore”, di cui Nietzsche
parla molto in questo libro come altrove. Evidentemente si po-
trebbe proseguire questa lista, arricchirla di particolarità, trovare
altri “als”, mettere in luce altre legittimazioni o giustificazioni di
questo processo. Le forme sembrano potersi declinare a perdita
d’occhio, e tutto questo riguarderebbe chiaramente un certo nu-
mero di dibattiti attuali.
In altri termini, si dirà che il cammino genealogico ha come
conseguenza fondamentalmente lo sconvolgimento di tutto ciò
che si apparenta a un “giudizio determinante” (o giudizio sin-
tetico a priori) – nel senso forte che Kant conferisce a questa
espressione. Si tratta dell’obbligo di riprendere per altre strade,
con degli strumenti da costruire, ciò che procede dal “giudizio
riflettente”, di cercare in qualche modo di rendere conto della
diversità nella quale si confrontano un buon numero di ambiti.
9 La genealogia obbliga a riconoscere che costantemente esiste, al posto del Concet-
to, l’elencazione – il “via di seguito”, l’“eccetera” ed altre formule simili.
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Note su alcune forme incompatibili 101
6.
Da tutto questo seguono alcune questioni.
Che cosa sarebbe un politico che non accettasse di regolarsi su
di un Senso già dato, che non cercasse di piegarsi a bisogni o a do-
mande presunte, che cercasse di tener conto del gioco esistente tra
il “relativamente durevole” e il “fluido”, che si rifiutasse di contare
su “valori” facendo affidamento sul passato, l’anzianità o la presta-
zione? Che cosa sarebbe un’etica che cercasse di ridurre il più pos-
sibile il campo dell’“als”? Che cosa potrebbe risultare per il “noi”?
Che cosa può essere un pensiero che rinuncia alle agevolazioni
dell’etimologia per impegnarsi ancora di più in una ruminazione
genealogica, su di un terreno in cui i giochi del linguaggio assu-
mono una forte consistenza?
Accenno velocemente e indirettamente, sviluppando il discor-
so di Nietzsche, all’opposizione (o alla controversia...) tra Hei-
degger e Wittgenstein. Il XX secolo è il momento in cui si formu-
la questo grande dilemma, qui enunciato in modo schematico:
o l’etimologia generalizzata (del greco antico e di certe lingue
moderne, soprattutto il tedesco) che ha di mira una verità da di-
soccultare, o l’ipotesi secondo cui le parole rispondono a “scopi”
o “aspettative”. Due concezioni totalmente opposte ossia stret-
tamente incompatibili; per quanto il dilemma sia enunciato sin-
teticamente, si vede comunque che queste sono due modalità di
tornare sulla dimensione del tempo in quanto inseparabile tanto
dalla ricerca dell’étymon quanto da ciò che nominiamo giochi di
linguaggio o artifici (poetici, o altri), che a essa sono connessi.
Secondo la modalità empirica che caratterizza propriamente
il suo stile, Valéry si è messo alla prova nel tenere insieme un
cammino in cui i “segni” non sono del resto altro da ciò che qua-
lifico come “genealogico”, una poetica che conduce l’artefatto al
suo apice d’intensità e una preoccupazione filosofica rispetto al
tempo e a termini astratti dello stesso tipo.
Esiste un fatto molto notevole, è l’intermittenza del bisogno di que-
sto termine [il tempo]. E mantengo come principio capitale del “mio
sistema” o metodo la regola di non dissociare mai da una definizione di
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102 Jean-Michel Rey
parola (o da un utilizzo di precisione di una parola “astratta”) l’idea del
bisogno di questa parola. Essa deve rispondere a qualche domanda, che
d’altronde può risultare da un’operazione su di un’altra parola data;
per es. negazione, contrasto, possibilità, [capace], [possibile]), comple-
mentare, ecc. In tal caso l’esistenza della parola è giustificata – cosa che
(trattandosi di parole astratte) è essenziale alla buona economia del fun-
zionamento dei segni, il più frequente funzionamento del trasformatore
mentale. Esso è un organo di passaggio. (Valéry 1957-62: t. XXIV, 441)
E Valéry parla, nella stessa prospettiva, di «segni che sono in-
separabili da una relazione, comparazione, impossibili da isolare
da qualche funzione o ruolo, come le lettere in algebra» (Valéry
1957-62: t. XXIV, 442).
Come Nietzsche, ma anche differenziandosi da lui, Valéry ci
rende attenti al fatto che un cammino genealogico non riguarda
unicamente le parole, ma anche, se non di più, la formazione
degli enunciati, le diverse operazioni grazie alle quali le parole
originano delle frasi che, in cambio, vengono a modificare fon-
damentalmente l’accezione di quelle parole – e questo accade in
tutti gli ambiti.
Traduzione dal francese di Barbara Scapolo
Bibliografia
Adorno, Theodor Ludwig Wiesengrund: 20069. Minima moralia. Me-
ditazioni della vita offesa, § 81, trad. it. di R. Solmi, Torino, Einaudi.
La Boétie (de), Etienne: 2014. Discorso sulla servitù volontaria, trad. it.
a cura di E. Donaggio, Milano, Feltrinelli.
Rey, Jean-Michel: 2010. L’età dei concetti, in Per una concettualità del
presente, a c. di B. Giacomini, “Paradosso”, Padova, Il Poligrafo,
pp. 39-53.
Valéry, Paul: 1957-62; t. XXIV. Cahiers [fac-similé], t. I-XXIX, Paris,
Éditions du C.N.R.S.
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Credenza, fiducia o conoscenza?
Alcune riflessioni a partire da GM II 13
Barbara Scapolo
Il passo che dà avvio alle riflessioni che vorrei proporre in
questo approfondimento è quello relativo all’analisi nietzschea-
na svolta sull’ambivalente concetto di “pena” [Strafe] nella sua
sedimentazione di significati, luogo che è stato già più volte in-
dicato, a giusto titolo, come uno dei momenti teoretici più signi-
ficativi della Genealogia della morale. Alcune delle mie conside-
razioni appariranno in perfetta continuità e complementarietà
con il contributo di Jean-Michel Rey proposto in questo volume
(come anche rispetto ad altri suoi lavori1), sebbene esse aspirino
a una problematizzazione che tenga conto non solo dell’opera di
Nietzsche in questione, ma anche di alcuni punti nodali della ri-
flessione del filosofo tedesco considerata nel suo insieme. Nello
specifico, il fulcro di questa mia analisi riguarderà la problema-
ticità di concetti quali “credenza”, “fiducia” e “conoscenza”2:
una loro messa in questione deve necessariamente attraversare il
pensiero nietzscheano e farsi carico della sua portata ineludibile,
come si cercherà di mostrare in seguito.
In GM II 13, luogo qui posto in questione, confluiscono, fino
a sovrapporsi, la verità come problema (cfr. JGB 1) e la mora-
le come problema (cfr. FW 345); esso offrirà un’occasione per
riflettere ancora una volta sul significato di questa tangenza di
1 Ci si riferisce al lavoro dedicato in precedenza alla Genealogia della morale (Rey
2010) non meno che alle ricerche sul problema del credito e della credenza nella pro-
spettiva di un’ontologia del mondo sociale: cfr. Rey 1998, Rey 2002 e Rey 2003.
2 Per un approfondimento ulteriore su questi temi, si rimanda a: Scapolo 2010,
Scapolo 2011, Scapolo 2013 e Scapolo 2014.
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104 Barbara Scapolo
temi nietzscheani e, al contempo, diverrà quello snodo che per-
metterà di individuare una vera e propria chiave di volta circa
la problematicità della morale e della conoscenza. Vale la pena
evidenziarlo subito, non si deve mai dimenticare che per tali
ambiti Nietzsche aspira ad una comprensione prospettica, come
indicato nella Genealogia della morale stessa3. Per il filosofo te-
desco esiste infatti «un legame inavvertito tra concezioni morali,
convinzioni scientifiche, concetti ed espressione linguistica» (Ca-
nevari 2008: 103): egli si è adoperato anzitutto per fare in modo
che tale rapporto venisse alla luce, ha voluto, cercato e realizzato
un prospettivismo del sapere proprio perché non ha mai scisso
l’attività teoretica dall’ethos o dall’habitus con cui il filosofo del
domani sarà capace di interrogare la realtà, ma anche in ragione
del fatto che l’esistenza stessa è venuto assumendo un carattere
prospettico: «Il mondo è piuttosto divenuto per noi ancora una
volta “infinito”: in quanto non possiamo sottrarci alla possibilità
che esso racchiuda in sé interpretazioni infinite» (FW 374). Non
si deve infatti dimenticare che, per Nietzsche, il senso della ve-
rità [Warheitsinn] si è sempre mosso nella direzione della scep-
si, ovvero secondo una chiave sperimentale dei problemi, senza
“Verità” con la maiuscola, senza dogmi, assiomi, assolutismi (cfr.
FW 51); in effetti, come è indicato nei Frammenti postumi, «dare
un senso resta un compito da assolvere», in continua evoluzio-
ne (cfr. NF 1887-88, 9[48]). L’ethos scettico emerge con forza
maggiore laddove venga a crollare ogni fede ottimistica nell’uni-
versalità della ragione, sostituita dallo spettacolo affascinante e
tragico della pluriversalità, ovvero dell’irriducibilità conflittuale
dei diversi punti di vista, delle diverse opinioni.
Com’è noto, il suo continuo percorrere e ripercorrere i pro-
blemi secondo angolature e prospettive differenti va iscritto nel
progetto generale di una «gaia scienza», che riguarda un sapere
3 «Esiste soltanto un vedere prospettico, soltanto un “conoscere” prospettico; e
quanti più affetti lasciamo parlare sopra una determinata cosa, quanti più occhi, differenti
occhi sappiamo impegnare in noi per questa stessa cosa, tanto più completo sarà il nostro
“concetto” di essa, la nostra “obiettività”» (GM III 12).
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Credenza, fiducia o conoscenza? 105
che considera secondo una modalità scettico-ironica gli elementi
del suo stesso discorso, essendo un errore l’aderirvi in maniera
assoluta, un errore il considerarli come effettivamente acquisiti.
Nietzsche lo scettico, come il suo Zarathustra, è infatti perenne-
mente alla ricerca, è un viandante che tenta e percorre vie diverse
per giungere alla diffidenza, alla sfiducia [Mißtrauen] verso ogni
Verità imposta come assoluto. Tanto la critica e la negazione (il
«filosofare con il martello»), quanto la scepsi sono al servizio di
questo esperimento: egli altro non desidera che «una buona dose
d’incertezza», un orizzonte libero, un mare aperto, entro cui sia
possibile esercitare tutto il possibile del pensiero, illimitatamen-
te, senza confini. «Che cosa è stato finora ostacolato? Il nostro
impulso a sperimentare» (NF 1886-87, 7[6]).
1. Un proficuo sintomo da interpretare genealogicamente
Com’è noto, la seconda dissertazione della Genealogia della
morale riguarda in particolare lo studio della tras-formazione (da
intendersi come divenire della forma, come mutamento, come
processo di formazione nella tensione tra continuità e cambia-
mento) degli strumenti messi in atto dalla società per «allevare
e disciplinare un animale cui sia consentito fare delle promesse»
(GM II 1) e dei risultati ottenuti da questa operazione. La società
è per Nietzsche superiore all’individuo per forza e potenza; in
particolare, rispetto a quest’ultimo, essa si pone nella posizione
del creditore rispetto al debitore. In virtù di questa relazione ge-
rarchica, la società ha strutturato il sistema di pene e punizioni
per costringere l’individuo all’obbedienza e indurlo al rispetto
della collettività e degli impegni che con essa ha assunto. Questo
processo, come sappiamo, è per Nietzsche essenzialmente repres-
sivo: grazie all’eticità dei costumi e alla sociale camicia di forza
posta sugli istinti, l’uomo divenne uomo, ossia diventò affidabile,
detto altrimenti divenne effettivamente prevedibile. Dall’anali-
si compiuta qui, nel cuore della Genealogia, emerge anzitutto
un’evidente paradossalità e ambivalenza del concetto di “pena”:
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106 Barbara Scapolo
Nietzsche mette chiaramente in luce come originariamente essa
non coincidesse affatto con la sofferenza. Chiedendosi come sia
potuto succedere che al sentimento del dolore si sia associata
la cognizione della colpa e quindi della giustizia della pena, ci
viene mostrato come a poco a poco i due concetti abbiano finito
per coincidere e sostituirsi al contraccambio, «alle forme fonda-
mentali della compera, della vendita, del commercio» (GM II
4). Detto altrimenti, Nietzsche ci induce a riflettere sulle tras-
formazioni per cui la pena è arrivata a sostituirsi alla compensa-
zione, rispondendo al paradigma della concezione retributivo/
compensativa cui originariamente era stata consegnata la colpa,
o il debito: alla parte lesa, ossia al creditore, «viene concessa (...)
a titolo di rimborso e di compensazione una sorta di soddisfazio-
ne intima», ossia il doloroso castigo del reo, il debitore (GM II
5). Qui Nietzsche sottopone al più radicale tentativo genealogico
anche il lemma tedesco Schuld, concetto polisemico di cui la lin-
gua tedesca bene esprime la complessità, essendo traducibile al
contempo con “debito”, “colpa” e “dovere” e, pertanto, essendo
a sua volta un ottimo terreno per la messa in opera del metodo
genealogico stesso.
In GM II 13 Nietzsche ci dice che “pena” è un concetto diffi-
cile da definire (e quindi da utilizzare) nella misura in cui la sua
unità di significati sembra mancare; il moltiplicarsi dei suoi sensi
rende il concetto «incerto, suppletivo, accidentale». Si conside-
ri inoltre che «l’intera storia di una cosa, di un organo, di un
uso può essere (...) un’ininterrotta catena di segni che accenna a
sempre nuove interpretazioni e riassestamenti, le cui cause non
hanno neppure bisogno di essere in connessione tra loro»; detto
altrimenti, «la forma è fluida ma il senso lo è ancor di più». Il
problema sollevato da Nietzsche, sul quale peraltro possiamo ri-
levare una sua marcata insistenza, riguarda il fatto che non si rie-
sce più a sapere di che cosa parliamo quando utilizziamo termini
così correnti come Strafe o Schuld. Ricorderemo un passaggio
di GM I 5, dove la stratificazione di significati nel linguaggio è
indicata come un «problema silenzioso», che appartiene proprio
alle cose e ai termini che le designano, problema che, senza la
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Credenza, fiducia o conoscenza? 107
genealogia, passa sotto silenzio nell’uso abituale.
Abbiamo dunque incorporato un mondo di segni delle cose e
di una tale confusa mescolanza siamo ormai succubi, dipendenti.
Siamo intrappolati in parole e concetti provenienti dal passato,
non riusciamo a stabilirne l’effettiva consistenza, l’effettiva pos-
sibilità di coincidenza con il nostro presente. Proprio perché non
sappiamo nulla, o quasi, della “pena”, Nietzsche ci presenta la
necessità di svolgere un excursus lungo la storia di questo con-
cetto. La nuova consapevolezza che egli desidera per il filosofo
dell’avvenire è proprio il senso storico, ossia la capacità di vedere
i fenomeni di conoscenza, collocati nel tempo e nello spazio, non
come un “già dato” ma come sempre suscettibili di interpreta-
zione. In GM I 4 egli ci ha esplicitamente indicato la necessità
di ricerca delle stratificazioni storiche dei significati presenti nel
linguaggio, che, come sappiamo, sono per il genealogista come
reperti del passato nascosti nel sottosuolo per l’archeologo: al
suo sguardo, le illusioni provocate dal linguaggio appaiono per
ciò che sono, ovvero dei sintomi da interpretare4. Si tratta allora
di ripercorre il più possibile le metamorfosi di significato subite
dai concetti anzitutto mediante una ricostruzione etimologica e
storica. Detto altrimenti, è urgente inventare delle modalità di
accesso a ciò che è passato, dimenticato, seppellito, a ciò che è
stato finora ignorato per una più completa, più prospettica, com-
prensione del nostro presente.
La Genealogia della morale è in questo senso l’esposizione
del metodo genealogico attraverso la sua diretta messa in opera.
Com’è noto, Nietzsche trasforma la domanda filosofica origina-
ria, il “che cos’è?” di Socrate, in “che cosa significa?”, che a sua
volta prelude al problema “Per chi significa, per chi ha valore
questa cosa o questo concetto? A partire da quale visione del
mondo, e a favore di quale tipo umano ciò che ha valore è rite-
nuto avere valore?”5. È di fondamentale importanza evidenziare
4 Cfr. ad es. NF 1885-86, 2[165].
5 «Ma posto che la fede sia svanita, si ripropone la questione: “chi parla?”» (NF
1886-87, 7[6]).
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108 Barbara Scapolo
ancora una volta che per Nietzsche non è mai indifferente chi
sia a pronunciare un giudizio di valore. La genealogia come me-
todo apre al sospetto, alla diffidenza rispetto al valore dei valori
mediante la ricerca della loro origine e del loro significato. Nel
§ 6 della Prefazione della Genealogia della morale ci viene infatti
fatto notare come si sia preso il valore dei valori come dato, come
risultante di fatto. In questo senso, verità extramorali saranno
allora quelle che non danno per acquisito una volta per tutte e
in modo autoevidente questo valore dei valori morali; ci si potrà
appellare alla loro “verità” solo se si riuscirà a mantenerne aperta
la problematicità. In tal senso il modus operandi genealogico di-
viene per Nietzsche fondamentale per la realizzazione del gran-
de progetto della trasvalutazione di tutti i valori. Nel senso più
specifico su cui vorrei focalizzare l’attenzione in questa sede, egli
ci mostra come ci serviamo di concetti di cui crediamo di cono-
scere il significato e, contemporaneamente, che senza l’approccio
genealogico non possiamo capire nulla dei concetti e dei termi-
ni che usiamo abitualmente. Detto altrimenti, senza genealogia
non potremo mai avere effettiva conoscenza. In effetti, dietro ai
concetti, il genealogista vede sempre all’opera delle forze oscure:
su di esse è necessario ruminare, scervellarsi [Grübeln], perché
un inganno, un’impostura, un’illusione – ossia una credenza – è
sempre all’opera.
2. La critica genealogica
della realtà psicologica della credenza
Il termine tedesco con cui Nietzsche indica la fede e la creden-
za, usati come sinonimi, è Glaube. In tutta la sua opera, egli tor-
na continuamente su tutte le forme della Glaube, innumerevoli
sono i luoghi rintracciabili. Come già Hobbes6, Spinoza7 e, per
6 Cfr. Hobbes 1651/2011: I Parte, XII.
7 Cfr. Spinoza 1670/2010: Prefazione, 1-6.
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vie ancora più articolate, Hume8, per Nietzsche l’uomo è quasi
sempre totalmente incline a soggiacere alla Glaube, ossia propen-
so a credere a qualunque cosa9. Un discorso differente riguarda
invece la fiducia [Vertrauen], sulla quale torneremo più appro-
fonditamente in seguito. Per ora vale la pena sottolineare solo
come Nietzsche rilevi che, al pari dell’esperimento, la negazione,
la diffidenza e la contraddizione, anche la credenza, il convinci-
mento e la fiducia sono capacità, potenzialità umane. In particola-
re, la Glaube fu subordinata alla conoscenza certa e posta al suo
servizio; in tal modo la conoscenza divenne un frammento della
vita stessa e per l’uomo divenne indispensabile illudersi di posse-
dere un sapere sulla realtà e sulla vita (cfr. FW 110).
La vita deve ispirare fiducia [Vertrauen]: il compito, posto in questo
modo, è immane. Per assolverlo, l’uomo deve essere, già per sua natu-
ra, mentitore [Lügner], deve essere, più che qualsiasi altra cosa, artista
[Künstler]. Ed egli lo è anche: metafisica, religione, morale, scienza: non
sono altro, tutte, che emanazioni della volontà dell’uomo di ricorrere
all’arte, di mentire, di fuggire di fronte alla «verità». La facoltà stessa,
grazie alla quale egli fa violenza alla realtà mediante la menzogna, que-
sta facoltà artistica per eccellenza dell’uomo: egli l’ha in comune con
tutto ciò che è. (...) Che il carattere dell’esistenza venga misconosciuto
– è il profondissimo e supremo fine recondito dietro tutto quanto è vir-
tù, scienza, devozione, tendenza artistica. Molte cose non vederle mai,
molte cose vederle falsamente, e vederne molte altre che non ci sono:
oh, come si è accorti nelle situazioni in cui si è ben lungi dal ritenersi
accorti! (NF 1888, 17[3]).
Senza credenze, illusioni e menzogne, senza la certezza di co-
noscere il vero e il falso, il bello e il brutto, la causa e l’effetto,
non potremmo vivere, non potremmo – come approfondiremo
meglio in seguito – avere fiducia nella vita. Tuttavia, l’esperi-
mento di Nietzsche ci indica un’altra direzione, che possiamo
riassumere con la seguente domanda: fino a che punto le verità
8 Tra i molti luoghi di rimando possibili, in particolare cfr. Hume 1741/2008.
9 Prospettiva sulla quale oggi si continua ad interrogarsi: cfr. ad es. Girotto/Pievani/
Vallortigara 2008.
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molteplici e prospettiche che costituiscono il mondo e il nostro
stesso esistere sopportano di essere assimilate, assorbite, cristal-
lizzate in una risposta che necessariamente si trasformerà in una
credenza? Ci serviamo del concetto di “pena” perché crediamo
di sapere che cosa significhi, quale sia la sua verità: ma quali sono
le ripercussioni, gli effetti concreti di questa nostra ignoranza?
Lo si è detto, Nietzsche ci mostra come le credenze siano in
gran parte necessarie alla vita umana e come ogni società ne regoli
variamente l’uso (ciò è evidente, ad esempio, nel caso dell’analisi
compiuta da Nietzsche sul concetto di “pena”). Tuttavia egli ci
mostra anche le devastazioni che ogni credenza, ogni fede non
possono fare a meno di produrre nel tessuto sociale e nell’ordine
della conoscenza, sul terreno della morale come su quello della
scienza. Si badi bene: non troviamo in Nietzsche una semplice
indagine e critica alla Glaube di matrice metafisica o religiosa,
ma una radicale critica al suo funzionamento come facoltà, alla
sua operatività problematica in ogni ambito della conoscenza e
della prassi dell’uomo. In particolare, lungo la scia humiana, at-
traverso la critica genealogica della realtà psicologica della creden-
za, facoltà costantemente attiva nell’uomo, il filosofo tedesco si
àncora in maniera assolutamente inedita e proficua allo scettici-
smo. Nella sua riflessione vediamo infatti dispiegarsi pienamente
una disposizione che non si limita a mettere semplicemente tutto
in dubbio, ma, con un’attitudine più prossima all’ethos scettico
antico (che Nietzsche ben conosceva), egli nega decisamente la
possibilità di trovare la Verità come assoluto. Nel suo pensiero
confluiscono in maniera radicale tutte le attitudini e le dispo-
sizioni della scepsi, non meno che i suoi risultati problematici,
scagliati contro concetti-bersaglio e contro rapporti mendaci,
creati dall’uomo mentitore-artista per sopravvivere, come vero-
falso, buono-cattivo, causa-effetto, origine-fine. Le stesse nozioni
di causa o di soggetto per Nietzsche non sono altro che creden-
ze, delle finzioni necessarie, illusorie e pregiudiziali, così come
l’unità e la coerenza della persona, intesa come istanza senza
contraddizioni. Egli vuole soprattutto mostrarci l’urgenza dello
smascheramento di questa illusione, ossia come l’uomo sia piut-
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Credenza, fiducia o conoscenza? 111
tosto un processo complesso ed incerto, in continua mutazione
e senza una direzione precisa. Leggiamo nel § 54 dell’Anticristo:
Gli uomini della convinzione non sono da prendere in alcuna consi-
derazione per tutto quanto è fondamentale sul valore e disvalore. Con-
vinzioni sono carceri. Non vedono abbastanza lontano, non vedono sot-
to di sé. (...) La libertà da ogni specie di convinzioni, il saper guardare
liberamente è parte integrante della forza… (…) Viceversa il bisogno di
una fede [Glauben] (...) è un bisogno della debolezza. L’uomo di fede, il
«credente» [der Gläubige] di ogni specie, è necessariamente un uomo
dipendente – un uomo che non può disporre di se stesso come scopo,
che non può in generale disporre scopi derivandoli da se stesso. Il «cre-
dente» non si appartiene, egli può essere soltanto un mezzo, egli deve
essere usato, sente la necessità di qualcuno che lo usi. Il suo istinto
attribuisce massimo onore a una morale della spersonalizzazione (...)
Ogni specie di fede è, per se stessa, un’espressione della spersonaliz-
zazione, di autoalienazione… (…) Il credente non è libero di avere in
genere una coscienza per la questione del «vero» e del «non vero»:
essere onesti su questo punto sarebbe la sua immediata rovina. (AC 54)
«Fede [Glaube] significa non voler sapere quel che è vero»
(AC 52). Occorre dunque dimostrare che tutte le costruzioni del
mondo sono antropomorfismi e che, senza un certo autoinganno,
nessuno può credere con sicurezza di possedere la verità. Avere
fede nella verità, altro non significa che illudersi.
Anzitutto, servendosi della scepsi genealogica, si giunge a con-
statare e a dimostrare che il mondo non è razionale: vale la pena
di rileggere un celebre aforisma de Il viandante e la sua ombra,
intitolato La ragione del mondo:
Che il mondo non sia il compendio di un’eterna razionalità, lo si può
definitivamente dimostrare col fatto che quel pezzo di mondo che noi
conosciamo – voglio dire la nostra ragione umana – non è eccessiva-
mente razionale. E se essa non è in ogni tempo e completamente saggia
e razionale, neanche il resto del mondo lo sarà; qui vale la conclusione
a minori ad majus, a parte ad totum, e invero con forza decisiva. (WS 2)
Nietzsche constata come non si possa suscitare Glaube nell’uo-
mo solo con «promesse di ricompensa e castigo – la fede che
“muove le montagne” si può fondare solo sulla coscienza del no-
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112 Barbara Scapolo
stro inevitabile naufragio, se non accettiamo la salvezza che ci
viene ancora offerta…», ossia la Glaube scaturisce direttamente
dall’«intelligenza della nostra situazione», ossia da un’inconscia
comprensione del carattere irrazionale, caotico e contraddittorio
della nostra esistenza e dalla volontà di misconoscerlo per poter
vivere (NF 1887-88, 11[271]): com’è noto, in Nietzsche la logi-
ca della “necessità della menzogna” non procede mai senza la
puntuale considerazione tanto della sua “utilità” quanto del suo
“danno”. Il Grundproblem riguarderà allora lo scoprire «da dove
viene questa onnipotenza della fede? della fede nella morale? [Des
Glaubens an die Moral?]» (NF 1885-86, 2[165]).
Si ebbe bisogno di Dio come di una sanzione assoluta, che non ha
sopra di sé nessun’altra istanza, come di un «imperativo categorico»;
o, in quanto si credeva all’autorità della ragione, si ebbe bisogno di
una metafisica dell’unità, in virtù della quale diventasse logico ---. (NF
1886-87, 7[6])
Ingenuità, come se la morale restasse, quando viene a mancare il
Dio sanzionante! L’«al di là» è assolutamente necessario, se si tratta di
mantenere in piedi la fede nella morale. (NF 1885-86, 2[165])
Il pregiudizio moralistico di base proprio del filosofo, secon-
do lo scettico Nietzsche, consiste nel credere che l’esser vero sia
in se stesso omogeneo, ordinato e garantito sistematicamente, di
modo che vi si possa riporre fiducia [Vertrauen], in modo irrifles-
so. Il problema qui sollevato trova il suo fondamento nel morali-
smo, a sua volta costruzione mendace:
Prescindendo da una sanzione e garanzia religiosa dei nostri sensi e
della nostra razionalità – donde potrebbe venirci un diritto alla fiducia
[Vertrauen] verso l’esistenza? Che il pensiero sia poi misura del reale –
che ciò che non si può pensare non sia – è un goffo non plus ultra di una
credulità moralistica (nell’esistenza di un essenziale principio di verità
nel fondo delle cose), è in sé una pazza affermazione contraddetta ogni
momento dalla nostra esperienza. Noi addirittura non possiamo pen-
sare niente, in quanto è… (NF 1885-86, 2[93])
Non esiste alcun Assoluto in cui il contraddittorio e l’assurdo
che ci pervade e ci circonda possa venire eliminato, assorbito o
inverato in un’inimmaginabile e ineffabile coordinazione, spie-
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Credenza, fiducia o conoscenza? 113
gazione, logica. L’intera riflessione di Nietzsche ci mostra come
sia stato proprio attraverso la stessa naturale disposizione a tro-
vare delle ragioni, delle spiegazioni a cui credere, che l’uomo ha
costruito gli edifici fittizi della conoscenza, della morale e della
religione. Le “leggi del pensiero”, come quella di identità o di
contraddizione, non hanno nulla di dimostrabile o di razionale,
ma sono solo modi irriducibili di pensare attraverso cui abbiamo
cercato di interpretare il mondo: è proprio quando non funzio-
nano più che ci accorgiamo di tutta la loro provvisorietà e arbi-
trarietà. Il filosofo tedesco aspira ad un
tentativo di pensare sulla morale senza cedere al suo incantesimo,
con diffidenza [Mißtrauisch] per il raggiro dei suoi bei gesti e sguardi.
(…) Il mio tentativo [è] di intendere i giudizi morali come sintomi e
linguaggi di segni, in cui si rivelano i fatti del prosperare o del deperire
fisiologico, come anche la coscienza delle condizioni di conservazione
o di crescita. (…) La mia proposizione principale è questa: non ci sono fe-
nomeni morali, ma c’è solo un’interpretazione morale di questi fenomeni.
(NF 1885-86, 2[165])
Come indicato nella Gaia scienza, l’uomo necessita di una com-
prensibilità concettuale dell’esistenza, di una certa ristrettezza coe-
rente, logica, che fughi ogni sua paura – infatti, «è la logica a riac-
quietare, a dar fiducia» (FW 370). Tuttavia, «dietro tutte le altre
valutazioni si celano in modo determinante (…) valutazioni mora-
li. Posto che esse cadano, con che cosa misureremo poi? e che va-
lore avranno poi conoscenza, ecc. ecc.???» (NF 1885-86, 2[165]).
Il problema posto qui da Nietzsche ha una portata enorme e, co-
erentemente al suo filosofare, non propone risposte definitive: è
dunque comprensibile perché egli affermi che «i fenomeni morali
mi hanno impegnato come enigmi» (NF 1886-87, 7[6]).
3. L’intimo e pericoloso rapporto di credenza e fiducia
Proprio nel cuore del progetto di «trasvalutazione di tutti i va-
lori», Nietzsche ci indica la necessità di negarsi di riposare in una
«fiducia senza fine» [endlosen Vertrauen] (FW 285): la “verità”
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114 Barbara Scapolo
«non vale come supremo criterio di valore, ancor meno come
potenza suprema» (NF 1888, 17[3]), è infatti «il più duro dei
servizi» (AC 50), ogni sua briciola sarà conquistata faticosamen-
te, a furia di lotta, sacrificando quasi tutto ciò cui di solito sono
attaccati l’abitudine non meno che il cuore, il nostro amore, la
nostra fiducia [Vertrauen] nella vita. Si dovrà anzitutto lottare
contro l’«INERTIA», che è attiva nei seguenti ambiti:
1) nella fiducia [Vertrauen], perché la diffidenza [Mißtrauen] costa
tensione, osservazione, riflessione;
2) nella venerazione, dove la distanza della potenza è grande e la
sottomissione necessaria (…)
3) nel senso della verità. Che cos’è vero? Dove si dà una spiegazione
che ci costa il minimo sforzo di pensiero.
4) Nella simpatia. Farsi uguali, cercare di sentire allo stesso modo,
accettare un sentimento già esistente è un sollievo: è qualcosa di passivo
rispetto a qualcosa di attivo (…)
5) Nell’imparzialità e freddezza del giudizio: si aborre dallo sforzo
che costa l’affetto e si preferisce trarsi in disparte, assumere una posi-
zione «obiettiva».
6) Nella probità: si preferisce obbedire a una legge che già esiste
piuttosto che crearsi una legge, comandare a sé e agli altri. La paura del
comandare. Meglio sottomettersi che reagire.
7) Nella tolleranza: la paura di esercitare il proprio diritto, di giudi-
care. (NF 1886-87, 7[6])
Della fiducia, primo tra i luoghi indicati sui quali vigilare rispet-
to a ogni nostra forma di inerzia, abitudine, passività10, è ora neces-
sario specificare la valenza che il concetto viene ad assumere sotto
il maglio del genealogista Nietzsche. La sfumatura di differenza di
significato tra “fede/credenza” e “fiducia” è per noi sottile, quasi
impercettibile, sembra persino non essere importante; nel nostro
linguaggio corrente spesso utilizziamo i due termini come sinoni-
mi. Come osserva Vittorio Pelligra (2007: 37), «che quello defini-
torio sia un problema cruciale è oramai ampiamente riconosciuto.
10 «Contro la debolezza prodotta dalla fiducia [Vertrauen]. Io insegno la profonda
diffidenza [Mißtrauen]» (NF 1883, 17[52]); cfr. anche NF 1883, 20[9].
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Credenza, fiducia o conoscenza? 115
La fiducia è sempre descritta come un “concetto elusivo” e un
“fenomeno multidimensionale altamente complesso”; per questo
essa ha dato origine a un “ambiguo pot-pourri di definizioni”, ba-
sato spesso su una “confusione concettuale”». In effetti, sebbene a
ognuno di noi appaia evidente, se non addirittura scontato, come
la fiducia sia una componente costitutiva della nostra esistenza,
meno ovvio è condurre un’analisi su tale concetto, che ingloba
molteplici significati e presuppone necessariamente un approccio
interdisciplinare. Tale confusione sorge anzitutto perché utilizzia-
mo il concetto “fiducia” credendo di sapere che cosa significhi: anche
per questo termine valgono infatti le medesime considerazioni
critiche che Nietzsche svolge nella Genealogia della morale per il
concetto di “pena”. La stratificazione di significati e gli utilizzi più
svariati della “fiducia” di fatto impedisce di coglierne l’essenza più
propria, la consistenza specifica. Come la “pena”, anche la “fidu-
cia” è un concetto «fluido» su cui si sono sedimentate le più diver-
se valenze; esso è proveniente da un altro tempo (è dotato quindi
di una sua storia, tutta da decifrare), e pertanto è, agli occhi del
genealogista, un sintomo da interpretare. Di più ancora, l’analisi
del concetto di “pena” compiuto da Nietzsche evidenzia il darsi di
un simulacro, di ogni simulacro, parvenza o fenomeno, come se-
gno semanticamente vuoto; segno che non dice nulla, segno di cui
la stratificazione progressiva di significati annienta ogni possibilità
di determinazione di contenuto, rivoluzione per cui «tutti i segni
si scambiano ormai tra di loro senza scambiarsi più con qualcosa
di reale» (Baudrillard 1979: 18).
Tuttavia, è proprio Nietzsche a metterci sulla buona strada per
cercare di tracciare almeno i confini del concetto, ovvero egli ci
rende in grado di misurarne la problematicità, servendosi di due
modalità critiche: la prima, quella genealogica, da lui messa in
opera a titolo esemplificativo in GM II 13 sul concetto di “pena”,
di cui in precedenza abbiamo cercato di analizzare la valenza (lo
si è detto, l’analisi che qui viene effettuata vale infatti per tutti i
concetti che utilizziamo correntemente nel nostro linguaggio e
pertanto essa ci fornisce un metodo preciso con cui abbordare
anche il concetto di “fiducia”). La seconda riguarda la portata
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116 Barbara Scapolo
specifica che il termine fiducia [Vertrauen] viene ad assumere
proprio in Nietzsche, essendo per noi interpreti del suo pensie-
ro impossibile prescindere dalla solerte attenzione al linguaggio
di cui egli dà sempre prova nella sua scrittura, quest’ultima da
intendersi quale ricettacolo pratico della sua stessa filosofia. Va
inoltre rilevato che, d’accordo con Nietzsche, anche Paul Valéry
ha tentato la medesima operazione critica, che aspirava a «uscire
dal linguaggio [sostituendo] all’espressione linguistica una so-
stanza pensabile» (Valéry 2002: 350), allo scopo di verificarne,
mediante la transazione, la conversione reale. Faire sans croire:
prima di credere ad un concetto è necessario «averne un’idea che
sia separabile dai nomi e dalle proposizioni» (Valéry 2002: 362).
Anzitutto va detto che, da un’analisi delle ricorrenze nietzschea-
ne, Vertrauen s’incontra molto meno frequentemente di Glaube:
sono ad esempio solo 10 i luoghi in cui troviamo il primo termine
nella Genealogia della morale11. Sebbene spesso credenza e fiducia
si sovrappongano nel significato (esiste, innegabilmente, un loro
legame e ciò non fa altro che ampliarne la difficoltà di compren-
sione), vi è tuttavia una differenza marcata: la fiducia è quella fun-
zione che produce credenza nel senso di credito. Nel passo della Ge-
nealogia della morale in questione, dove Nietzsche mette alla prova
genealogica il concetto di “pena”, egli in realtà compie un passo
decisivo anche nei confronti del concetto di “fiducia”: il filosofo
tedesco infatti ci indica come, di fronte ad una riflessione sul signi-
ficato di “pena”, vacilli la nostra credenza [Glaube] nel concetto
stesso, scaturente dall’incertezza e dalla mancata unità di significa-
to di questo termine ormai logoro, ma non la “fiducia” [Vertrauen]
in esso – altrimenti già non lo useremmo più, non accordandovi al-
cun credito, dunque nessuna efficacia e operatività. «Il più grande
sforzo» sarà allora quello di comprendere che «sono indicibilmen-
11 Un’imprecisione nella traduzione italiana crea confusione in proposito, per cui
apparentemente il termine fiducia (Vertrauen) conterebbe 11 occorrenze. Tuttavia, in
GM II 14, quando Nietzsche parla dell’odierno vacillare della nostra fiducia nella pena,
in realtà il termine che egli usa è Glaube: a vacillare è la nostra credenza nel valore del-
la pena, perché, come abbiamo visto, non sappiamo bene quale significato attribuirvi.
Come si approfondirà, la fiducia nella pena rimane intatta.
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te più importanti i nomi dati alle cose di quel che esse sono. (…)
fin dal principio la parvenza ha finito quasi sempre per diventare
la sostanza, e come sostanza agisce!» (FW 58). Detto altrimenti,
«ciò che è più di tutto complicato contiene motivo di fiducia [An-
laß zum Vertrauen] più di ciò che è semplice» (NF 1884, 27[70]).
Ne consegue che, al di fuori dal codice che li sacralizza, i nomi e i
concetti non meritino più di essere «onorati» e nemmeno rispet-
tati. L’unica possibile credenza orientante questo operare critico
è quella per cui «i pesi di tutte le cose devono essere nuovamente
determinati» (FW 269). È utile convocare nuovamente Paul Valé-
ry per marcare più specificamente questo punto:
Il ruolo del linguaggio è strano. Come quello della fiducia che per-
mette di acquistare senza averne i mezzi o di vendere, il linguaggio
permette delle combinazioni che possono fare a meno di valori auten-
tici e non sono convertibili in essi. Molte parole sono insolvibili e coloro
che le rifiutano vengono chiamati «scettici». E lo stesso vale per molte
combinazioni di parole.
Si sostituisce il poter vedere (o fare) col poter «esprimere», che esige
soltanto condizioni che dipendono esclusivamente dal funzionamento
dei segni – e non dalle cose significate. (Valéry 2000: 108)
Funzionale al ragionamento che stiamo cercando di presenta-
re, è ricordare che il verbo tedesco trauen, “fidarsi”, “aver fidu-
cia”, “azzardare” e il sostantivo Vertrauen, “fiducia”, derivano
dal verbo tedesco trösten, “consolare”, “rassicurare”, “confor-
tare”, “dare fiducia” (questi significati sono d’altronde molto
vicini al confidare dell’italiano e al confier del francese, entram-
bi derivanti dal latino cumfidere). Duplice è la dimensione se-
mantica coinvolta dalla fiducia: da un lato, il concetto significa
allora “avere fede”, e cioè credere, pur senza poter contar su
alcun sostegno certo e incontrovertibile per la propria credenza
(ovvero è qui implicata una certa dose d’incertezza, che emerge
con chiarezza anche dalla relazione credito-debito). Se mi ad-
fido è proprio perché non so, cioè sono molto lontano da ogni
conoscenza stabile e certa relativamente al futuro, e tuttavia av-
verto la necessità di rischiare: per farlo, dovrò “investire”, ossia
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dovrò mettere in campo una certa dose di fiducia. Dall’altro lato,
la fiducia implica un “legame” fra colui che nutre un’aspettativa
positiva e colui al quale essa è rivolta, un legame che ci si aspetta
venga rispettato attraverso l’atto del solvere. In tali casi essa con-
duce i soggetti della relazione a “esporsi”, ossia ad assumersi dei
rischi, e li vincola a un patto più o meno esplicito.
Soprattutto, la fiducia dà origine ad atti che si trovano spesso
nella posizione di produrre, di creare autonomamente: in effetti,
non stupisce scoprire che il significato originario di “investire”
sia quello di “coprire, adornare” (derivato del sostantivo fem-
minile latino vestis, “vestito”, “abito”): detto altrimenti, l’azione
dell’“investire in” o “su” qualcuno o qualcosa (corollario del cre-
dere), è basata specificamente sull’incertezza propria del futuro,
e nel presente agisce “adornando”, “vestendo”, ossia coprendo e
camuffando la realtà.
Nietzsche ci permette di smascherare le narrazioni della fidu-
cia raccolte in maniera acritica, proprio mostrando come, con
circolarità autoalimentantesi, ogni narrazione, ossia ogni Glaube,
si fonda proprio sulla fiducia [Vertrauen] che le viene accordata.
Credere parrebbe allora configurarsi come la disposizione a con-
ferire alle affermazioni che facciamo e che ci vengono proposte
un surplus di significato e di importanza rispetto al loro signifi-
cato originario, mediante una fiducia pacificamente loro accor-
data. Si crede quando si investe in qualcosa di indeterminato e
confuso (in quanto non ne ho esperienza o conoscenza diretta)
che passa per essere una conoscenza certa, non solo per un breve
periodo, ma a volte per tutta la vita.
Infatti la fiducia, presupponendo un investimento, è ben lungi
dal ridursi semplicemente a una dimensione irenica di affidamento
(simmetria), ma sempre presuppone anche il rischio e l’incertez-
za (asimmetria). Sia detto come inciso, è per questa ragione che,
come felicemente ha individuato Herman Melville nel suo ultimo
romanzo, The confidence man. His Masquerade (1857), uomo di
fiducia e truffatore si rivelano essere figure assai prossime12.
12 Nella lingua inglese, il con-man è il truffatore (la truffa è anch’essa indicata dai
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4. Conoscenza = capovolgere ogni fiducia in dubbio
È pertanto massimamente urgente, ci dice Nietzsche, isolare e
criticare tutte quelle credenze, costruzioni o finzioni che rivela-
no del fiduciario. Mediante la critica genealogica, egli attua una
scepsi o «trasvalutazione di tutti i valori» cercando di capovolgere
ogni fiducia in dubbio (cfr. FW 343).
Fede, fiducia e conoscenza s’intrecciano indissolubilmente: la
«trasvalutazione di tutti i valori» permette infatti di riconoscere
come finora, mediante un unico atto di fiducia, si sia indicato
come vero ciò che invece è un’elaborazione della nostra mente
atta a sopportare la durezza dell’esistenza, necessaria per con-
ferire un “senso” e un “ordine” rassicurante alla vita e per sop-
portare un universo a-finalistico e a-razionale; è in questo senso
che la menzogna si deve intendere come necessaria alla vita, che
altrimenti sarebbe insopportabile per l’uomo. Ma, come indicato
nel § 130 di Aurora, non esistono né volontà né fini, ce li siamo
immaginati, li abbiamo creati e, soprattutto, vi abbiamo dato cre-
dito, li abbiamo sostenuti, ossia abbiamo con fiducia investito
troppo su di essi, mascherando e camuffando la realtà13. Credere
si confonde con il conoscere quando si smette di interrogarsi:
La fiducia [Vertrauen] nella ragione e nelle sue categorie, nella dia-
lettica, cioè il giudizio di valore della logica, dimostrano solo la loro
utilità, provata dall’esperienza, per la vita, non la loro «verità».
Che dev’esserci una quantità di fede [Glaube], che è permesso giudi-
care, che su tutti i valori essenziali manca il dubbio: -
è questo il presupposto di ogni essere vivente e della sua vita. Cioè
termini composti confidence-trick o confidence-game). Nel termine inglese va rilevata la
presenza del problematico confidence, che certamente indica la fiducia (sebbene più co-
munemente tale significato sia veicolato dal termine trust), ma in particolare esso indica la
confidenza come partecipazione ai segreti altrui o come sicurezza, fiducia in se stessi (self-
confidence) che può anche diventare spavalderia, sicumera eccessiva (over-confidence).
Non è pertanto un caso che in italiano il con-man, il procacciatore di fiducia di Melville,
sia esplicitamente diventato il “truffatore”, l’“impostore”: come es. di traduzione, cfr.
Melville 1991 e Melville 1998 e, per un approfondimento, Scapolo 2013.
13 «La realtà del credito, di tutto il commercio mondiale, dei mezzi di comunicazione
– si esprime in ciò in un’enorme, sommessa fiducia nell’uomo...» (NF 1888, 15[63]).
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che qualcosa sia ritenuto vero, è necessario; non che qualcosa sia vero.
(NF 1887, 9[38]).
Credere è anzitutto un atto veicolato dal linguaggio. A
Nietzsche fa eco Wittgenstein in Della certezza: la stessa possibi-
lità di convincersi «fa parte del giuoco linguistico» (Wittgenstein
2000: 3). Per avere un credo abbiamo sempre bisogno di un altro
a cui mostrare che crediamo, a cui parlare di ciò che crediamo:
questo “altro” possono essere gli uomini o perfino Dio. Se la
credenza è condivisa, essa acquisisce ancora maggiore potenza.
Tuttavia, è sempre Wittgenstein a indicarci come «dal fatto che a
me – o a tutti – sembri così, non segue che sia così» (Wittgenstein
2000: 2). «Anche quando la persona più degna di fiducia mi assi-
cura di sapere che le cose stanno così e così, questo, da solo, non
può convincermi che davvero lo sia. Mi può soltanto convincere
che crede di saperlo» (Wittgenstein 2000: 137). La convinzione
e la credenza si potenziano se condivise, ossia quando vengono
alimentate dalla fiducia, dal credito accordato da molte perso-
ne. Come indicato nella Gaia scienza, «il pericolo più grande»
s’incontra nell’«universalità e obbligatorietà universalmente im-
posta di una credenza, nella non arbitrarietà del giudicare. E il
più grande lavoro degli uomini fino ad oggi fu quello di mettersi
d’accordo gli uni con gli altri su moltissime cose e d’imporsi una
legge di armonia, indifferenti al fatto che queste cose fossero vere
o false» (FW 76). Possiamo divenire coscienti di questo fatto, os-
sia del frequente scambio tra conoscenza e credenza, solo quan-
do prestiamo solerte attenzione al linguaggio, strumento princi-
pale di ogni metafisica, dove abbondano le isostenie14.
14 Ricorderemo che per gli scettici antichi l’isosthenia era l’ugual forza di tesi op-
poste su un medesimo tema o problema (da isos = uguale, e sthénos = forza); attraverso
l’isostenia delle ragioni pro o contro una certa ipotesi, lo scettico non poteva che con-
cludere per una sospensione generalizzata del proprio assenso e giudizio, detta epoché,
e al contempo non poteva che astenersi dal coltivare ogni forma di opinione (dottrina
dell'adoxìa), se non arrivando addirittura a rinunciare a parlare (dottrina dell'aphasìa). Di
fronte alle isostenie teoriche lo scettico si asteneva, mentre nella vita pratica, avendo di
mira, come gli stoici, l’imperturbabilità del proprio animo, egli si limitava ad adeguarsi ai
costumi: ciò accadeva perché si può ragionevolmente persistere in un’astensione radicale
del giudicare solo nel campo del sapere teorico, ma non nella pratica quotidiana, dove,
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Credenza, fiducia o conoscenza? 121
Per Nietzsche la radice di queste imposture concordate e ali-
mentate dalla fiducia15 è infatti da ricercarsi sempre nel linguag-
gio: la nostra lingua non è uno strumento neutro, essendo una
forma di razionalità implicita che contribuisce a creare i fatti; il
linguaggio ha una modalità valutativa non esplicita, una «metafi-
sica segreta». Il filosofo tedesco ritorna frequentemente su que-
sto punto: lo strumento principale di produzione della Glaube è
proprio il linguaggio; come già Sesto Empirico, Nietzsche nega
definitivamente la possibilità di spiegare, di dispiegare il reale
linguisticamente, pur essendo il linguaggio l’unico strumento di
cui disponiamo per interpretare e condividere con gli altri la no-
stra esperienza nel e del mondo. Per questa ragione egli ci dice
che «i teorici della conoscenza (…) sono rimasti penzoloni nei
lacci della grammatica (la metafisica popolare)» (FW 354).16
Come indicato nel in GM III 24, l’obiettivo dei veri uomini
della conoscenza sarà quello di esercitarsi a diventare increduli
[Ungläubigen], diffidenti [Mißtrauisch] verso ogni sorta di cre-
denti [Gläubige]. Nietzsche ci dice che credere ancora nella ve-
rità, in qualsivoglia assoluto, è possibile solo perché non si osa
vivere su delle ipotesi, in quanto è molto più facile vivere in un
mondo dogmatico che in un sistema incompiuto, che tuttavia di-
spone di prospettive illimitate. Ogni assolutismo, ogni certezza,
ogni dogma devono pertanto essere messi in questione.
Lo si è ribadito più volte, il pregiudizio di base del filosofo,
secondo lo scettico Nietzsche, consiste nel credere che l’esser
vero sia in se stesso omogeneo, ordinato e garantito sistemati-
camente, di modo che vi si possa accordare fiducia in maniera
senza certezza teorica, sempre si decide e si deve decidere. Per lo scettico, le decisioni
della vita pratica derivano proprio dall’incertezza e, non avendo alcun fondamento nella
conoscenza certa del vero e del giusto, ignorano del tutto la skepsi propria di ogni sapere.
15 In questa sede non è possibile approfondire adeguatamente le problematiche
specificamente socio-politiche scaturenti da questa analisi, sebbene esse possano senza
dubbio essere intraviste accostando tali considerazioni a quelle svolte in GM II, dove (lo
si è analizzato in precedenza) Nietzsche tratta proprio degli strumenti messi in atto dalla
società per allevare, disciplinare, rendere affidabili i suoi membri. Cfr. inoltre il contribu-
to di J.-M. Rey in questo volume.
16 Tanto Valéry quanto Wittgenstein non sono lontani da questa prospettiva.
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irriflessa. L’intera opera di Nietzsche ci mostra come sia stato
proprio attraverso la sua stessa naturale disposizione a trovare
delle ragioni, delle spiegazioni a cui credere e conferire fiducia,
che l’uomo ha costruito gli edifici fittizi della conoscenza, della
morale e della religione.
Che qualcosa sia creduto ---
(…) L’affermazione che la verità ci sia e che l’ignoranza e l’errore
abbiano avuto fine, è uno dei più grandi sviamenti che si diano.
Posto che essa venga creduta, la volontà di esame, di ricerca, di pru-
denza, di esperimento ne risulta paralizzata: può perfino apparire sa-
crilega, ossia come un dubitare della verità…
La «verità» è quindi più funesta dell’errore e dell’ignoranza, in
quanto imbriglia le forze con cui si lavora a illuminare e conoscere. (…)
– è più comodo obbedire che esaminare… è più lusinghiero pensare
«ho la verità» che vedere il buio dappertutto intorno a sé…
– soprattutto: tranquillizza, dà fiducia, allevia la vita – «migliora» il
carattere, in quanto riduce la sfiducia… (NF 1888, 15[46])
La vera scienza, la vera saggezza, la «gaia scienza» di Nietzsche
produce invece nell’individuo «la grande salute», perché, come
la natura, come l’universo, non è buona né cattiva; come mostra-
to dalla Genealogia della morale, queste categorie con cui inter-
pretiamo noi stessi, gli altri e il mondo appartengono all’ambito
della Glaube in quanto finzioni, convenzioni-convinzioni da noi
stessi inventate. Pertanto, la gaia scienza non ha motivi né fon-
damenti per discriminare, ossia per optare in maniera assoluta
per una credenza piuttosto che un’altra; essa può certamente
“investire” e conferire serena fiducia a una Glaube, senza tut-
tavia dimenticarne lo statuto illusorio e la sua operatività fun-
zionale creditizia necessaria al governo di un’esistenza caotica e
irrazionale. Non si tratta infatti di pervenire alla sospensione di
ogni giudizio causato dal relativismo delle verità, come accadeva
per alcune scuole scettiche antiche. Nietzsche ricerca piuttosto
una «raffinatezza della diffidenza» (JGB 260), egli si serve di una
«scepsi sottilmente accorta» (AC 10).
La scienza che si vuole «gaia», attraverso la scepsi, permet-
te dunque di distinguere senza discriminare dogmaticamente e
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Credenza, fiducia o conoscenza? 123
incontrovertibilmente, in maniera innocente e spontanea; per-
mette di vivere non sopra o al di fuori del mondo, ma nel mondo
stesso, indissolubilmente intrecciati ad esso; consente di non li-
mitarsi a immiserirsi in una gestione interessata del mondo, volta
più a produrre fiducia e credito (ovvero a far credere e a rendere
massimamente operativi tutti i derivati connessi a questo pro-
cesso), che a indagare le possibilità e le modalità entro le quali
possa darsi un pensare critico-filosofico che, prima di ogni altro
contenuto specifico, si proponga come una resistenza rispetto a
ciò che al pensiero stesso viene imposto. La nuova fiducia ani-
mata da questo ethos dev’essere «una distinzione, un onore»,
ossia accordata non in maniera automatica, irriflessa, a causa dei
giochi linguistici (cfr. NF 1888, 15[98]). Ogni surplus fiduciario
verrà bilanciato dal suo opposto: «– Troppo disposto alla fidu-
cia [Vertrauen]? Ma un solitario ha sempre ammucchiato una
grande provvista di fiducia, allo stesso modo naturalmente che
di sfiducia [Mißtrauen]» (NF 1885-86, 1[204]).
La «grande salute» che sarà prodotta da questa nuova scienza
coincide con «quell’eccesso che dà allo spirito libero la perico-
losa prerogativa di poter vivere d’ora innanzi per esperimento e
di potersi offrire all’avventura» (MA 4). Per questa ragione, nel
§ 477 di Aurora, Nietzsche si considera «redento dallo scettici-
smo» (M 477), e finalmente capace non solo di negare, non solo
di dubitare, ma di dire sì alla vita e al mondo. L’«ultima scepsi»
coincide con l’individuazione degli inconfutabili errori dell’uo-
mo (cfr. FW 265); detto altrimenti, si tratta, in tutta spontaneità
ed innocenza, di cercare di diventare ciò che si è, in tutta la pro-
pria contraddittorietà e incoerenza, al di là di ogni imperativo
categorico, di ogni dover essere, di ogni credenza e convinzione
assunta in maniera dogmatica e incontrovertibile.
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Libertà e autonomia
dell’individuo sovrano in Nietzsche:
una lettura non-deflazionista
João Constâncio
1. Lettura deflazionista e non-deflazionista
Nietzsche formula un “ideale” di libertà? È possibile, in qual-
che modo, ascrivere questo autore alla tradizione kantiana che
concepisce la libertà come autonomia? Possiamo almeno soste-
nere che egli faccia riferimento, se non a un ideale, almeno a un
concetto chiaro e coerente di libertà? Queste sono alcune delle
questioni di cui si occupa la più recente letteratura secondaria
su Nietzsche.
Brian Leiter (2011) ha sostenuto che, quando Nietzsche, nella
sezione dedicata all’«individuo sovrano» in GM (II, 2) e nel pa-
ragrafo Il mio concetto di libertà contenuto in GD (Scorribande
38), elogia «libertà», «autonomia» e «responsabilità», egli non
si stia riferendo a ciò che noi intendiamo con quei termini. Se-
condo Leiter, la “libertà” dell’individuo sovrano non sarebbe
altro che una «sensazione di libertà», e quindi nulla più che
un’«attitudine» o «predisposizione» (Leiter, 2011: 115). Un in-
dividuo di quel tipo potrebbe avere dei motivi per sentirsi libe-
ro, ma in realtà non lo sarebbe. Dal momento che molti passaggi
delle opere di Nietzsche sono chiari sul fatto che egli non creda
nell’esistenza di un «libero volere», nell’efficacia di deliberazio-
ne e scelta, e neppure in qualche tipo di orientamento consa-
pevole delle proprie azioni, non è possibile che egli ammetta
libertà, autonomia e responsabilità o, in altri termini, che faccia
riferimento a una nozione di libertà intesa come autonomia di
un agente che sia responsabile delle proprie azioni. Pertanto,
secondo Leiter, in quei luoghi Nietzsche userebbe i termini «li-
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126 João Constâncio
bertà», «autonomia» e «responsabilità» in senso «revisionista» e
all’interno di una strategia «persuasiva» (ibidem: 102). Il suo sco-
po sarebbe infatti semplicemente quello di utilizzare una conno-
tazione emozionale positiva di quelle parole per poterci convin-
cere di qualcosa che però non rientra nel significato – presente o
passato – di quei termini. L’uso «positivo» operato da Nietzsche
è solo un modo per spingerci ad ammirare la (involontaria) «si-
gnoria sovra di sé» (GM II 2) di quelle persone il cui destino è,
innanzitutto, di vivere vite meno incoerenti di quelle degli altri e,
in secondo luogo, di amare il loro proprio destino.
Per la precisione, Leiter ritiene che, oltre a questa interpreta-
zione puramente retorica della sezione sull’individuo sovrano, si
possa dare di essa un’altra «lettura deflazionista» (Leiter 2011:
103), la quale consisterebbe nel vedere la sezione come una de-
scrizione ironica e caricaturale del borghese moderno, che ritiene
di essere libero e autonomo (di essere, cioè, un autentico «indivi-
duo», in grado di creare i suoi propri valori e agire «coscienziosa-
mente», un «signore» di se stesso e del proprio destino, a cui sia
dovuto disprezzare gli immorali «mentitori» e tributare rispetto
ai suoi «pari»), laddove invece il suo «privilegio» non consiste
che nell’abilità da «piccolo commerciante» di «fare promesse e
saldare i propri debiti» (ibidem). In ogni caso, sostiene Leiter, la
sezione fa parte della critica che Nietzsche muove alla «speranza
illuminista che gli uomini, grazie al libero volere e alle proprie
capacità razionali, possano divenire uguali» (ibidem: 118)1.
Entrambe queste letture deflazioniste offrono spunti interes-
santi di interpretazione del testo di Nietzsche, ma trascurano
un fatto evidente: la descrizione dell’individuo sovrano è molto
simile alla quella dell’aristocrazia che si trova in GM I (in parti-
1 Hatab (2008) offre un’interpretazione deflazionista dell’individuo sovrano molto
simile a quella di Leiter, in quanto considera il primo «espressione dell’individuo libero
e razionale tipico della moralità e della filosofia politica moderne»; l’individuo sovrano
sarebbe quindi una manifestazione dell’ideale liberale e moderno che Nietzsche respinge.
Per quanto io condivida l’idea che Nietzsche respinga questo ideale, cercherò di mostrare
che il suo «individuo sovrano» non ne rappresenta un’incorporazione; al contrario, esso
incorpora un ideale alternativo, puramente nietzscheano.
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Libertà e autonomia dell’individuo sovrano in Nietzsche 127
colare § 10), e ancora di più alle frequenti descrizioni e apprezza-
menti da parte di Nietzsche della natura «superiore» e del «tipo
umano dotato del maggiore valore» che «ha già fatto più volte
la sua comparsa» nel corso della storia umana (cfr. p. es. A 3-6).
Ciononostante, le considerazioni di Leiter fanno emergere una
questione rilevante. Posto che Nietzsche si contrapponga stre-
nuamente all’ideale liberale e moderno di «libertà come auto-
nomia», perché dovrebbe utilizzare in un senso positivo proprio
quelle parole che normalmente critica in quanto espressione di
un ideale pericoloso, nichilistico e decadente? Se Nietzsche si
pone come obiettivo quello di definire un’alternativa all’ideale
liberale e moderno di «libertà come autonomia», perché dovreb-
be descrivere il suo nuovo ideale proprio come un ideale di «li-
bertà come autonomia»?
La mia proposta interpretativa consiste nel sostenere che
quando, in GM II 2, Nietzsche sostiene di concepire l’indivi-
duo sovrano come «libero» e «autonomo», egli stia sì facendo
riferimento alla connotazione emozionale positiva che i termini
“libertà” e “autonomia” hanno in epoca moderna, ma stia an-
che sostenendo che è necessario ripensare il significato di que-
sti termini, così come la stessa “sovranità” del tipo umano su-
periore. La sua strategia può quindi essere definita revisionista
(come sostiene Leiter), se e solo se essa comporta un mutamento
concettuale dei termini “libertà” e “autonomia” che investe solo
incidentalmente il significato comune di queste parole; detto al-
trimenti, se e solo se questo mutamento non deriva da una critica
dell’utilizzo e della storia di questi termini – quale può essere ad
esempio una genealogia dei concetti di libertà e autonomia. In
quanto segue cercherò di mostrare brevemente come questo tipo
di critica genealogica comporti il mutamento concettuale di cui
sopra. Mi concentrerò inizialmente su alcuni passaggi cruciali del
paragrafo Il mio concetto di libertà (GD, Scorribande 38), per poi
svolgere una rapida analisi del significato dei termini “libertà” e
“autonomia” in GM II 2.
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128 João Constâncio
2. Il mio concetto di libertà
La struttura del paragrafo Il mio concetto di libertà consiste
in una serie di contrapposizioni che servono a Nietzsche per di-
stinguere la propria nozione di libertà da quella liberale. Ecco il
testo integrale:
Il mio concetto di libertà. – Il valore di una cosa non sta talvolta in ciò
che si raggiunge per mezzo di essa, ma in ciò che si paga per essa, – in
ciò che essa ci costa. Ne do un esempio. Le istituzioni liberali cessano
immediatamente di essere liberali non appena le si ottiene: non c’è in
seguito nessun peggiore e più radicale danneggiatore della libertà che
le istituzioni liberali. Si sa bene che cosa esse mettono in atto: esse mi-
nano la volontà di potenza, sono il livellamento di monte e valle elevato
a morale, rendono piccoli, codardi e voluttuosi, – con esse trionfa sem-
pre l’animale gregario. Liberalismo: detto chiaramente trasformazione
in animale gregario… Finché si combatte ancora per esse, queste istitu-
zioni producono tutt’altri effetti; allora esse promuovono realmente la
libertà in maniera potente. Se si osserva più precisamente, è la guerra
che produce questi effetti, la guerra per le istituzioni liberali, che, in
quanto guerra, fa persistere gli istinti illiberali. E la guerra educa alla li-
bertà. E cos’è infatti la libertà! Avere la volontà della responsabilità per
se stessi. Mantenere salda la distanza che ci separa. Diventare indiffe-
renti agli affanni, alla durezza, alla privazione, perfino alla vita. Essere
pronti a sacrificare esseri umani alla propria causa, senza escludere se
stessi. Libertà significa che gli istinti virili, che gioiscono della guer-
ra e della vittoria, dominano sugli altri istinti, per esempio su quello
della “felicità”. L’uomo divenuto libero, e tanto più lo spirito divenuto
libero, calpesta la spregevole sorta di benessere, che sognano bottegai,
cristiani, mucche, femmine, Inglesi e altri democratici. L’uomo libero
è guerriero. – Da che cosa si misura la libertà, negli individui come nei
popoli? Dalla resistenza che deve essere superata, dalla fatica che costa
rimanere in alto. Si dovrebbe cercare il tipo supremo di uomo libero
là dove viene superata continuamente la resistenza suprema: a cinque
passi dalla tirannia, vicinissimo alla soglia del pericolo della schiavitù.
Questo è vero dal punto di vista psicologico, se si intendono qui per
“tiranni” gli istinti spietati e terribili che richiedono il massimo di au-
torità e disciplina contro se stessi – il tipo più bello, Giulio Cesare –;
questo è vero anche dal punto di vista politico, basta fare qualche passo
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Libertà e autonomia dell’individuo sovrano in Nietzsche 129
attraverso la storia. I popoli che ebbero qualche valore, che acquisirono
valore, non lo fecero mai sotto istituzioni liberali: fu il grande pericolo
a far di loro qualcosa che merita profondo rispetto, il pericolo, che solo
ci insegna a conoscere i nostri ausili, le nostre virtù, le nostre difese e
le nostre armi, il nostro spirito, – che ci costringe a essere forti… Primo
principio: si deve avere bisogno di diventare forti, altrimenti non lo si
diventa mai. – Quelle grandi serre per una specie forte, per la più forte
specie uomo che sia finora esistita, le comunità aristocratiche alla ma-
niera di Roma e Venezia, intesero la libertà precisamente nel senso in
cui io comprendo la parola libertà: come qualcosa che si ha e non si ha,
che si vuole, che si conquista… (GD, Scorribande 38)
Le prime due contrapposizioni che vengono poste in questa
sezione sono chiare. Prima di tutto, Nietzsche confronta «la
guerra per le istituzioni liberali» con la fase finale di quel conflit-
to, l’istituzionalizzazione liberale della libertà. In secondo luogo,
le vite di chi soccombe alla «trasformazione in animale gregario»
– il processo di socializzazione inteso come una trasformazione
dell’uomo in «funzione del gregge» (FW 116) – vengono con-
frontate con le vite di chi, in qualche modo, è in grado di mante-
nere «la distanza che ci separa». «L’uomo libero è guerriero», af-
ferma Nietzsche, riferendosi a chiunque sia abbastanza forte da
resistere all’istituzionalizzazione della libertà e alla trasformazio-
ne in animale gregario – chiunque, cioè, sia in grado di scontrarsi
con questi processi (cosa che chiaramente è diversa dall’esservi
soggiogato o dal vivere al di fuori di essi).
A mio avviso, l’obiettivo di Nietzsche nel porre queste due
contrapposizioni è di affermare che “libertà” dovrebbe signifi-
care “indipendenza” e “individualità”. Nella Gaia scienza, ad
esempio, Nietzsche definisce la libertà come «indipendenza
dell’anima» (FW 98) e affermazione del «singolo» (der Einzelne)
«contro leggi e costumi e vicini» (FW 143), e quindi contro il
«gregge» (FW 116 e 149). In Al di là del bene e del male, inoltre,
egli afferma che «l’elevata, autonoma spiritualità, la volontà di
far parte per se stessi, la grande ragione» vengono comunemente
intesi come una minaccia per il gregge e per l’istinto gregario
(JGB 201). Allo stesso modo, in un altro celebre paragrafo di
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130 João Constâncio
GD, Nietzsche elogia la libertà di Goethe – o meglio la forza
che ha permesso al suo spirito di «diventare libero» – in quanto
potere da lui dimostrato di essere creatore di se stesso, di dire
«sì a tutto quanto gli era affine» e di non conoscere «più nulla di
proibito, se non la debolezza» (GD, Scorribande 49). Pertanto, vi
è libertà laddove vi è uno spirito «guerriero» che faccia in modo
che l’indipendenza e l’individualità di un soggetto non vengano,
per così dire, assorbite dal gregge – da lui assimilate, dissolte in
una «funzione del gregge» (FW 116).
Si noti che il tipo di indipendenza e individualità che Nietzsche
ha in mente qui è solo relativa. Ciò di cui egli parla è un grado ele-
vato di indipendenza rispetto al gregge e di individualità rispetto
all’«animale gregario». Nietzsche, quindi, non sta sostenendo un
individualismo volto a esaltare un isolamento assoluto dal greg-
ge, quanto piuttosto una guerra contro il gregge. Nel paragrafo
su Goethe, Nietzsche scrive persino che l’elevato grado di indivi-
dualità conseguito da Goethe era in sé «riprovevole» e che, come
ogni altra cosa, esso poteva «redimersi e affermarsi nell’intero»
(GD, Scorribande 49)2.
La terza contrapposizione presente nel paragrafo Il mio concet-
to di libertà mette di fronte libertà e istinto «della “felicità”». Con
essa, Nietzsche intende prima di tutto chiarire che, per evitare
di essere risucchiati dal modo di pensare massificato e diventare
così una «funzione del gregge», bisogna essere abbastanza for-
ti da resistere alle comodità derivanti dall’appartenere al gregge
– abbastanza forti da non dover mai lottare perché si desidera
un incremento di quell’agio. Diventare liberi significa «diventare
indifferenti agli affanni, alla durezza, alla privazione, perfino alla
2 In parole povere, Nietzsche non esalta l’individualità in sé e per sé, ma evidenzia
come una tendenza individualistica possa dare risalto alla vita umana mediante la deter-
minazione di una nuova «gerarchia» (Rangordnung) al suo interno. Cfr. p. es. NF 1886-
87, 7[6]: «La mia filosofia è diretta a fondare una gerarchia [Rangordnung]: non una
morale individualistica». In questa nota postuma Nietzsche riflette sul fatto che tanto una
morale collettivistica quanto una individualistica siano egualitarie, e quindi prevengano
entrambe il tipo di squilibrio delle forze (le Rangordnungen) che è proprio della vita in
generale.
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Libertà e autonomia dell’individuo sovrano in Nietzsche 131
vita. Essere pronti a sacrificare esseri umani alla propria causa,
senza escludere se stessi», e quindi calpestare «la spregevole sorta
di benessere, che sognano bottegai, cristiani, mucche, femmine,
Inglesi e altri democratici» (GD, Scorribande 38).
Ma in questa contrapposizione tra comodità e libertà c’è
dell’altro. In questo contesto, infatti, Nietzsche definisce la liber-
tà come l’«avere la volontà della responsabilità per se stessi». La
libertà non comporta quindi solamente indipendenza e indivi-
dualità, ma anche responsabilità. Si è liberi, infatti, solo quando
si può dire di essere stati abbastanza forti da intraprendere un’a-
zione senza scaricarne la responsabilità su una qualche norma
imposta dalla morale del gregge, o comunque senza appoggiarsi
a ciò che il gregge pretende che sia fatto.
Se isolate dal loro contesto, queste considerazioni potrebbero
suonare come una pura e semplice difesa della fiducia liberale
in principi razionali di scelta e deliberazione. Naturalmente, le
cose non stanno in questi termini. Definendo il contesto entro
cui contrappone la propria nozione di libertà con il concetto li-
berale, Nietzsche manifesta chiaramente di non considerare né
la libertà né la responsabilità in termini di principi razionali di
scelta e deliberazione. La “volontà” di cui parla Nietzsche è una
forza essenzialmente pre-conscia, pre-razionale, che appartiene
all’ambito degli affetti e degli istinti – una forza di cui ogni azione
deliberativa non è che uno «strumento», mentre le «intenzioni»
e «volontà» coscienti ne sono meri «segni e sintomi» (cfr. p.es.
JGB 32)3. Chiaramente, un grado elevato di libertà richiede una
«grande ragione» (JGB 201), e quindi l’esperienza di questo alto
3 Sulla concezione nietzscheana del volere come forza non-cosciente (più propria-
mente, come pura e semplice attività organizzata in maniera spontanea di una molte-
plicità di «volontà inferiori») cfr. Constâncio 2011a e 2014. È molto probabile che la
concezione che Nietzsche ha del volere (Wollen) e il suo rifiuto della nozione di “volon-
tà” intesa come “entità” o una “facoltà” in qualche modo indipendente, debba molto al
testo di Théodule Ribot, Les maladies de la volonté (1882). Come Ribot, Nietzsche ritiene
che si possa parlare propriamente di “volontà” solo in riferimento a organismi viventi do-
tati di coscienza (cfr. FW 127), ma, d’altra parte, egli considera la volontà cosciente come
la mera superficie di un’immensa e complessa «concatenazione gerarchica» di «volontà
inferiori» (cfr. JGB 19).
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132 João Constâncio
grado di libertà comporterà un qualche tipo di “deliberazione”
o “scelta”, per quanto la libertà non si riduca a nessuna di esse.
Questo discorso assume chiarezza al termine della sezione,
quando Nietzsche introduce un’ultima contrapposizione tra il
concetto di libertà delle moderne società liberali e quello proprio
di «Roma e Venezia»:
Quelle grandi serre per una specie forte, per la più forte specie uomo
che sia finora esistita, le comunità aristocratiche alla maniera di Roma e
Venezia, intesero la libertà precisamente nel senso in cui io comprendo
la parola libertà: come qualcosa che si ha e non si ha, che si vuole, che
si conquista… (GD, Scorribande 38)
Nel nominare queste due città, Nietzsche sembra riferirsi alla
tradizione del repubblicanesimo classico, e in modo particolare
al repubblicanesimo di Machiavelli – e questo è già di per sé un
segnale del fatto che la nozione di libertà cui fa riferimento non è
“revisionista” e neppure meramente retorica. Il repubblicanesi-
mo di Machiavelli presenta varie differenze significative rispetto
alla democrazia liberale. Tra le altre cose, esso prevede la sepa-
razione tra un’élite aristocratica e la plebe, e quindi considera
che la libertà derivi non tanto dall’universalizzazione dell’ugua-
glianza, quanto dall’esistenza di ambiti di uguaglianza gerarchici
e asimmetrici. Solo questo tipo di «gerarchia» (Rangordnung)
assicura la stabilità dell’auto-governo e la sovranità di uno Stato
(o Città-stato), ovvero la libertà tanto per lo Stato quanto per un
numero esiguo di “grandi uomini” che si sono conquistati virtù
e gloria al suo interno. Pertanto, quando Nietzsche sostiene di
considerare la libertà come «qualcosa che si ha e non si ha, che si
vuole, che si conquista…», egli pensa prima di tutto che la libertà
sia un traguardo da conseguire. Gli uomini non sono nati liberi e
la libertà non è una loro abilità “naturale”. Solo i pregiudizi me-
tafisici della tradizione liberale ci portano a credere che la libertà
sia l’abilità – innata nella natura umana – di prendere decisioni
e fare scelte in maniera razionale. In realtà, la libertà è un tra-
guardo talmente difficile e raro da conseguire, che dovremmo
considerarlo una precondizione essenziale della grandezza uma-
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Libertà e autonomia dell’individuo sovrano in Nietzsche 133
na – qualcosa di equivalente alla «gagliardia» (Tüchtigkeit), da
Nietzsche definita come «virtù nello stile del Rinascimento, virtù
libera dall’ipocrisia morale» (A 2)4.
In ogni caso, sarebbe un errore imperdonabile pensare che
Nietzsche possa essere etichettato come avvocato del repubbli-
canesimo classico. Come si legge in GD, Scorribande 43, egli è
infatti chiaramente convinto che non sia possibile operare un
qualsiasi tipo di regressione [Rückbildung], e ritiene quindi in-
sensato ogni tentativo di ristabilire ideali pre-moderni: «Detto
all’orecchio dei conservatori. – Quel che prima non si sapeva, e
oggi si sa, si potrebbe sapere –, è che una regressione, un ritor-
no, in qualunque senso e grado, non è possibile»5. Se le cose
stanno così, il riferimento di Nietzsche a «Roma e Venezia» non
comporta la difesa di un ideale pre-moderno che vada ripristina-
to, ma impone di porre in questione l’ideale predominante della
modernità invitando a guardarlo da una prospettiva pre-moder-
na, con occhi e affetti diversi – allo scopo di poter superare (non
“riconciliare”, ma proprio oltrepassare) tanto quell’ideale predo-
4 Si noti che l’espressione «Roma e Venezia» è un riferimento non tanto al Rinasci-
mento in generale, ma alla concezione di Machiavelli in particolare, anche perché che
quest’ultimo riteneva che Venezia, diversamente da Firenze, fosse stata capace di preser-
vare proprio i principi dell’organizzazione politica di Roma (cfr. ad esempio Machiavelli
(1532/2002) Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio I, XLIX, LV). Tuttavia, non pos-
siamo essere certi che Nietzsche avesse in mente questa contrapposizione tra Venezia e
Firenze, ed è quindi possibile che egli intenda riferirsi semplicemente all’antica Roma e
in generale al periodo rinascimentale. Jacob Burckhardt, del cui profondo influsso sulla
concezione che Nietzsche ebbe del Rinascimento si è invece più sicuri, elogiò la «stabilità
di Venezia», ma dimostrò un entusiasmo ancora maggiore per la meno stabile Firenze
(Cfr. Burckhardt 1860/1952, pp. 58-82). Il suo entusiasmo era dovuto all’idea che, nel
corso del Rinascimento, a Firenze più che negli altri stati «l’uomo si trasforma nell’in-
dividuo spirituale, e come tale si afferma» (ibid., p. 98). Secondo Burckhardt, il valore
inestimabile del Rinascimento consisteva nel fatto che esso permise lo sviluppo – forse
addirittura la nascita – dell’individualità (dell’«uomo singolare» o «uomo unico»), e que-
sto fu dovuto fatto che in quel periodo si risvegliò una grande «libertà dello spirito» (ibid.
p. 74 e 98 ss.).
5 Cfr. anche NF 1888, 15[97]: «Ciò che prima non si sapeva: una formazione re-
gressiva non è possibile. Ma tutti i moralisti e i preti hanno cercato di riportare gli uomini
a uno schema passato e di sviluppare in loro virtù che furono una volta virtù. Persino i
politici non sono esenti da questo tentativo, specialmente i conservatori».
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134 João Constâncio
minante, quanto quello che Nietzsche utilizza come strumento di
critica. In parole povere, Nietzsche invita i propri lettori a svilup-
pare autonomamente una versione moderna di quella nozione di
libertà come individualità, indipendenza, responsabilità e virtù
che fu propria dell’epoca antica e rinascimentale. Ma come potrà
mai essere una simile versione moderna?
Uno degli aspetti maggiormente significativi del paragrafo Il
mio concetto di libertà è che esso sembra non considerare i pro-
blemi metafisici od ontologici che comunemente sono connessi
al problema della libertà in epoca moderna. Quasi sicuramente
uno dei motivi per cui Nietzsche contrappone la concezione mo-
derna di libertà a quella antica e rinascimentale è che quest’ul-
tima è non-metafisica. Machiavelli, per esempio, considera la
libertà sul piano meramente politico e non prende in conside-
razione la questione metafisica relativa alla libertà o meno del
volere. Ma, ancora una volta, Nietzsche non può accontentarsi
di un concetto ingenuo e pre-moderno, che semplicemente non
tocchi le questioni che il pensiero filosofico ha sollevato nei seco-
li seguenti. Il paragrafo Il mio concetto di libertà definisce forse
una nozione critica e genealogica di libertà? In qualche modo sì.
Nietzsche scrive che, «negli individui come nei popoli», la libertà
si misura «dalla resistenza che deve essere superata, dalla fatica
che costa rimanere in alto. Si dovrebbe cercare il tipo supremo di
uomo libero là dove viene superata continuamente la resistenza
suprema» (GD, Scorribande 38). Nietzsche quindi concepisce la
libertà come un superamento di resistenze, in modo particolare
come il superamento di quella che rappresenta la «resistenza su-
prema» che impedisce di conseguire indipendenza, individualità,
responsabilità e gagliardia (Tüchtigkeit) – in altre parole, quella
che determina il «mutamento dell’uomo in animale da gregge».
In altre parole, Nietzsche concepisce la libertà nei termini di «vo-
lontà di potenza». Quest’ultima si manifesta infatti laddove vi
è un campo di relazioni tra molteplici «volontà di potenza», e
questo campo non è altro che il luogo di scontro tra resistenze.
Come si legge in un quaderno di Nietzsche, infatti, «la volontà di
potenza può manifestarsi solo contro delle resistenze» (NF 1887,
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Libertà e autonomia dell’individuo sovrano in Nietzsche 135
9[151]); questo significa che si dà volontà di potenza nel momen-
to in cui vi è una molteplicità di «volontà» che oppongono reci-
procamente resistenza, una «lotta» per il dominio che vive della
tensione generata dalla resistenza di «volontà contro volontà»
(«Wille gegen Willen», NF 1886-87, 5[9])6.
La volontà di potenza è l’«ipotesi» anti-metafisica e anti-onto-
logica per eccellenza – un’alternativa a qualsiasi concezione me-
tafisica e ontologica della vita e della natura che rappresenta un
caso unico nella storia del pensiero filosofico e scientifico7. In Al
di là del bene e del male è proprio nel contesto di questa esposi-
zione della volontà di potenza che Nietzsche respinge, sul piano
genealogico, tanto la dottrina del «libero volere» quanto quella
del «volere non libero». Entrambe sono da lui considerate come
segni e sintomi di diverse pulsioni istintive sorte nel corso della
storia umana. Secondo Nietzsche, molti di noi hanno creduto
nella dottrina del «libero volere» perché avvertivano la necessità
di credere nella «loro “responsabilità”, [nel]la fede in se stessi,
[nel] loro personale diritto al proprio merito», mentre altri hanno
creduto alla dottrina del «volere non libero» perché avevano bi-
sogno di credere di non avere mai «alcuna responsabilità né col-
pa di nulla» e desideravano, «traendo questo loro atteggiamento
da un intimo disprezzo per se stessi, di poter togliere di mezzo
se stessi in una qualsiasi direzione» (JGB 21)8. Entrambe queste
dottrine sono quindi sempre state una funzione di strategie di
6 Sulla natura relazionale della nozione nietzscheana di volontà di potenza e sul
tema di «resistenza» e «lotta», cfr. Müller-Lauter 1999: 161-182; Müller-Lauter 1999b:
39-68 e 119-136; Ottmann 1999: 355-358. Cfr. anche Constâncio 2014.
7 Cfr. JGB 1-36. Sul valore critico (e quindi anti-metafisico e anti-ontologico) del-
l’«ipotesi» della volontà di potenza (JGB 36) si veda in particolare Stegmaier 1992: 307
ss.; Stegmaier 2013: 167-170; Stack 1983: 16, 23, 67-68, 105, 227, 239, 248 e 293.
8 Si noti che in JGB Nietzsche presenta il «libero volere» come una dottrina del
«forte», e il «volere non libero» come una dottrina del «debole», mentre in FW 113 il
«libero volere» viene descritto come creazione del «debole». Questa discrepanza può
comunque essere giustificata sulla base dell’idea che Nietzsche consideri queste posizioni
come segni e sintomi di tendenze che mutano nel corso della storia umana (per cui, in
epoche differenti, il «debole» potrebbe essere portato a credere tanto nel «libero volere»
quanto nel «volere non libero», e queste due posizioni acquisterebbero un significato
diverso a seconda del caso).
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136 João Constâncio
potenza istintive, sono state create e credute non perché fossero
“vere”, ma perché, in particolari circostanze, stimolavano il sen-
timento di potenza di qualcuno. In questo contesto, dunque, la
volontà di potenza di Nietzsche è un’ipotesi che sorge dalla sua
critica genealogica di dottrine e interpretazioni passate. La sua
ipotesi è la seguente: quando qualcuno parla della propria «liber-
tà» o «non-libertà», in realtà si tratta solo del segnale e sintomo
del fatto che le sue pulsioni sono «volontà di potenza»9.
Quando Brian Leiter sostiene che per Nietzsche «libertà» sia
solo una «sensazione di libertà» (o un «sentimento di potenza»,
come in GM II 2), e quindi che non si tratti propriamente di
libertà, egli sembra però pensare che sia necessario concepire la
libertà in senso assoluto, come il potere di prendere decisioni e
fare scelte senza nessuna interferenza dall’«esterno» – un «libe-
ro volere» nel senso tradizionale del termine. Se la libertà deve
avere questa natura metafisica, allora la critica di Nietzsche ai
concetti di causa sui e causa prima gli sarebbe stata sufficiente per
criticare anche l’idea di libertà (e non la sola concezione metafisi-
ca di «libero volere»). Eppure, Nietzsche non abbandona in toto
questa idea. Quello che fa è semplicemente un tentativo di con-
cettualizzare la libertà in maniera genealogica e non-metafisica,
ripensandola nei termini di potenza e relazioni di potenza.
Cosa può dirci questa concettualizzazione? Prima di tutto,
che occorre intendere il concetto di “libertà” in termini di gra-
dazioni. Ciò è d’altra parte inevitabile, una volta che l’azione
umana viene intesa nei termini di «volontà di potenza», e quindi
di rapporti di potere. Superare una resistenza non significa eli-
minarla, ma piuttosto incorporarla, assimilarla, renderla utile per
un qualche scopo (o «sfruttarla» per la «crescita», come a volte
sostiene Nietzsche). Una forza può danneggiare o meno ciò che
viene superato in potenza (esistono infatti processi di «crescita»
mutua o reciproca), ma in nessun caso si tratta di una forza e di
9 All’obiezione per cui anche la sua ipotesi non sarebbe che un ulteriore segno e
sintomo di altre strategie di potere e di bisogni istintivi – che sia cioè «solo un’interpreta-
zione» – Nietzsche, come è ben noto, risponde: «Ebbene, tanto meglio» (JGB 22).
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Libertà e autonomia dell’individuo sovrano in Nietzsche 137
una potenza assolute. La potenza è relazionale: vi sono solamen-
te gradi di potere, e questi sono sempre relativi al grado di resi-
stenza che resta attivo10. Questa concettualizzazione ci fa capire
che con “libertà” si intende “libertà di potere”, ma non una mera
“sensazione di potere”. Per quanto – cosa di cui Nietzsche è ben
consapevole – questa sensazione possa essere ingannevole, sem-
bra comunque che egli creda anche che essa sia un segnale del
fatto che, per quanto in misura minima, un certo grado di indi-
pendenza, individualità, responsabilità e gagliardia sia stato con-
seguito e che di questo si sia consapevoli. Solitamente, quando si
fa questa esperienza – quando si fa esperienza di un incremento
nella sensazione di potenza e ci si sente indipendenti, autono-
mi, responsabili di se stessi e particolarmente dotati nel conse-
guimento di determinati compiti (p.es. artistici) – la tendenza è
quella di interpretare la nostra esperienza come manifestazione
di un «libero volere». Ma questa è una cattiva interpretazione, se
ciò significa che la nostra libertà consiste in una scelta tra opzioni
alternative mediante una deliberazione consapevole. Lo è, inol-
tre, se significa che essa consiste in un grado di indipendenza,
individualità, responsabilità e gagliardia di cui la sensazione di
potenza non è che segno, sintomo, superficie ed espressione.
Per dare senso alla posizione di Nietzsche occorre quindi pro-
vare a navigare tra Scilla e Cariddi. Da un lato, bisogna evita-
re di attribuirgli una concezione metafisica od ontologica della
libertà. Quando Nietzsche scrive che libertà significa «avere la
volontà della responsabilità per se stessi», o che essa si misuri
«dalla resistenza che deve essere superata», non sta dicendo che
sia possibile individuare un “in sé” o anche solo un “fenomeno”
a cui dare il nome “libertà”. Piuttosto, Nietzsche cerca di attri-
buire al termine e alla nozione di libertà un nuovo significato.
D’altro canto, però, è anche necessario respingere la posizione
di Leiter secondo cui la nozione nietzscheana di libertà sarebbe
10 Cfr. Ottmann 1999: 355-358. Cfr. Anche NF 1885, 40[55] e 1884, 26[276]: “Do-
minare è: sopportare il contrappeso della forza minore – dunque una specie di prosecu-
zione della lotta. Anche obbedire è una lotta: la forza che, appunto, resta per resistere”.
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138 João Constâncio
puramente retorica. Quel “concetto” è infatti creato dalle «forze
attive e interpretative» di Nietzsche, e quindi è «solo un’inter-
pretazione» di un termine, ma non un’interpretazione arbitraria.
Essa infatti deriva da una critica genealogica degli usi che di quel
termine sono stati fatti nel corso della storia, e quindi è (o per lo
meno pretende di essere) un «concetto più completo» – e per
questo più «oggettivo» (GM III 12) – di altri concetti di libertà.
Tutto questo mostra che la concezione nietzscheana tocca le
principali questioni filosofiche che in epoca moderna sono state
poste relativamente alla questione della libertà, e non è quindi
ingenua o pre-moderna. La domanda a questo punto è: perché
i contenuti del nuovo concetto di libertà che Nietzsche elabora
dovrebbero coinvolgere le aspirazioni dell’uomo moderno? Per
una risposta a questo interrogativo occorre passare alla sezione
di GM dedicata all’«individuo sovrano».
3. Libertà e autonomia dell’individuo sovrano
Il paragrafo dedicato all’individuo sovrano – da leggere assie-
me al paragrafo precedente (GM III 1) – è parte di un resoconto
in chiave evolutiva di come il processo di socializzazione abbia
«plasmato» una «memoria della volontà» e così «un animale, cui
sia consentito far delle promesse» (GM II 1). La mia personale
opinione è che Nietzsche pensi che un processo di questo tipo
abbia reso molti uomini «non-liberi», ma che sia anche convinto
che vi siano alcune eccezioni a questa non-libertà, uomini «li-
beri» quali sono ad esempio gli «individui sovrani». Gli uomini
non-liberi manifestano una «cattiva coscienza» che li fa obbedire
alla società e conseguire gli obiettivi che essa prefigge. In altre
parole, gli uomini non-liberi possono solo fare e mantenere le
promesse che la società impone loro; essi promettono e si sen-
tono responsabili solamente di ciò che viene comandato loro da
altri (altri individui o un “altro” impersonale quale può essere la
società). Gli individui sovrani, invece, gli uomini liberi, possono
fare e mantenere promesse in completa autonomia – sono in gra-
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Libertà e autonomia dell’individuo sovrano in Nietzsche 139
do di seguire la loro coscienza, di crearsi i propri obiettivi e ride-
finire autonomamente gli obiettivi della società. Come i filosofi
descritti in Al di là del bene e del male, gli individui sovrani sono
«coloro che comandano e legiferano: essi affermano “così deve
essere!”, essi determinano in primo luogo il “dove” e l’“a che
scopo” degli uomini» (JGB 211). Da qui la loro indipendenza,
individualità, responsabilità e gagliardia; da qui il loro «senso di
potenza», la loro «libertà».
C’è forse una qualche intenzione ironica e caricaturale in tutto
questo? Se sì, essa consiste solamente nell’indicazione che nel-
le società moderne troppe persone si considerino troppo alla
leggera «individui sovrani», e ciascuno sia erroneamente spinto
a considerarsi «libero» e persino dotato di un «libero volere».
Ma c’è una qualche ragione per dubitare che quanto Nietzsche
scrive in questo paragrafo (come in molti altri luoghi dei suoi
scritti) esprima un’evidente contrapposizione tra l’uomo comu-
ne e l’individuo sovrano? Nietzsche descrive quest’ultimo come
«il frutto più maturo» del processo di socializzazione (GM II 2
e 3). Egli, inoltre, lo presenta esplicitamente come il tipo uma-
no da ammirare e che è stato forgiato dalla «durezza, tirannide,
ottusità e idiotismo» propria di quel processo (GM II 2). Per
questo motivo, Nietzsche scrive che un individuo di questo tipo
è dotato di una «volontà» che è «sua propria»; essa non è infat-
ti solamente «durevole», ma anche «indipendente», e questo è
ciò che lo rende «sovrano» e non semplicemente (in un senso
non tradizionale) un «signore del libero volere» (GM II 2). A
lui solo è «consentito fare promesse». L’uomo comune è il frutto
del «compito più immediato di rendere» quest’ultimo «sino a un
certo grado, necessario, uniforme, uguale tra gli uguali, coerente
alla regola e di conseguenza calcolabile» (ibid.). Anche lui fa e
mantiene promesse, ma, dal momento che la sua volontà non è
indipendente dalla quella «sociale», essa non è completamente
autonoma; all’uomo comune, quindi, non è propriamente «con-
sentito far delle promesse» (o lo è solo in misura minima).
Poco oltre, Nietzsche spiega il proprio punto di vista descri-
vendo l’individuo sovrano come «l’individuo eguale soltanto a
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140 João Constâncio
se stesso, nuovamente riscattato dalla eticità dei costumi» (GM
II 2). Il fatto che egli sia «eguale solamente a se stesso» significa
che è eccezionalmente individuale, e l’idea che egli diventi tale li-
berandosi dall’eticità dei costumi implica che, come deve essere,
il processo di socializzazione cancella la dimensione individuale
dell’uomo imponendo costumi che «coltivano e allevano» un tipo
umano obbediente11. La posizione che Nietzsche sostiene qui è la
stessa del paragrafo Il mio concetto di libertà del Crepuscolo degli
idoli – l’idea, cioè, che esistano due alternative: essere risucchiati
dalla «tendenza all’animalizzazione gregaria dell’uomo» o essere
abbastanza forti da resisterle in qualche modo. Ogni forma di
libertà umana consiste in un certo grado di potenza in relazione
al processo di socializzazione. Questo processo è quindi il cam-
po di resistenza in contrapposizione al quale emerge la libertà
umana – o, in altre parole, la libertà consiste nel superamento,
in misura sufficiente, della resistenza opposta all’individualità da
quel processo che, se da un lato minaccia questa individualità,
dall’altro la rende anche possibile.
Nel momento in cui afferma che un individuo sovrano è in
qualche misura libero «dalla eticità dei costumi», Nietzsche so-
stiene anche che costui possieda «la sua misura di valore» (GM
II 2). Letteralmente, “auto-nomia” significa in effetti “darsi la
11 È opportuno osservare che per Nietzsche non si può parlare di etica se essa non è
incarnata in istituzioni giuridiche e norme di condotta (cfr. A 57 e NF 1885, 34[176]). An-
che le etiche moderne, filosofiche, rientrano comunque nella «eticità dei costumi», come
si legge in Aurora: «Eticità non è nient’altro (dunque in particolar modo niente più) che
obbedienza ai costumi» (M 9). Sulla considerazione che ogni etica sia connessa al processo
di allevamento di un certo «tipo» o «forma di vita» o «specie», si veda NF 1885, 35[20].
L’etica è più precisamente una forma si «addomesticamento» (Zähmung) sociale dell’orga-
nismo umano (cfr. GM I 11, II 22, III 13 e 21; GD, I “Miglioratori” dell’umanità 2 e 5; A 22;
NF 1884, 25[236], 27[56] e 27[59]). Si noti inoltre che coscienza e linguaggio sono stru-
menti essenziali del processo di socializzazione. Essi rendono infatti possibile una visione
complessiva: coi loro segni e concetti semplificati permettono la comunicazione all’interno
della società e determinano quell’ambiente mediocre, generalizzato, in cui le differenze
vengono meno; un ambiente all’interno del quale noi stessi viviamo la maggior parte della
nostra vita. Per il fatto di trovarci all’interno di questo ambiente tendiamo a vivere confor-
memente alla «logica» e «volontà» impersonale della società, finendo per vederci privati
della nostra individualità (cfr. JGB 268, FW 354, GM I 11 e II 16).
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Libertà e autonomia dell’individuo sovrano in Nietzsche 141
propria legge”, e quindi i propri valori o la propria «misura di
valore». Nella Gaia scienza Nietzsche afferma esplicitamente che
coloro i quali «si creano da sé» e sono in grado di «diventare ciò
che sono» possono far questo perché sono «legislatori di se stes-
si» (FW 335; cfr. anche FW 290). Essi sanno in particolare creare
«nuove tavole di valori» che appartengano solo a loro, e quindi
sono in grado di porre in completa indipendenza un nuovo «ide-
ale» per loro stessi (FW 335 e 382). Per questo motivo, Nietzsche
li chiama «i nuovi, gli irripetibili, gli inconfutabili» (FW 335).
Nell’Anticristo, inoltre, afferma che «ognuno deve inventare le
proprie virtù, i propri imperativi categorici» (A 11), ovvero le
proprie «leggi».
Queste osservazioni segnalano già una differenza fondamenta-
le tra il concetto di autonomia di Nietzsche e quello di Kant. Per
Nietzsche non vi sono “leggi” nel senso kantiano – leggi che ci
siano date quali componenti intrinseci della natura immutabile e
universale della nostra ragione (cfr. A 11). Un individuo sovrano
si dà le sue proprie leggi, e questo “darsi” è sostanzialmente un’at-
tività creatrice. Inoltre, va detto che la creazione di una legge (o di
«nuovi valori») nel senso in cui la pensa Nietzsche non è un pro-
cesso controllato dalla nostra coscienza, o comunque un processo
che si verifichi sostanzialmente ed essenzialmente a livello auto-
cosciente – come se la coscienza potesse essere isolata dal conti-
nuum di processi pre-consci, pulsioni e affetti che si svolgono in
maniera istintiva e che costituiscono una persona. La coscienza
non gioca alcun ruolo nell’«creazione di sé» fino al livello che
Nietzsche chiama finale e «superficiale» di quei processi. Inol-
tre, perché una legge di cui siamo coscienti possa effettivamente
governare l’organismo, essa dev’essere «incorporata» nella gerar-
chia (Rangordnung) delle pulsioni e dei valori di una certa perso-
na. Essa deve quindi operare e possedere una forza motivazionale
che intervenga al livello delle pulsioni e degli istinti12.
Essere «autonomi» esclude quindi l’essere «morali», mentre ri-
12 Per una disamina più approfondita della questione di coscienza e autocoscienza si
veda anche Constancio 2011a, 2012a e 2012b.
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142 João Constâncio
chiede di essere «sovra-morali», dal momento che si è autonomi
se e solo se si è creatori di una legge che nessun altro può avere
creato, una legge che, essendo incorporata nelle nostre più intime
valutazioni, fa sì che ciascuno di noi sia un individuo unico nel
proprio genere. Questo, però, non significa che una legge auto-
noma non possa avere una dimensione “universale”. Dal momen-
to che l’autonomia è una questione di grado (o di indipendenza
relativa), essa si fonda sempre su di una dimensione sociale e va
considerata come emergente non solo dai rapporti di potenza tra
le pulsioni di una persona, ma anche da quelli tra le pulsioni di
quest’ultima e quelle di un’altra persona – in altre parole, il genere
di rapporti di potere che dà vita alla società e alla storia dell’uomo.
Gli effetti dell’autonomia di una certa persona sono quindi tanto
sociali che individuali. Per questo motivo, l’individuo sovrano può
fungere da esempio per gli altri e la sua creazione di sé può modifi-
care i valori dominanti e i costumi che regolano le relazioni sociali
(si ricordi, ad esempio, come la creazione di sé attribuita a Goethe
possa «redimersi e affermarsi nell’intero»). In un certo senso, le
leggi della società scaturiscono dall’attività di individui autonomi
e sovrani, ma questo comporta che la loro “universalità” non sia
mai il prodotto di una ragione pratica a-storica.
Per quanto tutto questo sembri contrapporsi radicalmente
alla concezione kantiana – e per quanto Nietzsche ritenga di
contrapporsi a Kant quando afferma che «“autonomo” e “etico”
si escludono» –, la posizione di Kant è in realtà meno univoca
di quanto pensi Nietzsche. La vacuità formale dell’imperativo
categorico kantiano implica che esso non specifichi mai quali
doveri un soggetto dovrebbe soddisfare in una determinata si-
tuazione – «e questo comporta che il peso della determinazio-
ne del contenuto del dovere gravi completamente sul soggetto»
(Žižek 2008: 53)13. Guardando le cose in questi termini, la con-
13 Werner Stegmaier (1994: 137) fa la medesima osservazione, e sostiene che
Nietzsche e Kant siano fondamentalmente in accordo: «Anche secondo Kant ciascuno
deve sottoporre la proprie massime e i principi pratici delle proprie valutazioni all’impe-
rativo categorico. La valutazione può legittimare sempre e solo l’azione di un singolo in
una particolare situazione». Cfr. anche Simon 1992. La tesi secondo cui Kant e Nietzsche
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Libertà e autonomia dell’individuo sovrano in Nietzsche 143
sapevolezza dell’imperativo categorico isola il soggetto da quello
che Nietzsche chiama il gregge, e lo rende quindi sovramorale in
senso nietzscheano. Il soggetto non può più contare sull’«eticità
dei costumi», ed è quindi portato a sentirsi responsabile delle
proprie azioni.
Questo sentimento di responsabilità è ciò che Nietzsche chia-
ma coscienza (Gewissen) e, a conti fatti, egli pensa che essere legi-
slatori di se stessi e divenire autonomi sia lo stesso che seguire la
propria coscienza. Ma questa concezione non è troppo kantiana
per essere attribuita a Nietzsche? In effetti ci sono luoghi in cui
Nietzsche diverge radicalmente da Kant (o per lo meno crede
di farlo), sulla base di due motivi fondamentali. Prima di tutto,
la «coscienza» di Nietzsche (o «la migliore coscienza», GM II
11) è propriamente «a-morale», e Nietzsche ritiene che solo la
cattiva coscienza sia segnata dalla morale. Questo è evidente, per
esempio, da quanto si legge al termine del terzo libro della Gaia
scienza: «Che cosa dice la tua coscienza? Devi diventare quello che
sei» (FW 270). In questo senso, la coscienza è un istinto che ci
prescrive di “diventare ciò che siamo”, di giudicare in maniera
indipendente e di assumerci la responsabilità dalle nostre azioni
(cfr. FW 2, 117 e 335). La coscienza è «cattiva coscienza» solo
quando ci spinge a diventare ciò che non siamo, ma al contra-
rio ciò che l’eticità ci richiede di essere. È questa una coscienza
«malata» che ci fa vivere negativamente la nostra individualità
e, come un giudice morale che vive dentro di noi, ci impone di
rinunciare al nostro giudizio personale e di agire conformemente
a una presunta «legge universale». Questa è vera “schiavitù” o
“non-libertà”, mentre seguire la nostra coscienza significa dive-
nire liberi, perché vuol dire agire potendo «dire sì anche a se stes-
si» (GM II 3) e non provare vergogna nel divenire ciò che si è:
Che cos’è il sigillo della raggiunta libertà? Non provare più vergogna
davanti a se stessi. (FW 375)
condividono posizioni affini sul tema della responsabilità individuale è stata fortemente
sostenuta anche da Volker Gerhardt (1992).
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144 João Constâncio
Non avere più vergogna davanti a se stessi e agire affermando
la propria più intima essenza è propriamente “libertà”, perché
tutto questo crea indipendenza, individualità, responsabilità,
gagliardia e, soprattutto, genera un sentimento di potenza che
rende possibile l’attribuirsi un valore che derivi solo da noi stes-
si, e non da opinioni e prescrizioni di altri soggetti (JGB 261). Il
sentimento della «sovranità personale» (Personal-Souveränität)
ha una lunga storia alle sue spalle (cfr. NF 1887-1888, 11[286]),
e proviene dallo sviluppo della coscienza in quanto istinto che ci
spinge a diventare ciò che siamo, a diventare individui14.
Pertanto, diversamente da Kant, la coscienza di Nietzsche
non ha nulla a che vedere con il «libero volere». Quest’ultimo è
un prodotto del processo di socializzazione e di «allevamento»
dell’uomo – non a caso, come Nietzsche osserva esplicitamente,
ne è «un frutto maturo, ma anche un frutto tardivo» (GM II 3),
che fa la propria comparsa nella storia umana solamente dopo la
cattiva coscienza, dopo il «lavoro preistorico» che ha reso l’uomo
«necessario, uniforme, uguale tra gli uguali, coerente alla regola
e di conseguenza calcolabile» (GM II 2). In altre parole, la «mi-
gliore coscienza» è un privilegio molto raro, il privilegio degli
individui sovrani.
La riflessione di Nietzsche sull’individuo sovrano si chiude
con queste considerazioni:
La superba cognizione dello straordinario privilegio della responsa-
bilità, la consapevolezza di questa rara libertà, di questa potenza sovra
se stesso e sul destino è discesa in lui sino al suo infimo fondo ed è
divenuta istinto, istinto dominante – quale nome darà a questo istinto
dominante, ammesso che senta in sé il bisogno di una parola per esso?
Ma non v’è dubbio: questo uomo sovrano lo chiama la sua coscienza…
(GM II 2).
14 In FW 335, in particolare, Nietzsche distingue la coscienza morale dalla «coscien-
za intellettuale», e spiega che quest’ultima, in quanto «coscienza dietro la tua “coscien-
za”», è il modo più onesto di giudicare che rivela il modo di pensare propriamente morale
e ci permette di creare un nostro proprio ideale, divenire ciò che siamo, e quindi renderci
nuovi, unici e ineguagliabili.
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Libertà e autonomia dell’individuo sovrano in Nietzsche 145
Esse sollevano almeno tre questioni fondamentali in riferi-
mento all’individuo sovrano: (a) qual è il valore euristico di que-
sta figura, o, detto altrimenti, in che modo essa contribuisce allo
scopo di creare un’alternativa all’ideale ascetico? (b) Qual è la
relazione tra l’individuo sovrano e l’idea che Nietzsche ha del
filosofo in quanto animato dalla «passione per la conoscenza»?
Infine, (c) questa figura possiede un valore particolare per i mo-
derni lettori di Nietzsche e magari, più in generale, per la civiltà
moderna?
(a) Per rispondere al primo interrogativo bisogna considerare
innanzitutto che l’individuo sovrano, in quanto «frutto più ma-
turo» del processo di socializzazione, è un individuo spirituale,
e quindi uno «spirito libero», non importa se di grado basso o
elevato. Ciò deriva dal fatto che è il processo di socializzazione a
creare l’“anima” o “spirito” umani, attraverso l’interiorizzazione
degli istinti della nostra specie – questo processo dona «profon-
dità, latitudine, altezza e misura» allo spirito umano, inibendo
o comunque ostruendo lo «sfogo all’esterno» dei nostri istinti
(GM II 16). Con questo impedimento degli «istinti della liber-
tà» (ibid.) sembra che «un enorme quantum di libertà» sia stato
«eliminato dal mondo», mentre in realtà esso è stato solo «reso
latente» in una diversa forma (GM II 17). In questo modo si ren-
de possibile il conseguimento di un nuovo tipo di libertà – una
libertà spirituale o «libertà dello spirito». L’individuo sovrano è
un «maestro del libero volere» proprio nella misura in cui è ca-
pace di sfruttare questo nuovo tipo di libertà, attualizzando ciò
che è latente15. L’individuo sovrano è l’uomo libero dall’eticità
15 Cfr. gli usi che Nietzsche fa dell’espressione «libertà dello spirito» (Freiheit des
Geistes) in MA I, Prefazione 4; MA II 26, 221 e 286; VM 211; WS 72, 318 e 350; M 56
e 358; GM III 24; A 47. Si veda anche FW 143, in cui Nietzsche identifica la libertà con
«l’egoismo e la sovranità [Selbstherrlichkeit] del singolo» e parla di una «libertà di spirito
e multiforme spiritualità dell’uomo». Il libro sul Rinascimento di Burckhardt potrebbe
aver influito sulla genesi della nozione nietzscheana di individuo sovrano. Come si è detto
sopra, Burckhardt elogia il rinascimento per aver prodotto un simile tipo umano, di cui
l’autore designa esplicitamente il carattere col termine «sovranità» (Souveränität), la quale
altro non è che l’abilità di perseguire un’azione indipendente (o autonoma). Burckhardt
(1860/1952: 418): «Di fronte ad ogni obiettività, e ad ostacoli e leggi d’ogni maniera,
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146 João Constâncio
dei costumi che può comparire solo in un periodo tardo della
storia dell’umanità, quando il processo di socializzazione ha reso
possibile per un numero esiguo di individui eccezionali di sentir-
si “liberi”. In questa nuova forma (la forma della “seconda inno-
cenza”), la libertà è un’esperienza di indipendenza, individualità,
responsabilità, gagliardia, coscienza e autonomia – un’esperienza
spirituale completamente diversa da qualsiasi esperienza propria
dell’uomo pre-sociale.
Il valore euristico della figura dell’individuo sovrano diviene
quindi chiaro. Il (presunto) fatto che nel passato sia esistito un
esiguo numero di individui sovrani dimostra che il processo di
socializzazione non preclude il tipo di affermazione dell’esisten-
za che scaturisce da bisogni, pulsioni, istinti, e affetti non ascetici
e non nichilisti. Gli uomini non sono irrevocabilmente destinati
a vivere la loro vita come nel buio di una caverna o in una “valle
di lacrime”. Anche all’interno della società, l’uomo non deve vi-
vere la propria esistenza come un “nulla” (nihil) che può acqui-
sire valore solamente se interpretato come mezzo per fini o scopi
trascendenti. Quello che Schopenhauer ha definito il «bisogno
metafisico dell’uomo» (WWV II, 17) non è una sua disposizio-
ne naturale e ineluttabile. Un’esistenza scevra dalla metafisica e
dall’ideale ascetico è invece possibile – perché lo è una libertà
intesa come «sentimento di potenza» puramente immanente.
(b) Diversamente dalla “prima innocenza” dell’animale uomo,
l’esperienza spirituale della libertà vissuta dall’individuo sovrano
presuppone un processo di liberazione dall’eticità dei costumi.
A questo partecipa una «memoria della volontà» (GM II 1), che
è comunque una sorta di «volontà» attiva (per quanto si svol-
ga principalmente a livello inconscio). Non per nulla, la «vera
dottrina della volontà e della libertà» di Zarathustra dice, molto
semplicemente, che «volere libera» (Z II, Sulle isole beate). Ma
l’elemento cruciale è che la liberazione dall’eticità dei costumi
è una questione di grado, e il massimo grado di liberazione – il
[il carattere degli italiani del Rinascimento] ha il sentimento della propria sovranità e si
decide con autonomia in ogni singolo caso».
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Libertà e autonomia dell’individuo sovrano in Nietzsche 147
massimo grado di spiritualità per uno «spirito libero» – dovreb-
be essere visto come la “grande liberazione” dalle “menzogne”
più radicate e dannose della tradizione come i concetti di Dio,
anima, soggetto, causa, colpa, peccato, responsabilità morale o
scelta – in breve, dall’ideale ascetico16. Pertanto, nelle società
moderne dominate dall’ideale ascetico i gradi più elevati di so-
vranità e spiritualità – la forma ideale di «libertà dello spirito»
– sono privilegio dei filosofi in grado di operare una trasvaluta-
zione genealogica dei valori17. Per usare il linguaggio del quinto
libro della Gaia scienza possiamo dire che, se una persona si li-
bera dal «bisogno di fede» (FW 347, cfr. A 54), e in particolare
del bisogno di una «fede metafisica» (FW 344), diventa capace
di creare un nuovo tipo di salute umana, una salute post-ascetica,
«la grande salute» (FW 382). In FW 347 Nietzsche scrive che
si potrebbe pensare un piacere e un’energia dell’autodeterminazio-
ne, una libertà del volere, in cui uno spirito prende congedo da ogni
fede, da ogni desiderio di certezza, adusato come è a sapersi tenere su
corde leggere e su leggere possibilità, a danzare perfino sugli abissi. Un
tale spirito sarebbe lo spirito libero par excellence.
Non vi è dubbio che queste osservazioni esprimano l’idea
che Nietzsche ha del concetto di libertà, la sua idea personale
di un’esistenza filosofica che afferma se stessa e sperimenta una
16 Cfr. MA I, Prefazione; GD, I quattro grandi errori 8; A 15; EH, Perché io sono un
destino 1.
17 Sul concetto nietzscheano di «elevate spiritualità» (hohe Geistigkeit), cfr. JGB 40,
44, 61, 201, 213, 252, 257 e 219. Cfr. anche Constâncio 2011b: 106, 109, 114, e Ri-
chardson 2009. Richardson sostiene in particolare che, secondo Nietzsche, la libertà è
un fenomeno storico o evolutivo che può manifestarsi in diversi gradi di sviluppo, e la
cui forma suprema dipende da processi genealogici che rivelano le “menzogne” insite
nelle nostre valutazioni passate. Questo è un aspetto determinante per l’interpretazione
dell’individuo sovrano. È infatti una falsa pista quella che si propone di discutere se
l’individuo sovrano sia un fenomeno passato (e forse presente) o, come sostiene Hatab
(2008: 176), un «fenomeno a venire». Da un lato, la figura dell’individuo sovrano rap-
presenta il «tipo di superiore valore» che è «già esistito abbastanza spesso» (A 3), ma,
d’altra parte, Nietzsche pone la questione se siano possibili una spiritualizzazione, un
superamento e un auto-superamento (Selbstaufhebung) delle forme che esso ha avuto sin
qui (cfr. Giacoia Junior 2011: 174-175).
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148 João Constâncio
«libertà sopra le cose» (FW 107) dietro la spinta della «passio-
ne della conoscenza» e non del bisogno di trovare una rispo-
sta all’interrogativo dell’ideale ascetico: «Posso credere in una
qualche “verità” assoluta che dia un senso alla mia sofferenza e
uno scopo alla vita in generale?» Di nuovo, la figura dell’indi-
viduo sovrano è un segnale che questo tipo di esistenza libera e
di libera spiritualità – anche di «libertà del volere» in un senso
nuovo – è possibile. La filosofia, secondo Nietzsche, ha a che
fare con la «sovranità». Come spiega nell’Anticristo, infatti, la
«grande passione» che è privilegio di quegli spiriti filosofici che
sono abbastanza forti da potersi confrontare con il «bisogno di
fede» e vivere liberi da «qualsiasi specie di convinzioni» – quella
grande passione «si sa sovrana [weiss sich souverain]» (A 54, cfr.
NF 1888, 11[48]).
(c) La risposta alla terza e ultima questione è in parte anticipata
dal contenuto delle prime due. La figura dell’individuo sovrano
ha un valore per i moderni lettori di Nietzsche e in certa misura
anche per la civiltà moderna nel suo complesso, in quanto mostra
che vi può essere una forma di esistenza – un «mare aperto» di
vita e conoscenza (FW 343) – oltre i limiti dettati dall’ideale asce-
tico. C’è però un ulteriore elemento da considerare. Nietzsche
concepisce la nozione di «sovranità» in termini moderni, e preci-
samente in termini di «coscienza» e «autonomia»18. Nelle società
moderne la gente si considera “libera” perché pensa che tutti gli
uomini siano ugualmente in grado di agire secondo la propria
coscienza e determinare autonomamente i propri valori. Questo
18 Il termine «coscienza» compare solo alla fine di GM II 2, come nome che l’indivi-
duo sovrano dà al proprio istinto dominante. Tuttavia, Stegmaier (1994: 131-138) osserva
correttamente che quando, in GM II 1, Nietzsche sostiene che gli uomini devono possede-
re una «memoria della volontà» per poter fare e mantenere promesse, quello che intende
con queste parole è precisamente il senso di «responsabilità» che lui chiama «coscienza»
(Gewissen). Buona e cattiva coscienza sono due forme della nostra «memoria della vo-
lontà». Inoltre, si può notare che per Nietzsche tanto la «volontà» quanto la «memoria»
umana non sono eventi di cui siamo immediatamente consapevoli. Già nel 1872-1873
Nietzsche scrive in un quaderno: «La coscienza prende inizio con il senso di causalità,
in altre parole, la memoria è più antica della coscienza. Nella mimosa, per esempio, noi
troviamo memoria ma non coscienza» (NF 1872-1873, 19[161]. Cfr. FW 354).
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Libertà e autonomia dell’individuo sovrano in Nietzsche 149
è un aspetto rilevante della versione moderna dell’ideale asce-
tico – un aspetto che Nietzsche pone fortemente in questione
nel momento in cui sostiene che coscienza e autonomia siano
appannaggio di un esiguo numero di individui sovrani, e da ulti-
mo dei filosofi. Nietzsche pone la cosa con particolare asprezza
quando scrive che ogni individuo sovrano proverà «rispetto» e
«riverenza» (Ehrfurcht) per i suoi «pari», ma «disprezzerà» chi
non si dimostrerà abbastanza forte da essere responsabile per se
stesso e completamente autonomo (GM II 2).
Da un lato, questa considerazione è profondamente kantiana.
Essere autonomi comporta infatti il rispetto per gli altri che sono
parimente autonomi, il rispetto per la loro autonomia (cfr. Bailey
2012 e 2013). Questa posizione si trova sicuramente alla base
dell’idea che Nietzsche ha della «modernità». Ma come dovrem-
mo considerare il disprezzo dell’individuo sovrano per chi non
gli è pari? Per certi aspetti, questa è con buona probabilità solo
una diagnosi “realistica” della psicologia di qualsiasi individuo
sovrano. Con le differenze dovute al proprio grado di coscienza,
ciascuno creerà la propria gerarchia (Rangordnung), e gli sarà
di conseguenza impossibile dimostrare il medesimo rispetto per
tutti e per tutto. Ogni individuo sovrano dovrà quindi disprezza-
re per poter venerare (cfr. Z, Dell’uomo superiore 3). Ma questo
non comporta un’approvazione dell’ineguaglianza sociale e poli-
tica? Non implica un rifiuto aristocratico ed elitario dello spirito
della modernità? Come si è visto, Nietzsche sembra essere sicuro
del fatto che non si possa tornare indietro rispetto al grado di
spiritualità conseguito in epoca moderna, ma che, al contrario,
si possa solo progredire. Se le cose stanno in questi termini, non
dovremmo concludere che Nietzsche invita il lettore moderno
ad assumere una prospettiva progressista e non conservativa?
Egli, inoltre, pensa chiaramente che l’ideale ascetico sia danno-
so per tutta l’umanità, non solo per una sua parte, e pertanto
il suo «compito» comprende di contribuire a un radicale mu-
tamento della civiltà del quale tutti possano beneficiare. Se le
cose stanno così, in GM II 2 Nietzsche non sta semplicemente
suggerendo che l’individuo sovrano sarà incline a disprezzare la
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150 João Constâncio
maggior parte delle persone perché nelle società moderne esse
non sono abbastanza autonome? Che nelle nostre società liberali
c’è ancora molta strada da fare perché tutti possano (e debbano)
riconoscersi reciprocamente come individui liberi e autonomi?
Che noi stiamo diventando pericolosamente «ultimi uomini»,
completamente privi di indipendenza, individualità, responsa-
bilità, grandezza, spirito, coscienza, autonomia – in una parola:
libertà? Come è noto, Nietzsche vuole liberare la nostra civiltà
dall’ideale ascetico condividendo il proprio ideale filosofico con
un numero selezionato di lettori – più precisamente, mostrando
ai «filosofi dell’avvenire» che è possibile e desiderabile vivere se-
condo bisogni non ascetici e non metafisici. Il suo desiderio per
le epoche a venire non è forse che si possa acquisire maggiore
libertà e autonomia, e con ciò realizzare un auto-superamento
della modernità seguendo i grandi esempi dei Greci, dei Romani,
e degli Italiani dell’epoca rinascimentale? Sulla base delle nostre
moderne aspirazioni di libertà e autonomia, non dovrebbe essere
questo anche il nostro desiderio – il nostro nuovo «ideale»?
Questo non è altro che un ulteriore «punto interrogativo» di
Nietzsche – un interrogativo che dovrebbe riguardare i suoi let-
tori di oggi con la stessa forza con cui deve aver riguardato un
esiguo numero di suoi contemporanei.
Traduzione dall’inglese di Pietro Gori
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“Faute de mieux” par excellence
L’esito problematico di GM III
Federica Negri
Contro il valore di ciò che rimane in eterno
uguale a se stesso (vedi l’ingenuità di Spinoza,
come pure di Descartes) c’è il valore di ciò che è
più breve e fugace, il seducente scintillio dora-
to sul ventre del serpente vita.
NF 1887, 9[26]
1. L’ascesi, un ideale da “ruminare” e digerire
La dissertazione conclusiva della Genealogia della morale si
presenta, già dal titolo, come un nucleo problematico estrema-
mente complesso, solo parzialmente risolutore di una quanti-
tà di temi diversi messi in campo già nelle sezioni precedenti.
Come spesso accade nelle opere di Nietzsche, molteplici sottili
indicazioni da parte del filosofo avevano intessuto l’intero te-
sto, preparando sotterraneamente l’affondo finale. D’altra parte,
eravamo già avvertiti sin dalle prime pagine, quando Nietzsche
invita il lettore ad «esercitare (…) la lettura come arte», recu-
perando una pratica che «oggidì è stata disimparata nel modo
più assoluto», e avverte che «per giungere alla “leggibilità” dei
[suoi] libri occorre ancora del tempo – una cosa per cui si deve
essere quasi vacche e in ogni caso non “uomini moderni”: il ru-
minare…» (GM Prefazione 8).
L’avvertenza sulla complessità del testo ci prepara a un’im-
presa ardua, che necessita di una capacità fisica di sopportare
tempi lunghi e – apparentemente – inutili. Il ruminare, il riflet-
tere a lungo sulle medesime questioni prepara, in effetti, a una
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154 Federica Negri
buona digestione e assimilazione dei contenuti più ostici. La
buona digestione è da intendersi come sinonimo di una buona
salute e di un naturale gusto, come una saggezza del corpo che
permette al filosofo di comprendere le differenze come sfumatu-
re, come gradualità e non in termini oppositivi, sottraendosi alla
stretta logica binaria della metafisica1. La sua «grande salute»
(FW 382) è rivelata proprio dalla capacità di nutrirsi con profitto
di tutto ciò che incontra sulla propria strada, di misurarsi con ciò
che il cammino riserva. L’analisi dovrà essere interpretativa nel
senso più profondo, per poter smascherare l’ideale più dannoso
dell’intera cultura occidentale – ma forse anche di gran parte di
quella orientale – quello ascetico.
Qual è il senso dell’ideale ascetico? Quale è stata la sua fun-
zione e di che cosa, in realtà, è la maschera? Questi interrogativi
si pongono in maniera chiara alla fine di un libro che ha voluto
essere «una critica dei valori morali» (GM Prefazione 6). In que-
sta terza sezione, non si tratta più solo di analizzare un valore
in particolare per smascherarlo, quanto piuttosto di affondare
la critica al punto da far saltare l’intero sistema dei valori, la sua
pretesa necessità ai fini dell’esistenza umana, per far risaltare la
totale inadeguatezza del valore supremo dell’ascetismo rispetto
anche al suo fine dichiarato. Questa ricerca va di pari passo con
la domanda sulla volontà di verità. In Ecce homo, parlando del
testo, con riferimento esplicito a questa sezione, Nietzsche espo-
ne chiaramente le proprie intenzioni:
La terza dissertazione risponde alla domanda di dove provenga la
immensa potenza dell’ideale ascetico (…) sebbene questo sia l’ideale
dannoso par excellence, una volontà della fine, un ideale della décadence.
Risposta: non perché, come si vuol credere, Dio agisca dietro i sacerdo-
ti, ma faute de mieux – perché fino a oggi è stato l’unico ideale, perché
non aveva concorrenti. «Perché l’uomo preferisce ancora volere il nul-
1 Cfr. su questo Pasqualotto (1988: 188): «La bellezza del soggetto, il suo essere
“saporoso” [schmackhaft], ossia la sua saggezza, consiste soprattutto nella sua capacità di
considerarsi non come una identità in contrasto ad una molteplicità, ma come una plura-
lità di differenze in movimento. Vi è bellezza e saggezza, insomma, quando il soggetto si
mostra in grado di superare la propria unità».
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“Faute de mieux” par excellence 155
la, piuttosto che non volere»… Soprattutto mancava un contro-ideale
– fino a Zarathustra. (EH Genealogia della morale)
L’idea che guida questo contributo è prima di tutto che in
GM III Nietzsche, dopo aver analizzato nelle sezioni precedenti
il meccanismo del vincolo morale come strumento di potere, esa-
mini l’ideale ascetico come via estrema di controllo per i malati
della volontà, che non possono rinunciare a volere qualcosa –
fosse anche il nulla – piuttosto che non volere. In secondo luogo,
che il filosofo non proponga, in realtà, nessun tipo di soluzione,
come se fosse impossibile liberarsi dall’idealità come ultimo ri-
fugio sicuro, se non grazie a un “contro-ideale”, che tuttavia ap-
pare comprensibile da pochi. La persistenza dell’ideale sarebbe
segno di una sua effettiva valenza positiva che – se esso fosse giu-
stamente declinato – potrebbe ancora servire come alternativa
e contenimento della volontà. Effettivamente, il valutare che ha
come prima conseguenza la creazione di valori e ideali rispon-
de all’esigenza fondamentale di conservazione che appartiene
all’uomo: «per conservarsi (…) per primo egli creò un senso alle
cose, un senso umano!» (Za Dei mille e uno scopo).
Fondamentale, in questa analisi, è l’esame della natura fun-
zionale della volontà nella vita umana; Nietzsche sembra qui
tornare ai suoi antichi amori2, dato che l’intera discussione sulla
volontà di potenza che percorre la terza dissertazione – ma, in
realtà, tutto il testo della Genealogia – ci riporta alla volontà di
Schopenhauer. In verità, per Nietzsche, si tratta ora di compiere
il nichilismo, non quello della morale della compassione di Scho-
penhauer3, ma quello che ha veramente lasciato andare il volere
2 Cfr. Colli e Montinari in Notizie e note alla Genealogia: «La parentela del nuovo
principio filosofico della “volontà di potenza” con il principio schopenhaueriano della
“volontà di vivere” è evidente e indiscutibile (e lo dice Nietzsche stesso). […] Il nucleo
delle due concezioni è identico, e anche il principio di Schopenhauer era immanente
come quello di Nietzsche: in entrambi i casi si tratta di una sostanza irrazionale, che è in
noi (ogni teologia è superata) e di cui diventiamo partecipi per un’apprensione immedia-
ta. La differenza rispetto a questa sostanza si riduce al fatto che Schopenhauer la rifiuta e
vuole negarla, Nietzsche invece l’accetta e vuole affermarla. Insomma non sta nel princi-
pio l’originalità di Nietzsche, ma nella reazione al principio» (OFN, VI/2, pp. 371-372).
3 Nietzsche, ricordando gli scritti che lo hanno condotto alla Genealogia, scrive
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156 Federica Negri
e non ci condanna a volere il nulla. Nietzsche si appresta quindi
a un compito estremamente difficile, ossia tentare di raggiungere
una “volontaria” non volontarietà dell’azione4.
La terza dissertazione si apre con una citazione da Così parlò
Zarathustra, opera che precede e, in un certo senso, fa da sfondo
a questo libro (assieme a Umano, troppo umano, La Gaia scienza
e Aurora). Come dichiarato da Nietzsche in EH, lo Zarathustra
contiene forse l’unico possibile antidoto all’ideale ascetico; per
questo motivo, questo esergo mi sembra che assuma un significa-
to ben rilevante e contenga elementi utili alla decifrazione della
discussione finale.
Incuranti, beffardi, violenti – così ci vuole la saggezza: è una donna,
ama sempre unicamente un guerriero.
Il passaggio allude a una serie di fondamentali elementi: pri-
mo tra tutti, la figura della saggezza-donna, così come viene deli-
neata nello Zarathustra (Za, Il canto della danza), in grado di non
aver paura della propria superficialità. Solo una donna in grado
di incarnare questa saggezza può essere la degna compagna di chi
creerà al di sopra di sé l’oltreuomo (Za, Di antiche tavole e nuove
23). Si tratta di una donna come Arianna, dionisiaca e libera, e
come la vita, «mutevole e impertinente»5. In secondo elemento
nella Prefazione: «Per me era in questione il valore della morale – e a questo riguardo
dovevo fare i conti quasi unicamente con il mio grande maestro Schopenhauer (…) Si
trattava, in special modo, del valore del “non egoistico”, degli istinti di compassione,
di autonegazione e di autosacrificio, (…) Precisamente qui vedevo il grande pericolo
dell’umanità, la sua più sublime tentazione e seduzione – verso che cosa poi? Verso il
nulla?» (GM Prefazione 5).
4 La discussione sulla volontà è sicuramente un punto estremamente delicato, che
implica il superamento dell’idealismo filosofico, ma anche tutta la demistificazione del
concetto di coscienza (M 119; M 115). La questione è resa ulteriormente complessa dal
fatto che, come è noto, la critica alla nozione di volontà sembra lasciare comunque spazio
a una forma di libertà individuale che si fonderebbe proprio sull’accettazione del nichili-
smo. Non è possibile in questa sede soffermarsi su questo tema, che coinvolge le nozioni
di “amor fati”, del “divenire ciò che si è” e di “individuo sovrano” (di cui Nietzsche parla
proprio nella Genealogia (GM II 2) e su cui João Constâncio ha scritto nel presente volu-
me). La letteratura secondaria, d’altra parte, si è ampiamente dedicata a tali questioni in
passato (cfr. p.es. Gemes/May 2009).
5 In particolare, è La seconda canzone di danza che ci permette di confermare questa
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“Faute de mieux” par excellence 157
contenuto nella citazione riguarda l’idea del filosofo guerriero
che affronta le macerie della mancanza totale di valori traendo
gioia da questa nuova libertà. Questo guerriero ha lo spirito ir-
riverente del bambino, che gioca tralasciando il senso comune,
non considerando i valori invece di rifiutarli. Se questo guerriero
è innocente6 e assimilabile al filosofo che Nietzsche vuole essere,
si può dire che egli debba avere le doti di un ballerino,7 che deb-
ba essere dotato della «più grande scioltezza e forza» (FW 381).8
Il nostro impegno di lettori – al pari del filosofo che ha com-
piuto la genealogia, come sembra indicare la citazione – dovrà
ispirarsi allo stesso spirito incurante, beffardo e – a volte – vio-
lento, nel senso di una attenzione decostruttiva per smascherare i
meccanismi di potere occultati dalla morale, in particolare quelli
dell’ideale ascetico, che rappresenta la quintessenza di questo
strumento di controllo assoluto.
2. Le maschere dell’ideale ascetico
«Che significano gli ideali ascetici?», questo interrogativo che
titola GM III diventa presto un ritornello che ci accompagna nei
identificazione tra la donna, la saggezza, la vita e Arianna. Cfr. anche DD, Lamento di
Arianna.
6 L’innocenza è la conseguenza della corretta lettura dell’inesistente causalità del
mondo: «Siamo stati noi a inventare il concetto di “scopo”: nella realtà lo scopo è assen-
te… (…) Che nessuno più sia reso responsabile, che la natura dell’essere non possa venire
ricondotto a una causa prima, che il mondo non sia (…) una unità, tutto ciò soltanto è la
grande liberazione – con ciò soltanto è nuovamente ristabilita l’innocenza del divenire»
(GD, I quattro grandi errori 8). Su questo e sul rischio di un pericoloso disimpegno nell’a-
zione, cfr. Stellino 2011.
7 Danzare il pensiero come sinonimo di nichilismo attivo: Pasqualotto 1998, pp.
101 ss.; FW 368 (contro la musica wagneriana, rifiutata perché fisiologicamente nociva);
oltre al «“Danzare in catene”, farsi le cose difficili e poi stendervi sopra l’illusione della
facilità» (WS 140).
8 In GD, Nietzsche scrive: «(…) il pensare è cosa che vuol essere appresa allo stesso
modo con cui vuole essere appresa la danza, come una specie di danza…» (GD Quel che
i tedeschi non hanno 7). Nietzsche mette sotto il segno della «levità del piede nelle cose
dello spirito» la sua filosofia.
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158 Federica Negri
meandri di un’analisi sempre più approfondita, non solo della
questione in sé, ma di tutte le tentacolari implicazioni del più
perverso degli ideali. Sin dal primo paragrafo, Nietzsche afferma
che, per ben intendere il problema, bisogna tenere conto delle
molteplici “tipologie” umane in cui si declina questo ideale: i filo-
sofi e i dotti, le donne, i «fisiologicamente malriusciti e alterati»,
i sacerdoti e i santi. Per tutti questi, l’ideale ascetico acquisisce
una sfumatura unica, per quanto si tratti di un valore che tende a
riconfermarne le caratteristiche fondamentali, mantenendoli ben
legati a se stessi, incapaci di cambiare ed evolversi.
La persistenza dell’ideale ascetico – e la sua presenza in ca-
ratteri apparentemente così diversi – segnala una debolezza ca-
ratteristica del genere umano, ossia la mancanza della forza di
rifiutare ogni appiglio al valore, l’impossibilità di rinunciare ad
un fine per la propria esistenza. L’insensatezza della casualità, l’a-
mor fati, che Nietzsche prospetta nella sua filosofia è impensabile
per la quasi totalità degli uomini. La delusione e il senso di vuo-
to spingono a cercare, perciò la volontà continua a esercitare il
suo fascino, persino in coloro che fronteggiano la crisi dei valori
europei. Nietzsche parla di un «horror vacui», un timore atavico
e abissale di non volere più nulla, e aggiunge che, piuttosto di
fronteggiare il vuoto, l’uomo «preferisce volere il nulla».
In GM III 1 Nietzsche ostenta la pretesa “inattualità” di que-
sta sua tesi9 e, con la scusa di doverne offrire una spiegazione,
riprende il filo delle due dissertazioni precedenti, per offrirci una
sorta di fenomenologia dell’ideale ascetico all’interno della co-
munità umana. Alla fine, però, si giunge a capire che
questo odio contro l’umano, più ancora contro il ferino, più ancora
contro il corporeo, questa ripugnanza ai sensi, alla ragione stessa, (…)
tutto ciò significa (…) una volontà del nulla, un’avversione alla vita, una
rivolta contro i presupposti fondamentalissimi della vita, e tuttavia è
9 Cfr. FW 381: «Quando si scrive, non si vuole soltanto essere compresi, ma senza
dubbio anche non essere compresi. (…) Tutte le leggi più sottili di uno stile hanno qui
la loro origine: tengono lontani a un tempo, creano distanza, interdicono “l’accesso”, la
comprensione, come si è detto – mentre aprono gli orecchi di coloro che d’orecchio ci
sono affini».
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“Faute de mieux” par excellence 159
e resta una volontà!… E per ripetere in conclusione quel che già dissi
all’inizio: l’uomo preferisce ancora volere il nulla, piuttosto che non
volere.
Il volere il nulla rimane così l’ultimo senso del nostro esistere
come volontà di vivere, proprio perché l’uomo può sopportare
la sofferenza, il dolore o la morte, ma non la mancanza totale
di senso dell’esistenza. La volontà sembra essere l’espressione
più raffinata del primordiale istinto di sopravvivenza che tenta
di ancorarci a questo mondo tramite le cose, e ci spinge all’attac-
camento per assicurare la nostra esistenza, ma ancora più la sua
persistenza.
La questione, in fin dei conti, è quella di un nichilismo che –
proprio perché cosciente dell’inconsistenza dei valori – sceglie di
volere il nulla come ultimo appiglio10.
3. A ciascuno il suo: Wagner, Kant e Schopenhauer
I bersagli espliciti di GM III sono Wagner, Kant e, ovviamen-
te, Schopenhauer. Per guidarci nella sua analisi del significato
degli ideali ascetici, Nietzsche decide di considerare prima di
tutto il valore che ha avuto per Wagner l’adesione, in tarda età,
agli ideali della castità. Adesione che ha coinciso con una con-
fessione pubblica di questa scelta, a uso e consumo del pubblico
adorante.
Nietzsche si interroga sul significato del Parsifal, «quel selva-
tico giovanotto», esempio della spettacolarizzazione del casto
cristianesimo wagneriano; il disprezzo del filosofo è talmente
grande che arriva a domandarsi se non si tratti forse di uno scher-
zo dell’artista Wagner, di una «suprema libertà e trascendenza
d’artista» (GM III 3), perché, se così non fosse, che cosa mai
dovremmo leggere in quest’opera forzatamente cattolicheggian-
te? «(Cosa sarebbe, infatti, il Parsifal inteso sul serio? (…) Un’a-
postasia e una conversione agli ideali cristianamente morbosi e
10 Cfr. Brusotti 2001 e, sulla tipologia del nichilismo, Gillespie 1999.
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160 Federica Negri
oscurantistici?» (ibid.). In questo caso, per lui così vicino e per
molti versi doloroso, che egli definisce come «tipico», Nietzsche
premette che è necessario separare l’artista dalla sua opera, non
farsi ingannare dalla “contiguity” psicologica, portando avanti in
questo modo la critica agli psicologi inglesi con cui aveva inaugu-
rato il libro (cfr. GM I 7). In sintesi, non si può far coincidere in
maniera sbrigativa l’artista con ciò che rappresenta, concepisce
ed esprime: «Il fatto è che se egli fosse tutto questo, non po-
trebbe rappresentarlo, concepirlo, esprimerlo. (…) Un perfetto
e completo artista è staccato per l’eternità dal “reale”, dall’effet-
tuale» (GM III 4).
Sicuramente, Parsifal non è Wagner. Tuttavia, Nietzsche vor-
rebbe che egli non avesse preso congedo dal mondo con quest’o-
pera, «non con un Parsifal, bensì in un modo più vittorioso, più
sicuro di sé, più wagneriano (…) meno schopenhaueriano, meno
nichilistico» (GM III 4). Per Nietzsche, Wagner esemplifica nella
maniera più evidente la falsità dell’ideale ascetico, la doppiezza di
intenti che si nasconde dietro la facciata “rispettabile” della priva-
zione volontaria. La vicenda che lega Nietzsche a Wagner – come
si sa – si sovrappone alla vita intellettuale del primo e la influenza
profondamente; dal giovanile innamoramento e stato di simbiosi,
Nietzsche giunge a un violento rifiuto e distacco, nel periodo in
cui il suo pensiero arriva a maturazione. Si può dire che Wagner
personifichi tutto ciò che Nietzsche non vuole essere, come intel-
lettuale e come artista, soprattutto perché, agli occhi di Nietzsche,
Wagner è il décadent per eccellenza (Campioni 1994).
Nello stesso periodo in cui compone la Genealogia della mo-
rale, Nietzsche sembra voler chiudere i conti con il musicista,
scrivendo un testo infuocato nel quale decostruisce sistemati-
camente il musicista – Il caso Wagner – oltre ad aver previsto
una summa delle sue critiche allo stesso, che uscirà con il titolo
Nietzsche contra Wagner. La prima di queste opere, pubblicata
nella primavera del 1888 – ci aiuta a capire meglio la distanza che
ormai divide i due antichi amici11:
11 In Ecce homo, tuttavia, la valutazione di Wagner non sembra essere così negativa
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Voltare le spalle a Wagner fu per me un destino (…). Una lunga
storia! – Si vuole una parola per designarla? Forse superamento di sé.
(…) Io sono, tanto quanto Wagner, il figlio di questo tempo, voglio dire
un décadent: solo che io ho compreso ciò, mi sono difeso contro di ciò.
(…) Quel che mi ha più profondamente occupato è in realtà il problema
della décadence. (WA, Prefazione)12
Effettivamente, per Nietzsche è importante mettere in luce un
concetto fondamentale, ossia la comune provenienza dal terre-
no di decadenza della contemporaneità europea13. Nietzsche ha
avuto la forza di lottare e contrapporsi a questa malattia, facen-
dosene studioso, al tempo stesso fisiologo, psicologo e medico14,
mentre Wagner resta una malattia contagiosa da cui soprattutto
i giovani dovrebbero guardarsi, dato che costituisce un vero e
proprio «“pervertimento” del gusto» (WA, Poscritto) che ren-
de incapaci di sottrarsi alla seduzione dell’idealismo e alla falsa
chiarezza dei valori. Ciò che Wagner incarna è quindi l’ideale
ascetico come malattia della decadenza.
Qual è, allora, il valore dell’ideale ascetico per l’artista Wa-
gner? Nullo, «o una tale quantità di cose diverse, che è lo stesso
di nulla!» (GM III 5). La scelta di Wagner non sembra dettata
da un convincimento personale o morale, ma – come si è detto –
dalla convenienza; la stessa decisione di abbracciare la filosofia di
Schopenhauer cela, in realtà, l’incapacità di sostenere la propria
come ci si aspetterebbe, Nietzsche scrive: «I Tedeschi sono canaille. (…) Eccettuati i
miei rapporti con alcuni artisti, e innanzitutto con Richard Wagner, non ho mai passato
una buona ora con dei Tedeschi…» (EH, Il caso Wagner 4). Nonostante tutti i difetti di
Wagner, Nietzsche preferisce criticare i Tedeschi, escludendo il musicista in nome di una
vicinanza da artista.
12 Altro campione della décadence descritto come particolarmente vicino e, perciò, in-
quietante, è il Socrate della Nascita della tragedia (cfr. anche EH, La nascita della tragedia 1).
13 Il legame tra la decadenza e il nichilismo è il concetto chiave di una coappartenen-
za che spiega come chi ne fa parte possa essere l’unico in grado di guarire se stesso e gli
altri: «Mettiamo pure da parte il fatto che io sono un décadent: ebbene, ne sono anche
l’antitesi» (EH, Perché sono così saggio 2).
14 Cfr. Rovatti (2012: XII s.): «Noi siamo autorizzati a sovrapporre le tre figure (psi-
cologo, fisiologo, medico) in un ibrido assai personalizzato (…). Trasfigurazione di un
“fare filosofia” progettualmente molto lontano da ogni tradizione professionale attribui-
bile al cosiddetto filosofo».
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convinzione senza l’appoggio di un pensiero autorevole:
[Wagner] si rese improvvisamente conto che con la teoria e la innova-
zione schopenhaueriana c’era da fare qualcosa di più in majorem musicae
gloriam, – cioè con la sovranità della musica, come la intendeva Schopen-
hauer, (…) il musicista crebbe enormemente di valore; diventò ormai un
oracolo, un sacerdote, anzi più di un sacerdote, una specie di portavoce
dell’«in sé» delle cose, un telefono dell’al di là. (…) C’è da stupirsi che
finisse per parlare, un bel giorno, d’ideali ascetici?… (GM III 5)
Il cambio di strada di Wagner è solo il voltafaccia di un con-
sumato conoscitore del pubblico, della fama, di chi insegue
l’approvazione altrui e vive nel riflesso di sé negli occhi degli al-
tri15. L’idea di Nietzsche è che Wagner si appoggi alla filosofia
di Schopenhauer, perché altrimenti non avrebbe mai la forza di
sostenere certe idee; questa scelta si dimostra vincente perché,
aderendo al pensiero del filosofo di Danzica, Wagner è riuscito
a trasformare se stesso in «un telefono dell’al di là» (GM III 5),
una vera e propria divinità. Come discepolo di Schopenhauer,
in GM III Wagner è per Nietzsche soprattutto un elemento di
passaggio, che gli permette di introdurre una questione «più se-
ria: quando un vero filosofo rende omaggio all’ideale ascetico,
uno spirito realmente piantato su se stesso come Schopenhauer,
un uomo e un cavaliere dallo sguardo bronzeo (…) che significa
tutto questo?» (GM III 5). Per quale motivo un filosofo che, evi-
dentemente, gode ancora della stima di Nietzsche, persegue la
via dell’ideale ascetico?
Prima di dedicarsi alla filosofia di Schopenhauer, Nietzsche
chiama però in causa il pensiero di Kant, per metter in luce la
natura fondamentalmente passionale del movente artistico, il suo
essere riaffermazione perentoria di una volontà. L’oggetto del
contendere è l’estetica, proprio perché è l’artista ad identificarsi
con il prete, come l’esempio di Wagner ben esemplifica:
Kant pensava di rendere onore all’arte quando fra i predicati del
15 Per una disamina della complessa “questione” si veda Campioni 1998: 197-219 e
Campioni 2008: 138 ss.
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bello preferì e pose in primo piano quelli che costituiscono l’onore
della conoscenza: impersonalità e validità universale. (…) «Bello – ha
detto Kant – è quel che piace in guisa disinteressata». Disinteressata!
Si confronti questa definizione con quell’altra espressa da uno «spet-
tatore» e artista vero – Stendhal, che chiama il bello une promesse de
bonheur. Qui comunque è rifiutata e cancellata proprio quell’unica cosa
che Kant mette in rilievo nella condizione estetica: le désintéressement.
Chi ha ragione: Kant o Stendhal? (GM III 6)
Kant, quindi, avrebbe commesso un errore di prospettiva fon-
damentale con la definizione del bello come ciò che piace «in
guisa disinteressata», perché questo disinteresse è così irreale
che carica l’esperienza estetica di una falsità irrecuperabile16.
Schopenhauer, d’altro canto, pur dichiarandosi kantiano, carica
la questione di una sfumatura eminentemente sessuale: l’effetto
dell’esperienza estetica sarebbe simile a una droga che distoglie
dall’«“interesse” sessuale» perciò «egli non si è mai stancato di
magnificare questa liberazione dalla “volontà” come la grande
prerogativa e utilità della condizione estetica» (GM III 6).
L’appello di Nietzsche alla separazione tra l’autore e la sua
opera sembra, a questo punto, cedere il passo a un’interpreta-
zione fisiologica del pensiero di Schopenhauer17, dato che egli si
16 Sul complesso rapporto con la filosofia kantiana si veda Marton 2011, articolo ric-
co anche di riferimenti puntuali ad alcuni elementi della numerosa bibliografia sul punto.
17 La compenetrazione tra biografia e pensiero – immediato risvolto della mancanza
di separazione tra mente e corpo – è un fattore essenziale della filosofia di Nietzsche, più
volte riaffermata dallo stesso filosofo come imprescindibile per una corretta interpre-
tazione del suo pensiero (basti pensare alla prefazione della Gaia scienza e al richiamo
all’«esperienza vissuta» propedeutica alla comprensione del libro; FW, Prefazione alla
seconda edizione). Questo elemento mette in pericolo l’immagine dell’algido teoreta e
viene spesso trascurato per la paura, forse, di mettere in crisi un’immagine ideale del filo-
sofo. Tra i primissimi interpreti a tentare una spiegazione di questa pericolosa vicinanza
in Nietzsche troviamo Lou Andreas-Salomé, che nel 1894 pubblicò Friedrich Nietzsche
in seinen Werken, leggendone la filosofia come organicamente connessa alle vicende di
salute e malattia: «Se il compito principale del biografo è quello di far luce sul pensa-
tore attraverso l’uomo, ciò vale in modo particolare per Nietzsche poiché in lui, come
in nessun altro, si è verificata una piena coincidenza tra le sue opere e la sua biografia»
(Andreas-Salomé 2009: 15). Tra gli altri, sarebbe importante ritornare sulle illuminanti
analisi di Sarah Kofman che, in particolare in Explosions I e Explosions II – dosando
sapientemente analisi freudiana e modalità nietzscheana – riesce a penetrare il pensiero
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164 Federica Negri
chiede se «la concezione di fondo della sua “Volontà e rappre-
sentazione” (…) abbia preso origine da una generalizzazione di
codesta esperienza della sessualità. (GM III 6)
A detta di Nietzsche, Schopenhauer dimostra di cercare il bel-
lo per un «interesse fortissimo, personalissimo quant’altri mai:
quello del torturato che si sviticchia dalla sua tortura» (GM III
6). La vera anima dell’ideale ascetico di Schopenhauer è, perciò,
il tentativo di sottrarsi alla volontà di vivere, questo “sviticchiarsi
da una tortura” che, tuttavia, riesce solo a riconfermare con mag-
giore veemenza la volontà stessa.
Il rapporto con i sensi e la sessualità è problematico gene-
ralmente per i filosofi, non solo per Schopenhauer. Esiste un
pregiudizio del filosofo a favore dell’ascetismo sembra fornire
modalità certe per giungere alla realizzazione di sé, come «un
optimum delle condizioni di suprema e arditissima spiritualità – e
con ciò non nega “l’esistenza”, sibbene afferma in essa la sua esi-
stenza e unicamente la sua esistenza, e questo forse sino al punto
da non restargli lontano l’empio desiderio: pereat mundus, fiat
philosophia, fiat philosophus, fiam!…» (GM III 7).
Nietzsche pensa che i filosofi che si affidano all’ascetismo,
sperando di divenire animali alati, si sbaglino grossolanamente:
la loro scelta non può condurli a un reale distacco, poiché non
ha nulla a che fare con la “cosa in sé”, ma riguarda solo le loro
personali necessità. Non c’è nessuna virtù, il vero movente è il
filosofo stesso («pereat mundus (…) fiat philosophus»), o meglio,
la sua incapacità di stare al mondo per la quale egli sceglie di
cancellare il mondo stesso. I filosofi che predicano l’ascetismo
sono lontanissimi dalla virtù, ma impegnati a rimanere in quel-
le che pensano essere le migliori condizioni di esistenza; per far
questo, sono pronti a piegare il resto del mondo alla loro estrema
volontà.
del filosofo partendo dal fulcro inquietante di Ecce homo. Questa modalità è in grado
di evidenziare, nella filosofia di Nietzsche, il lato più attuale – dato che ci proietta in un
contesto di consapevolezza sull’inconscio – e quello più antico – dato che fa emergere la
profonda consonanza con il modello greco antico di filosofia come “esercizio” e “pratica
di vita” (Hadot 2005: 155 ss. Cfr. anche Hadot 1998: 219 ss.).
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4. L’orecchio del filosofo
Nella contrapposizione che Nietzsche istituisce tra i “dotti”18
e gli “spiriti forti”, possiamo individuare una possibilità di chia-
rimento sul tipo di filosofo a cui Nietzsche si sente vicino: egli
rifugge il chiasso, è lontano da ogni attualità19. Il tono della sua
voce è rivelativo: chi è sicuro di sé, infatti, «parla basso; cerca
la riservatezza, si fa aspettare. Si riconosce un filosofo dal suo
rifuggire tre cose abbaglianti e chiassose: la gloria, i principi e
le donne» (GM III 8). La voce rivela e l’ascolto attento coglie il
vero senso20.
Come spesso accade, Nietzsche nasconde mettendo in eviden-
za: il sottolineare la dimensione acustica, la necessità di ascoltare,
rimanda direttamente all’unica possibilità di far filosofia diver-
samente all’interno di un contesto pesantemente ipotecato dalla
metafisica tradizionale. Il pensiero deve farsi canto, la scrittura
deve farsi poesia per potersi svincolare dalla dialettica dicoto-
mica. Zarathustra era stato il tentativo di Nietzsche di far sentire
questo nuovo pensiero; non essendo stato ascoltato, il filosofo si
trova costretto a tornare a fare patti con le modalità più quoti-
diane del pensiero. Lo stile è diventato ormai «grande stile»21,
l’aforisma era stato solo il primo passo per portare a questo ri-
sultato22.
18 Cfr. Za, Dei dotti. Si veda anche JGB 211, dove negli «operai della filosofia» pos-
siamo leggere una figura ancora distante dal «vero filosofo» che non è solo critico, ma
creativo e sperimentatore, imprudente e giocatore (JGB 205).
19 Il filosofo di cui si tratteggia la possibilità è il «vero filosofo» (JGB 205). Stimolante
l’articolo di Babette Babich (2000), anche se non direttamente sulla questione della Ge-
nealogia.
20 Questo richiamo alla dimensione uditiva è estremamente importante per com-
prendere Nietzsche: non si tratta mai, infatti, solo di leggere, ma bisogna ascoltare, “sen-
tire”, “intendere” e aprirsi alla tonalità di un pensiero inaudito.
21 Kofman (1993: 44) osserva che «Lo stile, e soprattutto quello di Nietzsche, deve
perciò esser pensato allo stesso modo al plurale. (…) Lo stile è pensato qui con riferimen-
to alla musica». Per un approfondimento su questo complesso tema si veda anche, tra gli
altri, Crawford 1991: 210-237; Derrida 1991; Derrida 1993; Cacciari 1975-1976: 464-492.
Cfr. anche EH, Perché scrivo libri così buoni 4.
22 Secondo la Kofman (1972: 167), «l’aforisma con la sua brevità, la sua densità, invi-
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Il vero filosofo deve possedere questo istinto corporeo del rit-
mo che gli consente di pensare danzando23, ossia con destrezza
e creatività24. La sua diversità lo rende spirito «materno», che
sceglie naturalmente l’astinenza per preservare la propria crea-
tura, «esonerato dal dover pensare a sé» (GM III 8). Il termine
«materno» sottolinea tutta la distanza dall’ideale socratico: il fi-
losofo non è più l’ostetrico delle idee altrui, ma le mette al mon-
do lui stesso, non rinnegando così la componente corporea del
pensiero, fondamentale in ogni idea ben riuscita. Il filosofo vero
è gravido delle proprie idee, le cresce in sé e le partorisce con
tutto il dolore che questo comporta. A guidarlo è la necessità,
non certo la virtù; è l’intelligenza del corpo a fargli scegliere la
cosa migliore da fare e quella alla quale rinunciare. Non c’è una
scelta utile alla base dell’astinenza, ma «è invece proprio il loro
istinto “materno” ciò che qui, a vantaggio dell’opera in gestazio-
ne, spregiudicatamente dispone di tutte le altre riserve e risorse
di forza, di vigore della vita animale: la forza più grande utilizza
allora quella più piccola» (GM III 8).
5. Ascesi e digiuno come strumento di potere
L’astinenza come estinzione camuffata della sensualità è solo
una trasfigurazione dello stimolo sessuale ed implica una riaffer-
ta a danzare: è la scrittura stessa della volontà di potenza, affermatrice, leggera, innocen-
te. Scrittura che cancella l’opposizione di gioco e serietà, di superficie e della profondità
della forma e del contenuto, del divertimento e del lavoro».
23 «Solo nella danza io so parlare i simboli delle cose più alte» (Za, Il canto dei se-
polcri), ma anche: «Potrei credere solo a un dio che sapesse danzare» (Za, Del leggere e
scrivere). La danza, come espressione corporea della capacità di volere senza attaccamen-
to al fine, in maniera innocente, è ampiamente presente nello Zarathustra, spesso come
elemento carismatico e seduttivo legato al femminile. Cfr. per esempio Za, Di antiche
tavole e nuove: «Così io voglio l’uomo e la donna: l’uno prode in guerra e l’altra valida nel
generare figli, ambedue però bravi danzatori nella testa e nelle gambe. E perduto sia per
noi quel giorno, in cui non si sia danzato almeno una volta! E falsa sia per noi ogni verità,
che non sia stata accompagnata da una risata». Cfr. anche Negri 2011: 75-105.
24 Cfr. la chiusa di JGB 211: «Il loro “conoscere” è creare, il loro creare è una legisla-
zione, la loro volontà di verità è – volontà di potenza».
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mazione della volontà di vivere e riprodursi. I brahmani, con-
templativi per eccellenza, hanno saputo edificare il proprio po-
tere su questo tipo di astinenza rendendola il senso della propria
esistenza (GM III 10).
Nietzsche richiama il brahmanesimo, il buddhismo o l’indui-
smo, come esempi della più raffinata soluzione della volontà di
primeggiare sugli altri e di imposizione della propria morale; tutte
queste forme sono strettamente legate alla volontà del nulla che
caratterizza le forme dell’idealismo ascetico, una «volontà vivente
di contraddizione e di contronatura» che, «come fecero gli asceti
della filosofia Vedanta, [degrada] la corporeità a illusione, e si-
milmente il dolore, la molteplicità, l’intera antitesi concettuale
“soggetto” e “oggetto” – errori, null’altro che errori!» (GM III
12). I riferimenti sono molteplici all’interno della Genealogia, ma,
in definitiva, si può concordare sul fatto che si tratta di soluzioni
che, seppur raffinate dal punto di vista dell’interpretazione, sono
legate ad un nichilismo retrivo, che condanna la potenza vitale25.
Come gli antichi brahmani, i filosofi hanno dovuto travestirsi,
hanno dovuto assumere la maschera del già conosciuto per esse-
re accettati: perciò, l’atteggiamento (il vivere appartato o la nega-
zione del mondo) ha finito per acquisire validità in sé e diventare
25 Un’analisi puntuale della lettura del pensiero indiano da parte di Nietzsche è stata
recentemente compiuta da Emanuela Magno, che sottolinea: «L’ideale ascetico (di cui la
religione del Buddha è testimone esemplare), con il suo portato di rinuncia e di potente
volontà negatrice del mondo, e come “senso” offerto all’assurdità della sofferenza, pre-
senta, per Nietzsche, un solido nesso con lo spirito e l’atteggiamento filosofico che da sem-
pre deriva il valore delle sue metafisiche, della sua “volontà di verità”, da una sotterranea
“avversione alla vita” di cui l’ideale ascetico incarna la forma spiritualizzata» (Magno
2012: 167). Il buddhismo conserva, dunque, la doppia funzione di termine positivo, nei
confronti del cristianesimo, e di termine negativo, in quanto, nonostante la raffinatez-
za della sua analisi, non è riuscito a uscire da un nichilismo passivo: «Per Nietzsche, il
buddhismo ancora testimonia, nonostante la lucidità del suo esame conoscitivo e i suoi ri-
sultati di condotta – che hanno determinato un’“altra” e più alta morale rispetto a quella
della filiazione cristiana –, una forma “passiva” di nichilismo, una forma, dunque, ancora,
priva di quella forza propulsiva e dirompente in grado di sovvertire l’ordine, i codici, le
gerarchie dei valori teorici ed etici annunciata dalla “filosofia nietzscheana”, che alla crisi
europea risponde con la potenzialità straripante di un nichilismo della forza, in grado di
ricreare l’uomo dalle sue stesse ceneri, di divinizzare la sua più intima natura: di contro
all’essere della metafisica e di Dio, la potenza abissale dell’evento, il divenire» (ibid., 169).
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cifra di una vita filosofica. In definitiva, scrive Nietzsche,
lo spirito filosofico ha sempre dovuto innanzitutto travestirsi e ma-
scherarsi nei tipi anteriormente stabiliti dell’uomo contemplativo (…).
L’ideale ascetico è servito al filosofo come forma fenomenica, (…) costui
(…) dovette credere in esso per poterlo rappresentare. Il prete ascetico
ha costituito (…) la forma larvale sotto la quale soltanto la filosofia ebbe
diritto di vivere. (GM III 10)
Se, quindi, abbiamo compreso questa funzione storica dell’i-
deale, è venuto il momento di porsi la domanda più importante,
ossia se è veramente venuto il tempo per il nuovo “filosofo”. È
necessario interrogare il valore dell’ideale ascetico proprio ora
che la funzione del prete asceta è svelata: egli, infatti, ha fede
in quell’ideale e ne fa la sua potenza. Il filosofo coincide con il
prete asceta quando crede nell’ideale di cui si è rivestito, e si
smarrisce nell’affermazione della propria volontà di comandare
il mondo. Egli ha la necessità di raccogliere adepti proponendo
il miraggio di un mondo vero, puro e perfetto: «L’asceta tratta
la vita come un cammino sbagliato, (…) come un errore che si
confuta – si deve confutare, mediante l’azione: giacché costui esi-
ge che si proceda insieme a lui, impone a forza, dove può, la sua
valutazione dell’esistenza» (GM III 11). Egli ha bisogno di essere
creduto e seguito.
L’indagine di Nietzsche, che diviene fisiologica (GM III 11), si
concentra sul prete asceta per rivelare l’unitaria matrice religiosa
del problema: questa figura, infatti, rivela la lacerante contraddi-
zione vitale del ressentiment, una rabbia contro il mondo in cui è
la vita stessa a essere l’odiato bersaglio dell’asceta, e, soprattutto,
i suoi segni, come la prosperità fisiologica, la gioia e la bellezza:
Una vita ascetica è infatti un’autocontraddizione: domina qui un res-
sentiment senza eguali, quello di un insaziato istinto e una volontà di
potenza che vorrebbe signoreggiare non su qualcosa della vita, ma sulla
vita stessa. (…) Tutto ciò è paradossale in sommo grado: ci troviamo di
fronte a una disarmonicità che vuole se stessa disarmonica, che di se
stessa gode in questa sofferenza. (GM III 11)
Non riuscendo a vivere, l’asceta condanna la vita come male;
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“Faute de mieux” par excellence 169
l’unica dimensione possibile dell’essere viene ricercata nel nulla.
Ogni filosofia che parta da questa premessa non può che essere
una volontà del nulla, «un tentativo di impiegare la forza per
ostruire le sorgenti della forza» (GM III 11), una radicale di-
struzione di qualsiasi possibilità di ragionare e di raggiungere la
verità della vita nella sua impermanenza e mancanza di senso.
Contro questa deriva della volontà dell’ideale ascetico di
“correggere” lo sguardo e costituire uno sguardo «puro, senza
volontà, senza dolore», che può solo restituire un concetto im-
maginario del reale, Nietzsche contrappone una diversa moda-
lità di filosofare, un «vedere prospettico, (…) un “conoscere”
prospettico»26, che renda conto delle «forze attive e interpreta-
tive» che caratterizzano la complessità del mondo (GM III 12).
Questo sguardo prospettico è uno sguardo di “occhi” e di “affet-
ti”, che riammette a pieno titolo la dimensione materiale dell’esi-
stenza. Si tratta della filosofia degna della «grande ragione» (Za,
Dei dispregiatori del corpo).
Lo sguardo esente da ogni traccia di sensualità dell’ideale
ascetico è, infatti, solo un mito costruito dalla filosofia per eleva-
re il pensiero all’immobilità, per tentare di dargli una forma pe-
renne che lo sottragga all’oblio. Se questa astrazione funzionale
viene “dimenticata”, la filosofia diventa un elemento di squalifi-
cazione totale della realtà fluida e sfuggente della vita. La desen-
sualizzazione della ragione crea pertanto un vuoto incolmabile
nello sguardo, privandolo di se stesso – dato che sempre siamo
carne vivente – e sostituendo a esso uno sguardo artificiale, «di
sorvolo»27, che perde la possibilità di farsi carico di quell’occhio
che è e sempre sarà il punto cieco della visione, il suo punto
26 Sul prospettivismo come fulcro della possibilità di superare l’idea metafisica di ve-
rità unica, si vedano Gori 2011; Stellino 2011; Cfr. anche Gori 2010 e Ibáñez-Noé 1999.
Su prospettivismo e ascetismo in GM III 12 si veda infine il contributo di Carlo Gentili
al presente volume.
27 Faccio riferimento alla definizione di Merleau-Ponty, “pensiero di sorvolo”, che
egli usa ne L’occhio e lo spirito a proposito dello sguardo che si pretende esente dall’essere
“carne del mondo”, ad esempio quello della scienza e di molta filosofia (cfr. Merleau-
Ponty 1989: 15). Sulla possibilità di intendere Nietzsche come un proto-fenomenologo,
cfr. Daigle 2011.
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morto. Un tale ideale non può quindi funzionare, non conduce
lontano; come ci insegna il fisiologo, infatti, ogni nostro “con-
cetto” altro non è che una sintesi di sconosciuti e molteplici ap-
porti percettivi, sensoriali o reattivi.28 L’intelligere funziona solo
ed esclusivamente grazie alle passioni, o meglio ancora, grazie a
pulsioni di cui – spesso – non siamo neppure consapevoli (FW
333). L’ideale ascetico non è però una lotta con la morte, per la
morte; in esso Nietzsche vede piuttosto uno «stratagemma nella
conservazione della vita» (GM III 13), un tentativo di imporre
un’altra modalità di vita escludendo tutte le altre, per paura.
L’ideale ascetico scaturisce dall’istinto di protezione e di salute di una
vita degenerante, che cerca con tutti i mezzi di conservarsi e lotta per la
sua esistenza. (…) La vita lotta in esso e attraverso di esso con la morte e
contro la morte, l’ideale ascetico è uno stratagemma nella conservazione
della vita. (GM III 13)
Il prete asceta è, di fatto, «il desiderio, fatto carne, di un esse-
re-in-altro-mondo, di un essere-in-altro-luogo, e invero il grado
supremo di questo desiderio, il suo caratteristico ardore e la sua
passione: ma appunto la potenza del suo desiderare è il ceppo
che lo inchioda qui» (GM III 13). Non solo il prete asceta è in-
chiodato a questa esistenza, ma escogita raffinate modalità per
mantenere nella stessa situazione le schiere di «falliti, di malcon-
tenti, di malriusciti, di sciagurati, di sofferenti di sé». Coloro che
non vogliono essere se stessi vengono convinti a rimanere tali,
perché così riconfermano il prete asceta nella sua funzione e nel
suo potere; egli infatti è «pastore e difensore del gregge malato:
solo così comprendiamo la sua missione storica. Il dominio sui
sofferenti è il suo regno, a esso lo rinvia il suo istinto, in esso
possiede la sua vera arte, la sua maestria, la sua specie di felicità»
(GM III 15). L’effetto di questo movimento perverso è la nausea
e la compassione di fronte all’uomo, e il suo più nefasto prodotto
è il nichilismo (evidentemente passivo e deteriore).
28 Cfr. su questo Lupo 2006.
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“Faute de mieux” par excellence 171
6. Ressentiment e peccato, le catene del prete-filosofo
Il prete, pur malato della stessa debolezza codarda e ripugnan-
te del suo “gregge”, ha la capacità di dominare gli altri; egli ha
capito che è necessario rendere sempre più malato e sofferente il
gregge, per padroneggiarlo. Con arte sopraffina, egli sa pertanto
indirizzare il ressentiment29.
Il prete è il modificatore di direzione del ressentiment. Ogni sofferen-
te, infatti, cerca istintivamente una causa del proprio dolore, (…) un
autore responsabile, sensibile alla sofferenza – insomma un qualsivoglia
essere vivente su cui, con un qualche pretesto, possa scaricare di fatto o
in effigie le sue passioni; poiché lo sgravarsi delle passioni è il massimo
tentativo di sollievo, cioè di stordimento da parte del sofferente, il suo
narcotico involontariamente desiderato contro ogni sorta di tormento.
(GM III 15)
Ogni malato cerca un capro espiatorio, una causa, per dare un
senso alla propria sofferenza, ed ecco che il prete esegue il suo
capolavoro: convince il malato che l’origine di ogni tormento è
lui stesso, inventando la colpa. La mossa è sicuramente ardita,
completamente falso il contenuto; però funziona, e la direzione
del ressentiment è cambiata in modo tale da rinsaldare ancora
più il potere del prete asceta, che diviene l’unica àncora di sal-
vezza da se stessi. A questo punto, Il prete mette in campo una
serie di raffinate tecniche per organizzare e mantenere il potere
sull’armento; tra questi, l’amore del prossimo svela la vera natura
del movimento ascetico come espressione della volontà di poten-
za, proprio perché è dominio sull’altro.
Prescrivendo «amore per il prossimo», il prete asceta prescrive in
fondo un’eccitazione dell’istinto più forte e maggiormente affermatore
di vita, anche se dosato con la massima cautela – la volontà di potenza.
La gioia della «più piccola superiorità», implicita in ogni beneficare,
avvantaggiare, trattare con distinzione, è il più abbondante mezzo di
conforto di cui sono soliti servirsi i fisiologicamente inibiti. (GM III 18)
29 Sulla astuta doppiezza del prete asceta – pur con altra impostazione – cfr. Orsucci
2001: 128-142.
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Il capolavoro della perversione del prete asceta è il fatto di es-
sere riuscito a rendere il malato totalmente dipendente dal senso
di colpa, tramutandolo in «peccatore»30, grazie ad una interpre-
tazione distorta della vita.
L’uomo che in qualche modo (…) soffre di se stesso, senza sapere
perché, a che pro, desideroso di ragioni, (…) finisce per consigliarsi
con qualcuno che sa anche le cose occulte – ed ecco, riceve un avverti-
mento, riceve dal suo mago, il prete asceta, il primo avvertimento sulla
«cagione» del suo soffrire: deve cercarla in se stesso, in una colpa, in un
frammento di passato, deve comprendere la sua stessa sofferenza come
una condizione di castigo… (GM III 20)
Il peccatore è chiuso in un circolo vizioso, come una «gallina
intorno alla quale sia tracciata una linea» (GM III 20). L’ideale
ascetico ha distorto l’intera storia europea: non ne sono esenti,
infatti, né la scienza né gli idealisti, gli ultimi contemplativi che
pensano, a torto, di trovarsi lontani dalle posizioni del prete asce-
ta; l’errore comune a tutti è la «fede nello stesso ideale ascetico,
la fede in un valore metafisico, in un valore in sé della verità»31.
La scienza, da molti indicata come antagonista dell’ascetismo, è
in realtà nutrita dallo stesso errore, ossia dalla fede incrollabile
nell’esistenza di una verità assoluta, convinzione che non si di-
scosta molto dalla volontà di verità del prete asceta. Neppure la
scienza tocca quindi la radice del problema, cioè il fatto che il
rapporto dell’uomo con il mondo (e con se stesso) sia animato
da una fondamentale esigenza di ricercare la “verità”; neppure
lei, infatti, mette in dubbio il fatto che ci sia bisogno di una verità
per vivere. La scienza, perciò, non riesce a essere una vera al-
ternativa rispetto alla religione, ma ne rappresenta una possibile
declinazione.
La scienza stessa esige ormai una giustificazione (…). Non esiste,
giudicando rigorosamente, alcuna scienza «priva di presupposti», il
30 Un interessante confronto tra questa figura specifica di GM e la filosofia del Fou-
cault della Storia della sessualità, si trova in Konoval 2013.
31 Per un approfondimento su questo tema, cfr. i contributi di Helmut Heit e Pietro
Gori al presente volume.
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pensiero di una scienza siffatta è impensabile, paralogico: una filosofia,
una «fede» deve sempre preesistere, affinché la scienza derivi da essa
una direzione, un senso, un limite, un metodo, un diritto all’esistenza
(GM III 24).
Per Nietzsche, è necessario andare oltre e mettere in dubbio
il valore della verità, la sua necessità, la sua stessa esistenza. Chi
mai potrà porre un interrogativo come questo, se gli scienziati
e i filosofi attuali sono incapaci di vedere il problema, dato che
sono incollati ad esso? Potranno forse farlo gli “uomini della co-
noscenza” che, ben conoscendo il valore consolatorio della fede,
ne disconoscono il valore veritativo, dato che «una fede vigorosa,
che rende beati è un sospetto verso ciò di cui essa è fede, non
fonda “verità”, fonda una certa verosimiglianza – dell’illusione»
(GM III 24)?
Gli “uomini della conoscenza” possono essere gli unici in gra-
do di farlo perché hanno «un sé bramoso di tutto che vorrebbe
vedere attraverso molti individui come attraverso i suoi stessi oc-
chi e mercè loro vorrebbe afferrare come con le sue stesse mani»
(FW 249). Il prospettivismo è il loro naturale atteggiamento.
7. «Noi, uomini della conoscenza»
Gli «uomini della conoscenza» – a cui Nietzsche si associa –
non vogliono proporre alcun contro-valore da ostentare perché
non sono fautori di una rinnovata metafisica, ma sono coloro che
sanno interpretare e sciogliere l’incanto della “verità” ad ogni co-
sto, mostrandone il fondo oscuro. Sanno rinunciare all’obbligo
della verità, possono accettare che non ve ne sia una. Non si di-
mentichi la Prefazione della Genealogia:
Siamo ignoti a noi medesimi, noi uomini della conoscenza, noi stessi
a noi stessi: è questo un fatto che ha le sue buone ragioni. Non abbiamo
mai cercato noi stessi – come potrebbe mai accadere che ci si possa, un
bel giorno, trovare? (GM, Prefazione 1)
Per quale motivo essi rimangono sconosciuti a loro stessi?
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Forse perché sanno di non dover cercare nessuna conoscenza
assoluta, che implicherebbe la fede in un’essenza, in una verità
ultima dell’esistenza, che è impossibile da pensare32. Questi uo-
mini non hanno cercato di svelare il mistero della vita, perché
sanno che non c’è nulla da svelare sotto l’apparenza del fenome-
no; proprio per questo non sono impauriti, ma traggono da ciò
un senso di libertà. La parvenza di cui i «temerari dello spirito»
(FW, Prefazione alla seconda edizione 4)33 si nutrono è la vita
liberata dall’ideale, dalla ricerca insensata di un “senso” di ciò
che chiamiamo “io”, che è solo un nome per indicare una molte-
plicità complessa di atti del nostro corpo che rimangono ineso-
rabilmente sconosciuti34. Come gli antichi Greci, conoscitori di
Baubo35, essi sanno vivere rimanendo alla superficie, dove si cela
la vera profondità, hanno «la coscienza della parvenza»36.
32 Patrick Wotling (2008) si domanda come si giustifichi «prima di tutto l’identifi-
cazione della filosofia con la ricerca della verità. (…) Nessun filosofo ha domandato per-
ché bisognerebbe preferire la verità all’errore, o all’ignoranza; neppure se fosse legittimo
operare una tale separazione dualista tra verità ed errore, apparenza, illusione: la cosa
sembrava, in qualche modo, andare da sé».
33 Il «vero filosofo (…) vive in guisa “non filosofica” e “non saggia”, soprattutto
imprudente» (JGB 205).
34 «L’unità dell’io è quella di un complexus ed è solo attraverso una illusione meta-
fisica che gli si accorda l’unità ideale e fittizia del punto matematico. Essa consiste non
nell’atto di una “essenza” pretesa semplice, ma in una coordinazione di centri nervosi che
rappresentano loro stessi una coordinazione delle funzioni dell’organismo» (Campioni
1998: 236).
35 Sull’importanza fondamentale del richiamo a Baubo ha scritto Sarah Kofman, sve-
lando in maniera inequivocabile il legame essenzialmente ambiguo tra Baubo, Dioniso e
il femminile negato dalla filosofia: «La figura di Baubo significa che una logica semplice
non saprebbe capire la vita che non è né profondità né superficie, che dietro il velo c’è
un altro velo, e dietro uno strato di pittura ce n’è un’altra; [Baubo] significa anche che
l’apparenza non deve suscitare né scetticismo né pessimismo, ma il riso affermatore di un
vivente che sa che, malgrado la morte, la vita può ritornare indefinitamente. (…) Baubo e
Dioniso sarebbero quindi due dei molteplici nomi della vita proteiforme. Contrariamente
a Baubo, tuttavia, Dioniso è nudo. Nudità che non significa rivelazione di una verità, ma
affermazione senza velo dell’apparenza» (Kofman 1986: 255-257).
36 Cfr. FW 54: «Parvenza è per me proprio ciò che opera e vive, che si spinge tanto
lontano nella sua autoderisione da farmi sentire che qui tutto è parvenza e fuoco fatuo e
danza di spiriti e niente più – che tra tutti questi sognatori anch’io, l’“uomo della cono-
scenza”, danzo la mia danza».
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Non crediamo più che la verità resti ancora verità, se le si tolgono
i veli di dosso; abbiamo vissuto abbastanza per credere in questo. (…)
Forse la verità è donna. (…) Forse il suo nome, per dirla in greco, è
Baubo?… Oh questi Greci! Loro sì sapevano vivere; per vivere occor-
re arrestarsi animosamente alla superficie, all’increspatura, alla pelle,
adorare la parvenza, credere a forme, suoni, parole, all’intero Olimpo
della parvenza! (FW, Prefazione alla seconda edizione 4)
Il dionisiaco, evocato dalla figura di Baubo, simbolizza le ca-
ratteristiche del nichilista attivo, in grado di giocare il mondo
secondo la dinamica dell’eterno ritorno, senza paura. Nietzsche
sa che anche gli «uomini della conoscenza» – i filosofi non ide-
alisti e antimetafisici – non sono totalmente indipendenti dai
presupposti metafisici, anche solo per il fatto che la loro stessa
consapevolezza filosofica è nata della metafisica37.
Questa consapevolezza è il fondamento della diffidenza che
contraddistingue gli «uomini della conoscenza», che sono co-
stantemente alla ricerca di interpretazioni che mettano in scacco
l’assolutezza del principio, della “verità ad ogni costo”. Essi si
sanno interni a una tradizione da cui scaturisce la domanda sulla
volontà di verità (GM III 27) e affrontano coraggiosamente il
crollo della metafisica fronteggiando la dimensione nichilistica
dell’esistenza; questo li rende, però, in grado di danzare sulle ma-
cerie e di immaginare un’alternativa all’immobilismo pretesco,
forse grazie all’accettazione della naturale «legge della vita, legge
del necessario “autosuperamento” nell’essenza della vita» (ibid.).
In questo modo, figli della stessa morale cristiana, essi possono
affrontare alla radice il problema della volontà di verità38.
Che senso avrebbe tutto il nostro essere, se non quello espresso dal
fatto che in noi codesta volontà di verità sarebbe diventata cosciente a se
37 Cfr. FW 344, citato in GM III 24: «È pur sempre una fede metafisica quella su cui
riposa la nostra fede nella scienza – che anche noi, uomini della conoscenza di oggi, noi
atei e antimetafisici, continuiamo a prendere anche il nostro fuoco dall’incendio che una
fede millenaria ha acceso, quella fede cristiana che era anche la fede di Platone, per cui
Dio è verità e la verità è divina…».
38 Per un’analisi di tale questione si rimanda ancora al contributo di Pietro Gori al
presente volume.
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stessa come problema?… Per questa progressiva autocoscienza della vo-
lontà di verità, a partire da questo momento – non v’è alcun dubbio – va
crollando la morale: un grande spettacolo in cento atti, che viene riserva-
to ai due prossimi secoli europei, il più tremendo, il più problematico e
forse anche il più ricco di speranza tra tutti gli spettacoli… (GM III 27)
Prendere coscienza del problema è indispensabile per salvarsi
dalla cecità dell’ideale ascetico che, nelle sue molteplici forme
si insinua nella nostra vita, distruggendola e avvelenandola con
il sospetto, rendendola indesiderabile con il peso del peccato e
della colpa. Sicuramente, quello che si può contrapporre non è
una volontà di sostituzione dell’ideale, ma – come abbiamo vi-
sto – la necessità di continua analisi e demistificazione nell’ottica
del prospettivismo, che permetta di mettere in luce l’inconsisten-
za del vicolo cieco nel quale l’umanità sembra chiusa. Solo chi
non riesce a vedere l’inutilità della ricerca di una “verità”, di un
senso, pensa che la mancanza di quest’ultimo sia un problema
invalicabile.
La natura dell’uomo lo conduce alla ricerca di una consola-
zione, di una spiegazione o di un colpevole, perché l’amor fati è
intollerabilmente leggero. Pochi uomini, in realtà, hanno la forza
di accettare questa inutilità del fine.
L’assurdità della sofferenza, non la sofferenza, è stata la maledizione
che fino a oggi è dilagata su tutta l’umanità – e l’ideale ascetico offrì a
essa un senso! È stato fino a oggi l’unico senso; un qualsiasi senso è
meglio che nessun senso; l’ideale ascetico è stato sotto ogni aspetto il
“faute de mieux” par excellence che sia mai esistito sino a ora. In esso la
sofferenza venne interpretata; l’enorme vuoto parve colmato; si chiuse
la porta dinanzi a ogni nichilismo suicida. (GM III 28)
L’ideale ascetico continua a essere scelto perché è un’interpre-
tazione che offre un senso alla sofferenza – un’interpretazione
che ha però la colpa di volersi unica e assoluta. Nonostante il
dolore che provoca e le rinunce che impone, essa continua inol-
tre a riaffermare un volere, anche se nella sua forma più infelice e
nichilista. L’uomo della conoscenza sa e può non fermarsi a una
interpretazione, intende il mondo prospetticamente e, in questo
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modo, distrugge senza posa il castello di dogmi e illusioni del
prete-filosofo asceta.
La posizione di Nietzsche, che era apparsa chiara sin dall’i-
nizio della terza dissertazione, coincide, a mio parere, in modo
discorsivo con l’orizzonte di un’umanità a venire e dello zarathu-
striano Übermensch: non imposizione, ma possibilità di un altro
modo di essere, un vero ribaltamento interno dell’edificio meta-
fisico che, facendo emergere le aporie della filosofia, sia in grado
di riconquistare senza paura il non detto che la struttura segre-
tamente. La vita, a lungo negata e condannata, è il “convitato di
pietra” della metafisica occidentale, che ne struttura la storia con
la sua assenza; solo riammettendola a pieno titolo nel pensiero,
accettandone la multiforme impermanenza, si avrà l’opportunità
di uscire da un nichilismo distruttivo che, non riuscendo ad ac-
cettare il cambiamento, lo condanna contrapponendo principi e
valori eterni e inamovibili.
Non a caso, infatti, questa è la prospettiva celebre nota com-
posta da Nietzsche a Lenzer-Heide il 10 giugno 1887, a poche
settimane dall’inizio della stesura della Genealogia39:
Quali uomini si riveleranno allora i più forti? I più moderati, quelli
che non hanno bisogno di articoli di fede estremi, quelli che non solo
ammettono, ma amano una buona parte di caso, di assurdità, quelli
che sanno pensare all’uomo con una notevole riduzione del suo valore,
senza per questo diventare piccoli e deboli: i più ricchi di salute, quelli
che sono all’altezza della maggior parte delle disgrazie, e che quindi
non hanno tanta paura delle disgrazie – gli uomini che sono sicuri della
loro potenza, e che rappresentano con consapevole orgoglio la forza rag-
giunta dall’uomo. (NF 1886-87, 5[71])
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Sull’utilità e il danno dell’ideale
ascetico per la filosofia
Ascesi e askesis in GM III
Giovanni Gurisatti
1. Il “tipo umano” Schopenhauer per Nietzsche
In un discorso tenuto al Nietzsche-Archiv di Weimar il 15
ottobre 1924, in occasione dell’80° anniversario della nascita
di Nietzsche, intitolato Nietzsche und sein Jahrhundert, Oswald
Spengler esalta la capacità fisiognomica del filosofo di vedere la
storia, penetrando con lo sguardo nell’anima di tempi, popoli
e civiltà, esattamente come nel caso dei singoli individui (cfr.
Spengler 1924/1937: 116-119). Questa peculiare psicologia del-
le epoche – valga per tutte quella dell’epoca tragica sviluppata
nella Nascita della tragedia – implica l’individuazione di “tipi
umani” in grado di esprimere in modo concentrato, come mo-
nadi leibniziane, un intero universo storico.
Come nella Nascita della tragedia massima importanza viene at-
tribuita al tipo umano “Socrate”, «il tipo di una forma di esistenza
prima di lui mai esistita, il tipo dell’uomo teoretico» (GT 15) – tipo
razionalistico, ottimistico, etico, dialettico, opposto al tipo tragico,
artistico, estetico, dionisiaco –, così nella Genealogia della morale
massima importanza riveste il tipo umano “Schopenhauer”, iden-
tificato con il tipo umano del “prete ascetico” (o “prete asceta”),
emblema monadologico di un’epoca decadente caratterizzata dal-
la rinuncia a tutto ciò che è vitale, vigoroso, sano, affermativo. Pri-
gioniero del suo ressentiment, il prete asceta, lungo un percorso
di successive negazioni che, alla fine, sfociano nella stanchezza,
nel tedio di se stessi e nella volontà rancorosa del nulla, prova, al
tempo stesso, grande nausea e grande compassione per l’uomo,
ponendosi così come «il naturale avversario, nonché spregiatore,
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182 Giovanni Gurisatti
di ogni rude, tempestosa, sfrenata, aspra, brutalmente rapace salu-
te e possanza» (GM III 15). Come il tipo dell’uomo teoretico della
Nascita della tragedia si oppone all’esuberanza poietico-creativa
del dionisaco, così il tipo del prete asceta della Genealogia «muove
guerra» agli «animali da preda», ovvero alla «magnifica divagante
bionda bestia, avida di preda e di vittoria» (GM I 11), protagonista
della prima dissertazione del testo1.
In entrambi i casi è il tipo Schopenhauer a essere nel mirino
di Nietzsche: nella prefazione del 1886 alla terza edizione della
Nascita della tragedia (il celebre Tentativo di autocritica) l’anti-
Dioniso Schopenhauer, in ciò erede tanto del platonismo so-
cratico quanto dell’ascetismo cristiano (cfr. EH, La nascita della
tragedia 2), è simbolo di pessimismo, rassegnazione, ostilità alla
vita, ascesi quietista («un’aspirazione al nulla, alla fine, al ripo-
so», GT Tentativo di autocritica 5); allo stesso modo, nella quasi
coeva (1887) prefazione alla Genealogia, al nome di Schopen-
hauer sono collegati gli ideali ascetico-morali dell’autonegazione,
dell’autosacrificio, della compassione (cristiana e buddhista), in-
tesi come malattie della cultura europea. È quindi contro il tipo
Schopenhauer-prete asceta che la Genealogia viene scritta, e ciò
sembra non lasciare dubbi circa il giudizio di Nietzsche riguardo
l’utilità o il danno dell’“ideale ascetico” per la vita e la filoso-
fia: esclusivamente dannosa sarebbe l’ascesi poiché – come nel
caso della storia malamente intesa della Seconda inattuale – essa
sarebbe nient’altro che l’espressione schopenhaueriana di «una
volontà del nulla, un’avversione alla vita, una rivolta contro i pre-
supposti fondamentalissimi della vita» (GM III 28).
È questo, del resto, il senso polemico esplicito della terza disser-
tazione della Genealogia – come lo è, per quanto retrospettivamen-
te, della Nascita della tragedia –, scritta anzitutto contro la coppia
Wagner-Schopenhauer, colpevoli di avere, ciascuno a suo modo,
subordinato l’arte, di per sé dionisiaca, all’ideale ascetico della ri-
nuncia e della rassegnazione. Non v’è infatti contrapposizione più
1 Sulla figura della “bionda bestia” si veda il contributo di Alberto Giacomelli a
questo volume, in particolare § 4.
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Sull’utilità e il danno dell’ideale ascetico per la filosofia 183
radicale, per Nietzsche, di quella tra ideale ascetico e arte:
Platone contro Omero: ecco il totale, autentico antagonismo – là il
volontario “uomo della trascendenza”, il grande calunniatore della vita,
qui il suo involontario divinizzatore, la sua aurea natura. Un vassal-
laggio artistico al servizio dell’ideale ascetico è perciò la più effettiva
depravazione di un artista che possa esistere. (GM III 25)
Trascurando in questa sede la questione di Wagner, è chiaro
fino a che punto l’ascetismo estetico platonizzante di Schopen-
hauer, esposto nel III libro del Mondo, potesse irritare Nietzsche,
votato com’è a individuare nell’esperienza artistica il culmine di
una contemplazione che è, anzitutto, liberazione – per quanto
momentanea – dalla vita e dai suoi tormenti, preludio di una più
duratura estasi antivitale che solo l’ascesi (la “santità” cristiana o
buddhista: l’unio mystica e il nirvana) può offrire. Non v’è dubbio
che, per Schopenhauer, l’artista stia dalla parte dell’asceta e del
santo, cioè dei grandi negatori dell’esistenza, e non abbia nulla
del dionisiaco nietzscheano, per cui l’arte è, all’estremo opposto,
liberazione della vita e delle sue incontenibili energie plastiche.
Insomma: nello schema di Nietzsche il tipo umano Schopen-
hauer, a sua volta identificato con il prete asceta, si oppone dia-
metralmente sia al tipo umano del «guerriero aristocratico» (il
dominatore capace di un agire forte, libero, gioioso, per cui vale
l’equazione buono = nobile = potente = bello = felice = caro agli
dèi, cfr. GM I 7), sia al tipo umano dell’«artista dionisiaco» (che
è potenza creatrice, liberazione simbolica, menzogna santifican-
te, volontà di maschera), di cui costituisce la malattia: «Il prete
asceta ha guastato la salute dell’anima» (GM III 22). L’ideale
ascetico non può essere quindi di alcuna utilità per una filosofia
che si intende come diretta incarnazione dell’ideale aristocratico
e dell’ideale estetico.
2. Il prete asceta di Nietzsche e il santo di Schopenhauer
Quando si parla di fisiognomica di un “tipo umano” è corren-
te l’obiezione secondo cui il fisionomo, identificando il tipo, altro
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184 Giovanni Gurisatti
non farebbe in realtà che produrne una “semiotica”, ovvero una
struttura almeno parzialmente arbitraria di segni frutto non già di
interpretazione dell’espressione oggettiva, bensì di una proiezio-
ne empatica di idee o codificazioni preconcette nell’oggetto pre-
ventivamente svuotato del suo senso proprio. Il tipo non verreb-
be tanto conosciuto ex novo, quanto ri-conosciuto. Si potrebbe
obiettare, quindi, che in Nietzsche il tipo Schopenhauer (come
il tipo Socrate) sia solo il frutto di una forzatura interpretativa a
uso e consumo della contrapposizione strategica tra prete asceta,
da un lato, guerriero aristocratico e artista dionisiaco dall’altro.
In realtà in gran parte non è così, e non è questo che vogliamo
sostenere. Non v’è dubbio infatti che tra la figura del prete asceta
in Nietzsche e quella del santo in Schopenhauer le affinità siano
patenti. Ecco in sintesi le più importanti:
a) Negazione della vita. Per Nietzsche nell’ascesi «la vita ha valo-
re di un ponte per quell’altra esistenza. L’asceta tratta la vita come
un cammino sbagliato, (...) ovvero come un errore che si confuta
– si deve confutare» (GM III 11). Un’idea basilare che ricorre alla
lettera nel Mondo: «Non v’è dubbio che l’esistenza debba essere
considerata come un errore, la liberazione dal quale è la redenzio-
ne (...). La vita, per sua costituzione, porta il carattere di qualco-
sa, di cui dobbiamo perdere il gusto e di cui dobbiamo liberarci
come di un errore» (WWV II: 1529 e 1568)2. Perciò i sentimenti
del prete asceta sono nausea, stanchezza, tedio, vendetta, rancore,
ressentiment contro la vita, e l’unica meta perseguibile gli appare
una redenzione che si dà fuori dalla vita: i «santi», per Nietzsche,
trovano «la loro quiete nel nulla (“Dio”)» (GM III 1), proprio
come scrive Schopenhauer alla fine del IV libro del Mondo:
Con la volontà svanisce anche il mondo e non ci resta davanti che
il nulla. È bene, dunque, che si meditino la vita e gli atti dei santi (...).
Quel nulla che si delinea quale meta finale al di là della santità e della
virtù. (WWV I: 575)
2 Nel corso del testo sono state adottate le seguenti abbreviazioni per le opere di
Schopenhauer: WWV I = Il mondo come volontà e rappresentazione; WWV II = Supple-
menti al “Mondo come volontà e rappresentazione” (trad. it. Schopenhauer 1859/2003).
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Sull’utilità e il danno dell’ideale ascetico per la filosofia 185
Ed è più che legittima, qui, la critica di Nietzsche alla voluntas
di noluntas di Schopenhauer, ovvero al fatto che il santo scho-
penhaueriano – contraddittoriamente – «preferisce volere il nul-
la, piuttosto che non volere» (GM III 1 e 28), in tal modo esal-
tando e portando all’estremo proprio quella volontà che crede di
annullare, trasformando il Wille zum Nichts pur sempre in Wille
zur Macht:
Una vita ascetica è un’autocontraddizione: domina qui un ressenti-
ment senza eguali, quello di un insaziato istinto e una volontà di poten-
za che vorrebbe signoreggiare non su qualcosa della vita, ma sulla vita
stessa, sulle sue più profonde, più forti, più sotterranee condizioni (...).
Tutto ciò è paradossale in sommo grado. (GM III 11)
b) Rifiuto di sé. Per Nietzsche la vita ascetica è espiazione vo-
lontaria, autorinuncia, flagellazione, olocausto di se stessi; chi
pratica l’ascesi degrada la sua corporeità a illusione, ricusa fede
al proprio io, nega a se stesso la propria realtà (cfr. GM III 12):
Se possibile, più nessuna volontà, nessun desiderio; evitare tutto
quanto crea passione, fa «sangue» (...); non amare; non odiare; imper-
turbabilità; non vendicarsi; non arricchirsi; non lavorare; mendicare;
possibilmente nessuna donna o meno donne possibile (...). Risultato, in
termini psicologico-morali, «rifiuto di sé», «santificazione». (GM III 17)
È appena il caso di ricordare – talmente noti sono questi pas-
saggi – che in Schopenhauer la via dell’ascesi, dunque della re-
denzione, passa esattamente attraverso un graduale rifiuto di sé
che ha nella mortificazione del corpo la conditio sine qua non
della santificazione:
[L’asceta] non permette che si riaccenda in lui l’ardore né della col-
lera né del desiderio, e mortifica, al pari della volontà, anche la sua
oggettivazione visibile, il corpo (...). Pratica il digiuno, la macerazione;
giunge a flagellare la propria carne (...). Con il termine ascesi intendo,
in senso stretto, quell’annientamento intenzionale della volontà, che si
ottiene rinunciando ai piaceri e andando in cerca delle sofferenze, cioè
la pratica volontaria di una vita di penitenza e di macerazioni, vissuta
in vista di una costante mortificazione del volere. (WWV I: 536 e 548)
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Ed è giustissima qui la critica dialettico-negativa cui Nietzsche,
da psichiatra – al seguito di La Rochefoucauld e in anticipo su
Freud – sottopone le virtù ascetiche scaturite dalla “rimozione”
del corpo, degli istinti, dei bisogni e delle passioni:
Ogni volta che il prete asceta ha attuato questo trattamento [tormen-
ti espiatori, contrizioni e spasimi di redenzione] (...), sempre lo stato
morboso è cresciuto con sinistra prontezza in profondità e in estensio-
ne. Quale è sempre stato l’«esito»? Un sistema nervoso sconquassato, in
aggiunta a ciò che già prima era malato. (GM III 21)
In quanto rimozione e repressione degli istinti vitali il training
di penitenza e redenzione ottiene una guarigione che è peggiore
della malattia: manifestazioni epilettiche, paralisi e depressioni
croniche, isterismo, deliri di morte, ecc. – dove insomma il culto
sublimamente morale dell’ideale ascetico si svela essere nient’al-
tro che una forma patologica di nevrosi religiosa …
c) Contemplazione, conversione, compassione. Per Nietzsche,
oltre a essere puro, senza volontà, atemporale soggetto della co-
noscenza contemplativa avulsa dal corpo e dalle sue passioni – il
che lo assimila all’artista del III libro del Mondo («Colui che è
rapito in tale contemplazione» scrive Schopenhauer «non è più
individuo [l’individuo è annientato dalla contemplazione], ma
assurge a soggetto conoscente puro, a soggetto che è di là dal do-
lore, di là dalla volontà, di là dal tempo», WWV I 264) –, il prete
asceta «è il desiderio, fatto carne, di un essere-in-altro-modo, di
un essere-in-altro-luogo» (GM III 13), incarna cioè quell’idea-
le della conversione via-da-sé, via-dal-mondo, via-dalla-vita che
viene ampiamente tematizzato da Schopenhauer, per il quale
l’uomo virtuoso
perviene ad uno stato di volontaria rinunzia, di rassegnazione, di
perfetta quiete e di soppressione completa del volere (...). La sua volontà
cambia direzione: non afferma più la propria essenza specchiantesi nel
fenomeno [il sé, il mondo, il corpo, la vita – n.d.t.]; la nega. Il fenomeno
in cui si manifesta questo cambiamento di direzione è il passaggio dalla
virtù all’ascesi. (WWV I: 532-533)
E anche qui Nietzsche coglie nel segno quando denuncia nei
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sentimenti perversi di colpa, peccato, peccaminosità, perver-
timento, dannazione, timore, castigo le molle ultime sia della
sofferenza, sia del desiderio di redenzione dell’asceta (cfr. GM
III 16 e 20). Schopenhauer stesso ammette che la grande veri-
tà, la redeeming feature (cfr. WWV II: 1529) della soteriologia
ebraico-cristiana e orientale sta nel concetto di colpa, ovvero di
«peccato originale»:
Il nostro unico vero peccato è, di fatto, il peccato originale (...).
L’intimo nucleo e lo spirito profondo del cristianesimo sono identici
a quelli del brahmanesimo e del buddhismo: tutti e tre insegnano che
il genere umano porta su di sé una grave colpa per il fatto stesso di
esistere (...). L’esistenza stessa dell’uomo è (...) identica alla caduta nel
peccato. (WWV II: 1527)
Infine, la compassione, il Mit-Leid, la pietas e la caritas, tutti
concetti celeberrimi sviluppati da Schopenhauer nel IV libro del
Mondo e nel Fondamento della morale, costituenti la chiave di
volta della sua metafisica etica, che consentono a Nietzsche sia,
da un lato, di identificare correttamente il prete asceta con l’uo-
mo della «grande compassione per l’uomo» (GM III 14), uomo
buono, dunque morale, in quanto fondamentalmente altruistico,
non egoistico, non affermativo – sia, dall’altro, di denunciare
(come già nello Zarathustra) il meccanismo perverso per cui l’a-
more compassionevole per il prossimo si svela in realtà essere
frutto dell’egoismo e «dell’istinto più forte e maggiormente af-
fermatore di vita», cioè della volontà di potenza di colui che, nel-
la pietas, non fa che affermare la propria superiorità e il proprio
dominio sull’oggetto del Mit-Leid (cfr. GM III 18).
Alla luce di questi sia pur succinti riscontri è impossibile so-
stenere che la fisiognomica nietzscheana del tipo umano Scho-
penhauer-prete asceta sia ingannevole: tutte le virtù e le prati-
che ascetiche elencate, infatti, identificano «sportsmen della
santità» (GM III 17) i cui modelli estremi sono in Nietzsche,
come analogamente in Schopenhauer (cfr. WWV I: 530-557),
i mistici cristiani, buddhisti e brahmanici, gli esicasti del Monte
Athos, Santa Teresa d’Avila, il Perfetto, il Buddha, il credente
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del Vedanta, tutti accomunati dalla ricerca di uno stato supremo
di liberazione/redenzione (dalla vita, oltre la vita) che è “ipno-
si totale”, estasi, quiete e mistero. Le parole con cui Nietzsche,
nella Genealogia, riassume il quadro soteriologico in cui l’ascesi
perviene al suo culmine sembrano tratte direttamente dalle ul-
time pagine del IV libro del Mondo: redenzione è «essere una
cosa sola con il Brahman, (...) un internarsi nel Brahman, (...) una
raggiunta unio mystica con Dio. (...) Il nulla, in tutte le religioni
pessimistiche, è chiamato Dio» (GM III 17). Il bene supremo, il
positivo stesso, il valore dei valori è identificato con «l’ipnotico
senso del nulla, la quiete del sonno profondissimo, insomma l’as-
senza di dolore» (ibidem), che costituisce l’unica salvezza possibi-
le dei “radicalmente stanchi e scontenti” della vita, la cui anima
«si solleva uscendo da questo corpo, [entrando] nell’altissima
luce» (ibidem).
Soprattutto, è bene ribadirlo, tale salvezza estatico-ipnotica
presuppone per Nietzsche il raggiungimento, tramite le virtù e
le pratiche ascetiche, di una forma di impersonalità, di rinuncia
a sé e di oblio di sé, insomma di una «incuria sui» (GM III 18),
che è la condizione stessa dell’unio mystica – proprio come scrive
Schopenhauer in un passo canonico:
La salvezza è qualcosa di assolutamente estraneo alla nostra perso-
nalità; sua condizione necessaria è anzi proprio la negazione, la sop-
pressione della individualità personale (WWV I: 570).
Riassumendo: per Nietzsche negazione della vita, rifiuto di sé e
della personalità, contemplazione, conversione, compassione, in-
curia sui e redenzione come ipnosi totale e unio mystica sono i tratti
fisiognomici, affatto “schopenhaueriani”, di un prete asceta che ha
«guastato la salute dell’anima» della sua epoca, dando vita a un
uomo addomesticato, indebolito, avvilito, raffinato, infrollito, svi-
rilizzato, danneggiato, malato, malcontento, depresso (cfr. GM III
21). In quanto nemico sia dell’ideale aristocratico del “guerriero”,
sia dell’ideale estetico dell’“artista”, l’ideale ascetico alla Schopen-
hauer sarebbe dunque il grande nemico della filosofia e del pensie-
ro, che ne subiscono il danno e non ne hanno alcuna utilità.
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3. Ascesi cristiana e askesis greca nella Genealogia
della morale
Se si arrestasse qui, una lettura della terza dissertazione della
Genealogia non porterebbe nulla di nuovo e si limiterebbe ad ali-
mentare la vulgata dell’odio di Nietzsche per gli ideali ascetici e,
quindi, per il “prete” Schopenhauer. Si pongono tuttavia alcune
domande:
a) esiste nel Nietzsche della Genealogia un’accezione (almeno
tendenzialmente) positiva dell’ideale ascetico, in cui esso sia al
servizio della salute dell’anima, quindi sia utile alla filosofia?
b) È corretto rinchiudere l’intera filosofia di Schopenhauer
nella gabbia soteriologica culminante nella figura del prete-santo
asceta e nell’ascesi mistica cristiana e buddhista?
c) Una eventuale accezione positiva dell’ideale ascetico sa-
rebbe anch’essa in contrapposizione con l’ideale aristocratico (il
“guerriero” della filosofia) e con l’ideale estetico (l’“artista” della
filosofia)?
Quanto alla prima questione è Nietzsche stesso a metterci la
classica pulce nell’orecchio. Scrive infatti:
Il prete asceta ripone [nell’ideale ascetico] non soltanto la sua fede,
bensì anche la sua volontà, la sua potenza, il suo interesse. Con quell’i-
deale si erige e cade il suo diritto all’esistenza: c’è da stupirsi se ci im-
battiamo qui in un tremendo avversario, una volta ammesso che noi
fossimo gli avversari di questo ideale? (GM III 11, c.n.)
E altrove:
Tutto il mio rispetto per l’ideale ascetico, sempreché esso sia onesto!
fintanto crede a se stesso e non ci vien fuori con delle frottole! (GM
III 26, c.n.)
Infine:
L’ideale ascetico continua sempre a avere, per il momento, un’unica
specie di reali nemici e danneggiatori: sono i commedianti di questo ide-
ale – essi infatti suscitano diffidenza (GM III 27, c.n.)
Senza poter approfondire qui l’aspetto “da commediante” e
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190 Giovanni Gurisatti
“disonesto” dell’ideale ascetico che Nietzsche riferisce senz’altro
a Wagner (non a Schopenhauer), è bene ricordare – come altrove
si è fatto (cfr. Gurisatti: 2013a) – che nello Zarathustra il “mago”
Wagner (il “commediante”, appunto) non è un tipo umano op-
posto-esterno a Zarathustra, bensì ne costituisce quell’alter ego
parodistico e patologico, quel rovescio grottesco e deteriore in-
terno che, purtuttavia, ne contiene, ex negativo, un elemento di
verità e di salute. Quindi, anche l’ideale ascetico storpiato dal
commediante deve avere una sua verità, la quale non suscita ne-
cessariamente avversione e ostilità, bensì “rispetto” nel filosofo,
come Nietzsche stesso sembra ammettere.
Emerge insomma qui tra le righe (ma nemmeno troppo)
un’altra accezione dell’ascesi, assai più compatibile con la pra-
tica della filosofia, e più simile all’askesis greca che alla mistica
cristiana-buddhista sopra descritta. Ai tipi umani del prete asce-
ta (rinunciatario e volto alla redenzione), dell’aristocratico guer-
riero (affermativo e volto alla potenza) e dell’artista dionisiaco
(creativo e volto alla liberazione) se ne potrebbe quindi aggiun-
gere un quarto, quello del filosofo saggio (meditativo e volto alla
cura sui). Scrive infatti Nietzsche:
Nei filosofi e nei dotti [gli ideali ascetici significano] una specie di
fiuto e d’istinto per le più favorevoli condizioni preliminari di una elevata
spiritualità. (GM III 1, c.n.)
Esiste una particolare prevenzione dei filosofi a favore dell’intero
ideale ascetico, una loro predilezione (GM III 7, c.n.)
Si tratta, come si vede, di tracce importanti circa un connubio
positivo, utile e salutare tra ideale ascetico, elevata spiritualità e fi-
losofia, che Nietzsche sviluppa in GM III 7-10, significativamen-
te prima che, a partire da GM III 11, con una svolta argomenta-
tiva, il “prete ascetico” prenda definitivamente il sopravvento sul
“filosofo saggio” (filosofo asketico) nell’intero svolgimento del
testo. Benché sfumata e non tematizzata in sé, questa dimensione
dell’askesis filosofica va ascoltata con attenzione, dato che la sua
apparente somiglianza strutturale con la dimensione dell’ascesi
mistica nasconde in realtà una profonda differenza concettuale
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Sull’utilità e il danno dell’ideale ascetico per la filosofia 191
tra le due prospettive. In nuce non v’è nulla di più distante del
filosofo/saggio dal prete/santo.
Sta di fatto che per Nietzsche il “tipo del filosofo” (cfr. GM
III 7) incarna un ideale asketico la cui positività stride nettamen-
te con gli anatemi scagliati contro l’ideale ascetico del “tipo del
prete”:
Che cosa significa l’ideale ascetico in un filosofo? Come si sarà in-
dovinato da un pezzo, – è questa la mia risposta: alla sua vista sorride
il filosofo, come di fronte a un optimum delle condizioni di suprema e
arditissima spiritualità [c.n.] – e con ciò non nega l’“esistenza”, sibbene
afferma in essa la sua esistenza e unicamente la sua esistenza. (GM III 7)
Un certo ascetismo, (...) una dura e serena rinuncia spontaneamente
voluta appartiene alle condizioni favorevoli di un’altissima spiritualità
[c.n.], come pure alle sue più naturali conseguenze: così fin dall’inizio
non ci sarà da stupirsi se l’ideale ascetico non è mai stato trattato dai
filosofi senza qualche prevenzione favorevole. In una seria verifica sto-
rica il nesso tra ideale ascetico e filosofia risulta persino ancor più stretto e
rigoroso [c.n.]. (GM III 9)
Più volte nella Genealogia Nietzsche ribadisce che l’ideale
ascetico, anziché esserne la dannazione, è la “condizione” stessa
della filosofia (come spiritualità e prassi vitale, non come tecni-
ca e sapere disciplinare), per poi sottolineare il “nesso stretto e
rigoroso tra ideale ascetico e filosofia”, dove però – e questo è il
punto – la dura e serena disciplina ascetica del filosofo non nega
affatto la vita e l’esistenza, ma, all’opposto, è al servizio della vita
e dell’esistenza, è, insomma, askesis, cura sui, estetica dell’esisten-
za. L’askesis, infatti, è sì esercizio, disciplina, rigore e stile di vita,
cultura, cura e pratica di sé, però non mira a una redenzione
trascendente la vita, ma a una condizione di felicità, ovvero di in-
dipendenza e di libertà dentro la vita; non mortifica il corpo, ma
lo governa – lo esercita – con il rigore del training, facendone un
medium psico-fisico di spiritualità; non ambisce all’unio mystica
o al nirvana, ma a un’ataraxia e a un’autarkeia cha danno salute,
serenità e autogoverno; non persegue la rinuncia a sé e alla per-
sonalità, ma la conquista e la costituzione di sé, secondo il motto
“diventa ciò che sei”, che non si addice al prete asceta, ma è la
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192 Giovanni Gurisatti
principale regola di vita del filosofo saggio.
GM III 8 parla la lingua dell’askesis greco-romana, non dell’a-
scesi cristiana, del filosofo saggio, non del prete asceta, ponendo-
si in una prospettiva affatto eudemonologica, non soteriologica.
I filosofi che praticano l’ideale ascetico, scrive infatti Nietzsche,
«pensano a sé – che importa loro “il sacro”!». Così però si ri-
balta tutto, poiché mentre al santo/asceta importa solo il sacro
(la conversione via-da-sé, via-dal-mondo verso l’Altro), al saggio/
filosofo importa solo il sé (la conversione verso-di-sé, dentro-il-
mondo, verso lo Stesso). Ecco che allora l’ascesi, anziché malat-
tia cristiana che guasta la salute dell’anima – quindi della filosofia
– diventa viceversa salute greco-romana che è condizione impre-
scindibile del sano filosofare:
Libertà da costrizione, molestia, frastuono, da affari, doveri, cure;
chiarezza in testa; danza, balzo e volo dei pensieri; un’aria buona, (...)
come lo è l’aria sulle cime, dove ogni essere animale diventa più spiri-
tuale e mette le ali; tranquillità in tutti i sotterranei; tutti i cani messi
per benino a catena; (...) nessun verme roditore di ambizione ferita;
viscere umili e sottomesse (...); estraneo il cuore (GM III 8)
Come si vede, in questo breve elenco delle condizioni psico-
fisiche, offerte dall’askesis, del sano filosofare – anzitutto la li-
bertà e l’indipendenza dalle costrizioni imposte dal mondo, dal
corpo e dalle passioni – non v’è niente che ricordi la negatività,
la nausea, il tedio di se stessi, la rinuncia e la volontà rancorosa
del nulla connesse, per Nietzsche, all’ideale ascetico cristiano. Al
contrario, giacché i filosofi greco-ellenistici, nell’ideale ascetico,
vedono non un limite e un danno, bensì una meta e un’utilità
per la filosofia, pensano cioè «al sereno ascetismo di un animale
divinizzato e divenuto alato, il quale, più che starsene quieto,
volteggia al di sopra della vita» (ibidem). Questo ascetismo sereno
del saggio, all’apparenza così simile, ma in realtà diametralmen-
te opposto all’ascetismo risentito del prete, è la chiave di volta
dell’askesis, il che implica un’altra distinzione fondamentale pre-
sente nella Genealogia: mentre infatti nella prospettiva soteriolo-
gica «le tre pompose parole dell’ideale ascetico: povertà, umiltà,
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Sull’utilità e il danno dell’ideale ascetico per la filosofia 193
castità» (ibidem) nominano altrettante virtù morali, cioè un codi-
ce di norme cui il prete asceta deve saper ubbidire per negare la
vita, rinunciare a sé (al proprio corpo, ecc.) e perseguire la reden-
zione, nella prospettiva della saggezza le stesse parole nominano
invece soltanto regole pratiche, massime di saggezza e cura di sé
che il filosofo deve assimilare, metabolizzare e praticare per agire
nella vita, governare se stesso (il proprio corpo, ecc.) e perseguire
la tranquillitas animi che prelude al sano filosofare. In questo
senso “asketico” povertà, umiltà e castità saranno sempre pre-
senti, fino a un certo punto, nella «vita di tutti i grandi, fecondi,
ingegnosi spiriti»,
[e] niente affatto – cosa che va da sé – come se fossero, caso mai, le
loro “virtù”, – che cos’ha a che fare questa specie di uomini con le vir-
tù! – sibbene come le condizioni più peculiari e più naturali della loro
migliore esistenza, della loro più bella fecondità. (ibidem)
L’enfasi scritturale di Nietzsche esalta la crucialità del mo-
mento – e a dire il vero queste parole contengono la legittima-
zione di un’ars vivendi e di una epimeleia heautou che, pratica-
te da un’aristocrazia dello spirito, hanno un unico fine: non la
trascendenza ma l’est-etica dell’esistenza. Non in quanto virtù
trascendenti ma in quanto regole pratiche immanenti di una tale
est-etica, povertà, umiltà e castità sono modi non per sottrarsi
all’esistenza, ma per darle una (bella) forma, e sono espressione
non di una rinuncia a sé, ma del raggiunto dominio di sé su di
sé: è la «spiritualità dominatrice» del filosofo, non la sua rinuncia
alla vita, a dover prima di tutto «porre le briglie a un’indomabile
ed eccitabile superbia o a una proterva sensualità» (ibidem). Il
filosofo sarà dunque povero, poiché il deserto, la solitudine, la
quiete, il silenzio, ecc., sono tipici degli «spiriti forti e indipen-
denti per natura» – ma in ciò «non v’è affatto “virtù”» (ibidem);
sarà umile, poiché la riservatezza, la moderazione, la semplicità,
il parlare basso, il rifiuto della gloria e della ribalta sono indice di
una «suprema signoria» su se stessi – ma non sono virtuose (cfr.
ibidem); infine, sarà casto, ma in senso opposto a quello che il
codice della virtù impone al prete asceta:
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194 Giovanni Gurisatti
Non c’è qui nulla di una castità dovuta a un qualche ascetico scrupolo
o odio per i sensi [c.n.], come c’è ben poca castità quando un atleta o
un fantino si astiene dalle donne: è invece il loro istinto dominante (...)
a esigere questo. Ogni artista sa come l’atto sessuale abbia, negli sta-
ti di grande tensione e preparazione spirituale, ripercussioni dannose.
(ibidem)
Nietzsche definisce i preti asceti «sportsmen della ‘santità’»,
che si sottopongono a un training il cui esito sono il rifiuto di sé
e la santificazione. In questo caso però la situazione è opposta:
nella vita del filosofo saggio – qui opportunamente accomunato
non all’anacoreta e al cenobita, ma all’atleta (Athlet), al fantino
(Jockey) e all’artista da circo (Artist), che rappresentano la ver-
sione per così dire sportiva dell’askesis – vi sono bensì esercizio,
disciplina, training (il gymnazein greco), astinenze e diete (diaita,
in greco, significa anzitutto regime, disciplina, comportamento
metodico, modo di vivere); tuttavia nel suo contesto atletico-
sportivo sacrifici, privazioni, rinunce non mirano all’abbandono
di sé, ma alla conquista, alla costituzione, alla trasformazione, al
rafforzamento e all’equipaggiamento (paraskeue) di sé. La funzio-
ne dell’askesis è etopoietica: per suo tramite ci si costituisce come
soggetto etico, ma al tempo stesso come soggetto di carattere
(ethos) – come Sé – e solo questo soggetto può legittimamente
praticare la filosofia.
Nietzsche nella Genealogia non esplicita nulla di tutto ciò,
però afferma che «i singoli impulsi e le singole virtù del filoso-
fo», vale a dire quel certo ascetismo, inteso come dura e serena
rinuncia spontaneamente voluta, che è condizione favorevole di
un’altissima spiritualità (cfr. GM III 9), rappresentano una fase
storico-culturale precedente e opposta a quella in cui – con il
cristianesimo – si assiste alla nascita dell’ideale ascetico propria-
mente detto. Scrive infatti:
Non si è già ben compreso che tutti insieme questi impulsi e queste
virtù per lunghissimo tempo procedevano in senso opposto alle prime esi-
genze della morale e della coscienza? (ibidem, c.n.)
GM III 10 prelude al definitivo passaggio – storico e argomen-
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Sull’utilità e il danno dell’ideale ascetico per la filosofia 195
tativo – dall’askesis antica all’ascesi cristiana, vale a dire dall’ide-
ale ascetico praticato da filosofi “assetati di potenza e fiduciosi
in se stessi” all’ideale ascetico praticato da preti “negatori della
vita e risentiti contro se stessi”, ideale che a partire da GM III
11 catalizza – come più sopra illustrato – la riflessione critica
nietzscheana sul tipo umano del prete asceta-Schopenhauer. Si
passa cioè da una situazione in cui l’ideale ascetico è visto come
condizione di possibilità della sana filosofia:
per lungo tempo l’ideale ascetico è servito al filosofo come forma
fenomenica, come presupposto esistenziale – costui dovette rappresen-
tarlo, per poter essere filosofo, dovette credere in esso, per poterlo rap-
presentare (...). Per lunghissimo tempo la filosofia non sarebbe stata per
nulla possibile sulla terra senza un involucro e un rivestimento ascetico.
(GM III 10)
a una situazione in cui il medesimo ideale, tradotto nei termini
del misticismo e del moralismo cristiani, è visto come il principa-
le ostacolo per una filosofia che ha nel guerriero dominatore (=
ideale aristocratico) e nell’artista dionisiaco (= ideale estetico) i
suoi “tipi”.
È per questo che Nietzsche – riprendendo il filo conduttore
della dissertazione – conclude che
il prete ascetico ha costituito, fino ai nostri tempi, la ripugnante e
cupa forma larvale sotto la quale soltanto la filosofia ebbe diritto di
vivere e si mosse tortuosamente strisciando. (ibidem)
Si potrebbe dire che, nell’ottica di Nietzsche, il tipo umano
del prete asceta rappresenti la versione parodistica, degradata
e decadente – coscienziosa e moraleggiante – del tipo umano
del filosofo asketa, in quanto la sua ascesi è ormai ancilla virtu-
tis e non ancilla sapientiae. Nella Genealogia emerge l’idea che i
guasti e le perversioni della “salute dell’anima” dovuti all’idea-
le ascetico siano da ricollegarsi al passaggio epocale dal «pieno
splendore greco-romano» al periodo in cui «agitatori cristiani
chiamati Padri della Chiesa» iniziarono a diffondere e a imporre
il Nuovo Testamento (cfr. GM III 22). È per questo che la bef-
farda stroncatura nietzscheana, in parte autocontraddittoria, del
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196 Giovanni Gurisatti
rapporto produttivo tra ideale ascetico e filosofia nella Genalogia
non deve far dimenticare né i positivi apprezzamenti dell’aske-
sis da noi evidenziati, né tantomeno la differenza sostanziale e
concettuale tra una filosofia praticata dal tipo umano del filosofo
saggio e una filosofia praticata dal tipo umano del prete asceta,
poiché se è escluso che questo secondo tipo sia conciliabile con
quelli del guerriero aristocratico e dell’artista dionisiaco, non è
affatto detto che ciò avvenga – come vedremo più sotto – anche
nel caso specifico del filosofo saggio.
Sta di fatto che, per quanto preponderante nella Genealogia, la
critica di Nietzsche all’ideale ascetico soteriologico, morale-vir-
tuoso, del prete-Schopenhauer, non può in nessun caso oscurare
del tutto – a prescindere dalla logica polemica dell’argomenta-
zione – la sua considerazione dell’ideale ascetico eudemonologi-
co, pratico-esistenziale, del filosofo-saggio, le cui tracce – da noi
certo interpretate con qualche forzatura – per quanto sfumate,
non meritano di essere cancellate in mero omaggio a una tradi-
zione interpretativa consolidata.
4. Excursus: come il filosofo diventa ciò che è
L’idea, che emerge tra le righe della Genealogia della morale,
secondo cui un certo tipo di ideale ascetico – inteso come askesis
– è non solo perfettamente compatibile con lo sviluppo di una
sana filosofia, ma ne è anzi la condizione pratica di possibilità,
trova conferma, et pour cause, in quella straordinaria autobio-
grafia filosofica di Nietzsche che è Ecce homo, redatta un anno
dopo (1888) la pubblicazione della Genealogia e recante nel suo
motto «Come si diventa ciò che si è» il rinvio al celebre monito
pindarico di ogni possibile saggezza: «Diventa ciò che sei!»3. Si
tratta quindi di un testo prettamente “eudemonologico”, il cui
estensore, secondo la migliore tradizione sapienziale, prendendo
3 Già nel 1881 Nietzsche annota: «Continua sempre a divenire ciò che tu sei – edu-
catore e plasmatore di te stesso!» (NF 1881, 11[106]).
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Sull’utilità e il danno dell’ideale ascetico per la filosofia 197
spunto dalla sua personale ars vivendi («mi racconterò la mia
vita», EH, Perché sono così saggio 1), ci informa non solo circa
le modalità della sua saggezza (Weisheit) e accortezza (Klugheit)
– due termini chiave di ogni dimensione pratica della filosofia –,
ma anche del perché esse abbiano costituito, appunto, la condi-
zione di possibilità della sua capacità di scrivere “buoni libri”,
ossia di essere un “buono-e-sano” filosofo.
Lo sparso puzzle di tracce asketiche presenti nella Genealogia
trova quindi in Ecce homo – e dove altrimenti? – una sia pur
precaria sistemazione.
A mero titolo esemplificativo ne sintetizziamo alcuni passag-
gi, utili a illustrare il positivo connubio tra ideale ascetico come
askesis e filosofia:
a) Ecce homo è la cronaca di una epimeleia heautou, una cura
sui il cui protagonista, con rigore, disciplina, costrizione ed eser-
cizio, “prende per mano se stesso e si guarisce da solo” (cfr. EH,
Perché sono così saggio 2), trasformando per autorisanamento la
malattia in salute: «Avevo tratto la mia filosofia dalla mia stes-
sa volontà di salute, di vita …» (ibidem). Al tempo stesso, Ecce
homo è la cronaca di un’ars vivendi e di una estetica dell’esistenza
il cui esito è ein wohlgerathner Mensch, un «uomo benriuscito»
(ibidem), un uomo che, dunque, ha acquisito autopoieticamente
una bella forma;
b) per ottenere tale risultato il protagonista ha assimilato, me-
tabolizzato, cioè esistenzialmente praticato alcune elementari re-
gole di vita, che si ritrovano ovunque nella millenaria tradizione
degli esercizi spirituali della saggezza:
1. l’esercizio della moderazione e dell’autocontrollo («il suo
piacere, il suo desiderio, cessano appena si supera la misura del
conveniente» [ibidem]; «non si è mai sforzato di avere onori, don-
ne, denaro!» [EH, Perché sono così accorto 9]; «invano si cerche-
rebbe nel mio essere un tratto di fanatismo. In nessun momento
della mia vita si può riscontrare un comportamento arrogante o
patetico. Il pathos dell’atteggiamento non appartiene alla gran-
dezza» [EH, Perché sono così accorto 10]);
2. l’esercizio della serenità e del buon umore («[nessuno] avrà
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198 Giovanni Gurisatti
certo notato in me un qualunque segno di tensione, ma anzi una
freschezza e una serenità traboccanti (...). Una minima costrizione,
l’aspetto cupo, una certa durezza nella voce, sono tutti argomenti
contro un uomo, e tanto più contro la sua opera! … Non è leci-
to avere i nervi…» [ibidem]; «Bisogna non avere i nervi, bisogna
avere un ventre gaio (...), bisogna avere la durezza fra le proprie
abitudini, per essere di buon umore e sereni in mezzo a nient’altro
che a dure verità» [EH, Perché scrivo libri così buoni 3]);
3. l’esercizio della resilienza, che implica il ribaltamento della
malattia su se stessa, dello choc in chance («trae vantaggio dalle
disavventure; ciò che non lo uccide lo rafforza» [EH, Perché sono
così saggio 2]);
4. l’esercizio del distacco, o del non-attaccamento («[egli] è un
principio di selezione, lascia cadere molte cose» [ibidem]);
5. l’esercizio della solitudine («si trova sempre in compagnia
di se stesso» [ibidem]; «[ha] bisogno di solitudine, voglio dire di
guarigione, di tornare a [se] stesso, di respirare il soffio di un’aria
libera» [EH, Perché sono così saggio 8);
6. l’esercizio della prudenza e della cautela («reagisce lenta-
mente agli stimoli, di qualsiasi genere siano (...) – saggia lo stimo-
lo che arriva, è ben lontano dal volergli andare incontro» [EH,
Perché sono così saggio 2]);
7. l’esercizio dell’autoconfessione e dell’autoconsapevolezza
(«non crede né alla “disgrazia”, né alla “colpa”: sa chiudere i
conti con se stesso» [ibidem]);
8. l’esercizio del dominio di sé e dell’autocontrollo di fronte
alle offese («ogni volta che una piccola o una grandissima scioc-
chezza viene commessa contro di me, io mi proibisco qualsiasi
rappresaglia» [EH, Perché sono così saggio 5]; «Un’altra accor-
tezza nell’autodifesa è quella di reagire il più raramente possibile
…» [EH, Perché sono così accorto 8]);
9. l’esercizio della coerenza e della integrità con se stessi («una
estrema integrità con me stesso è il presupposto della mia esi-
stenza» [EH, Perché sono così saggio 8]);
10. l’esercizio dell’amor fati («la mia formula per la grandezza
dell’uomo è amor fati (...). Non solo sopportare, e tantomeno
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Sull’utilità e il danno dell’ideale ascetico per la filosofia 199
dissimulare, il necessario – tutto l’idealismo è una continua men-
zogna di fronte al necessario – ma amarlo …» [EH, Perché sono
così accorto 10]).
Da Epicuro e Zenone a Seneca, da Marco Aurelio a Gracián
e Montaigne, da Epitteto a Schopenhauer (come vedremo) a Le-
opardi e ai moralisti francesi – sempre la saggezza (e la filosofia)
pratica parla questa lingua “ascetica” …
c) Soprattutto, per ottenere salute, bella forma, buona filo-
sofia, il filosofo deve “mettere per benino tutti i cani a catena”,
cioè non già rimuovere, reprimere e soggiogare, bensì governare
saggiamente le passioni, anzitutto quelle (gelosia, invidia, vani-
tà, ambizione, orgoglio, iracondia, vendetta, rancore, ecc.) che
generano ressentiment, il peggior nemico della enkrateia, della
autarkeia e della ataraxia del filosofo. Questa la massima sapien-
ziale di Nietzsche:
Nulla fa bruciare tanto rapidamente quanto le passioni del ressenti-
ment. La furia, la vulnerabilità morbosa, il desiderio, la sete impotente
di vendetta (...) – questa è sicuramente la maniera più dannosa di re-
agire per chi non ha più forze: ne conseguono un rapido consumo di
energia nervosa, un aumento anormale di secrezioni nocive, per esem-
pio con versamenti di bile nello stomaco. (EH, Perché sono così saggio 6)
Vittoria sul ressentiment, liberazione dell’anima dal ressenti-
ment, questo è il «primo passo verso la guarigione» (ibidem) – un
passo, si badi, non già morale ma fisiologico, che cioè non guar-
da alla virtù morale ma alla prassi vitale, giacché il ressentiment
«non è dannoso a nessuno quanto al risentito stesso», e, soprat-
tutto, nelle nature forti «è un sentimento superfluo, un sentimen-
to da dominare, e saperlo dominare è quasi la prova della propria
ricchezza» (ibidem).
Così non parla un prete asceta, bensì un aristocratico, anzi
un guerriero dello spirito, un «filosofo guerresco» (EH, Perché
sono così saggio 7), il cui pathos aggressivo, nel fare filosofia, è
segno di forza proprio perché non contiene un sol grammo di
quel sentimento di rancore e di vendetta che è, viceversa, segno
di debolezza, e che solo un’askesis ben meditata è in grado di
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200 Giovanni Gurisatti
governare e tenere sotto controllo: «Se si disprezza, non si può
fare guerra» (ibidem), scrive Nietzsche parlando di sé, e indi-
cando così, in base alla propria diretta esperienza di filosofo, un
chiaro elemento di necessaria compatibilità tra il governo di sé
del filosofo-saggio e l’ars polemica del filosofo-guerriero, maestro
d’armi (filosofiche) in quanto maestro di sé. Solo il guerriero che
esercita l’askesis può aggredire senza ressentiment ed essere, così,
tanto più forte, vincente e sovrano nei confronti del proprio av-
versario: «Io vengo a contraddire, come mai si è contraddetto, e
nondimeno sono l’opposto di uno spirito negatore» (EH, Perché
io sono un destino 1).
d) Tuttavia, questi esercizi strettamente spirituali – eseguiti
con la mente – non esauriscono la cura sui del filosofo, giacché a
essere protagonista nell’askesis è anche il corpo, non già il corpo
rimosso e represso, mortificato dalla virtù morale, del prete asce-
ta, bensì il corpo governato e disciplinato, messo a regime dalla
diaita del saggio: «Tu, come devi nutrirti, per raggiungere il tuo
massimo di forza, di Virtù in senso rinascimentale, di virtù senza
moralina?» (EH, Perché sono così accorto 1). Contro ogni “ideali-
smo” nel pensiero, Ecce homo pone «il problema della alimenta-
zione» al centro della filosofia, laddove non c’è salute dell’anima
che non sia, al tempo stesso, salute del corpo. Si badi: i consigli
dietetici e le massime di astinenza riportati in Ecce homo non
hanno, nelle intenzioni di Nietzsche, nulla di metaforico, ma ri-
velano la sua profonda consapevolezza della unità psico-fisica
che sta all’origine della sana filosofia:
Un’inerzia anche lieve dell’intestino, diventata cattiva abitudine, è
più che sufficiente a trasformare un genio in qualcosa di mediocre (...).
Il ritmo del metabolismo è in preciso rapporto con la mobilità o fiac-
chezza dei piedi dello spirito; lo «spirito» è solo una specie particolare
di questo metabolismo (EH, Perché sono così accorto 2).
Ma se lo spirito, oltre a uno stomaco, ha anche dei “piedi” (e
non solo delle “ali”), per tenersi in forma dovrà camminare, muo-
versi, allenarsi, schiodare il «sedere di pietra» dalla sua seggiola:
Star seduti il meno possibile; non fidarsi dei pensieri che non sono
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Sull’utilità e il danno dell’ideale ascetico per la filosofia 201
nati all’aria aperta e in movimento – che non sono una festa anche per
i muscoli. Tutti i pregiudizi vengono dagli intestini (EH, Perché sono
così accorto 1).
Solo il «maledetto idealismo», insomma, può troncare la ra-
dice che la filosofia affonda nella dieta, nel training, nella scelta
del clima e del luogo dove vivere, ecc., poiché tutto questo con-
tribuisce a fare del corpo non l’ostacolo, ma il medium stesso del
filosofare. Solo un corpo governato e messo a regime dall’askesis,
infatti, può fornire al filosofo il fondamento psico-fisico adegua-
to al percorso biografico che lo conduce a “diventare ciò che è”,
ovvero al supremo egoismo in cui il Sé incontra se stesso: l’idea
individuale (il carattere dominante, archetipo o daimon) che or-
ganizza dall’interno tutta la sua vita,
lentamente guida i passi indietro dalle deviazioni, dalle vie perdu-
te, prepara qualità e capacità singolari (...) – elabora successivamente
tutti i poteri subalterni, prima di far trapelare qualcosa del compito
dominante, della «meta», del «fine», del «senso». (EH, Perché sono così
accorto 9)
Se curata con saggezza, questa idea-daimon salta fuori un gior-
no all’improvviso, matura, nella sua massima perfezione, donan-
do al filosofo non solo la sapienza, ma anche la felicità: «Vista
da questa parte» scrive Nietzsche «la mia vita è semplicemente
meravigliosa» (ibidem). Ciò che egli qui chiama sano egoismo,
in quanto «arte dell’autoconservazione», «accortezza suprema»
e rigorosa «autodisciplina» (ibidem), altro non è che la cura sui,
contrapposta – pur nella somiglianza – alla incuria sui dell’ascesi
“idealistica”, univocamente votata all’abbandono e all’annulla-
mento del daimon personale.
E non può esservi alcun dubbio circa l’estrema serietà filoso-
fica con cui Nietzsche enuncia le regole della sua ars vivendi, cui
attribuisce un ruolo epocale – dunque “tipico” – di trasvalutazio-
ne di tutti i valori correnti in filosofia:
Queste piccole cose – alimentazione, luogo, clima, svaghi, tutta la
casistica dell’egoismo – sono inconcepibilmente più importanti di tutto
ciò che finora è stato considerato importante [c.n.]. Proprio da qui biso-
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202 Giovanni Gurisatti
gna cominciare a cambiare tutte le proprie nozioni. Quelle che finora l’u-
manità ha considerato cose serie, non sono neppure delle realtà, sono
semplici prodotti della immaginazione, o più esattamente menzogne
che derivano dai cattivi istinti di nature malate, dannose nel senso più
profondo – tutti i concetti di «Dio», «anima», «virtù», «peccato», «al
di là», «verità», «vita eterna» (...). Si è imparato a disprezzare le «pic-
cole» cose, che sono poi le faccende fondamentali della vita … (EH,
Perché sono così accorto 10)
Nulla più di questo passo – da noi appositamente riportato per
intero – dimostra fino a che punto l’ipotesi di un rapporto positivo
tra ideale ascetico (inteso come askesis) e filosofia, presente nella
Genealogia della morale, trovi giustificazione e applicazione nell’e-
sercizio della filosofia praticato da Nietzsche stesso e teorizzato (in
forma di massime di saggezza) in Ecce homo, che ne costituisce la
sedimentazione autobiografica. Altrettanto decisivo è il fatto che
egli, contestando la mendacità idealistica dei concetti trascendenti
derivati alla filosofia dal cristianesimo – tutto ciò che nella Genea-
logia si riassume nell’ideale ascetico –, sembra indicare in un rin-
novato rapporto tra askesis e filosofia la via che essa deve ripren-
dere – in termini epocali – per tornare a essere autenticamente se
stessa, nella teoria come nella prassi. Ed è questa, di fatto, la con-
clusione parenetica di Ecce homo, per cui gli ideali ascetici sono
inventati per spregiare il corpo, per renderlo malato – «santo» –, per
opporre una orribile incuria a tutte le cose che meritano di essere trat-
tate con serietà nella vita, i problemi dell’alimentazione, dell’abitare,
della dieta spirituale, della cura dei malati, della pulizia, del tempo che
fa! Invece della salute la «salvezza dell’anima» – cioè una folie circulai-
re fra le convulsioni della penitenza e l’isteria della redenzione! (EH,
Perché io sono un destino 8)
Ancora cura contro incuria, dunque, askesis contro asce-
si, salute contro salvezza, saggezza contro redenzione, estetica
dell’esistenza contro morale, uomo bello e nobile, «fiero e ben-
riuscito» (EH, Perché io sono un destino 8) contro uomo buono
e virtuoso – però nel contempo fallito, malcontento, malriuscito,
sciagurato, sofferente di sé (cfr. GM III 13).
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Sull’utilità e il danno dell’ideale ascetico per la filosofia 203
Ma, allora, se le cose stanno così, è evidente che per Nietzsche
deve esserci un rapporto positivo tra ideale ascetico, ideale aristo-
cratico e ideale estetico, cioè tra i tipi umani del filosofo saggio,
del guerriero aristocratico e dell’artista dionisiaco – tanto più
positivo quanto più negativo è quello che essi mantengono con il
tipo umano del prete asceta analizzato nella Genealogia.
5. Schopenhauer: soltanto un prete asceta?
A questo punto è opportuno affrontare, in estrema sintesi, la
seconda delle questioni rimaste aperte, ovvero la liceità teorica e
filologica della identificazione, preponderante nella Genealogia,
del tipo umano Schopenhauer con il tipo umano del prete asceta,
ovvero della sua filosofia con un’apologia tout court dell’ideale
ascetico in senso soteriologico, mistico, cristiano e buddhista.
Per quanto ci riguarda, l’angustia della prospettiva nietzschea-
na – perniciosissima per la successiva corretta ricezione di Scho-
penhauer – è evidente, come abbiamo tentato di dimostrare in
una serie di lavori dedicati, appunto, al versante saggio e aske-
tico, ellenistico-romano e neostoico della filosofia pratica scho-
penhaueriana, in cui la prospettiva soteriologica, senz’altro do-
minante, convive tuttavia con una prospettiva eudemonologica
per nulla secondaria, che lascia le proprie tracce lungo tutta la
riflessione di Schopenhauer, dai primi appunti giovanili fino alle
tarde note dei Senilia4.
Abituati dall’accattivante veemenza della scrittura di
Nietzsche, nonché dalla sua capacità di costruire tipi umani ad
hoc, a considerare quella di Schopenhauer una filosofia ruotante
attorno all’unico pensiero della virtù morale, della redenzione
e della salvezza, quindi all’ideale mistico e metafisico della san-
tità intesa come arte del non vivere, noluntas e ascesi in quanto
estrema rinuncia e drastico ripudio di sé e del mondo, abbiamo
scordato che il prete asceta (il santo) di Schopenhauer trova il
4 Cfr. Gurisatti 2002; 2004; 2007; 2013b.
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204 Giovanni Gurisatti
suo pendant sistematico nel filosofo pratico (il saggio), il qua-
le – in virtù di una valida ragione pratica – esercita e teorizza
un’ars vivendi e una epimeleia heautou direttamente finalizzate
alla conquista di sé come base di una solida serenità terrena e
di una sana filosofia mondana. In realtà, proprio come accade
nella Genealogia nietzscheana, ascesi e askesis, mistica e saggezza
sono compresenti – con diverse accentuazioni – nella filosofia di
Schopenhauer, e non è certo un caso che molte riflessioni pare-
netiche presenti nei suoi Aforismi sulla saggezza della vita trovino
immediata corrispondenza in Ecce homo.
Del resto, il giovane Nietzsche – quello della Terza considera-
zione inattuale – se ne rende conto, parlando di Schopenhauer
come di «un educatore e di un maestro severo, del quale posso
gloriarmi» (SE 1), e del quale apprezza la «posizione pura e da
vero antico verso la filosofia» (SE 3, c.n.). In compagnia di Goethe
e Montaigne – non già di Eckhart e Buddha – Schopenhauer pre-
senta qui le caratteristiche di «onestà, serenità, fermezza» del tipo
umano dell’antico parresiaste stoico, che è in grado di contrasta-
re, con la propria condotta esemplare, la tirannide dell’epoca:
L’esempio deve essere dato con la vita visibile e non semplicemen-
te con dei libri, a quel modo quindi che insegnavano i filosofi della
Grecia: con l’aspetto, l’atteggiamento, il vestito, il cibo, i costumi più
ancora che con il parlare o addirittura con lo scrivere (...). Schopen-
hauer fa pochi complimenti con la casta accademica, si separa, aspira
all’indipendenza dallo Stato e dalla società – questo è il suo esempio,
il suo modello. (SE 3)
“Vero eremita”, “filosofo solitario”, “libero nello spirito”,
votato “alla libertà e all’onestà”, nonché dotato di “coraggiosa
visibilità filosofica”, Schopenhauer
combatte ciò che gli impedisce di essere grande, il che in lui non
significa altro che: essere liberamente e interamente se stesso (...). L’aneli-
to alla natura vigorosa, all’umanità sana e semplice, era in lui un anelito
verso se stesso. (SE 3, c.n.)
Altro che prete ascetico! Altro che rinuncia a sé e alla vita!
Altro che tedio e stanchezza! La «vita eroica» e «l’eroismo del-
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Sull’utilità e il danno dell’ideale ascetico per la filosofia 205
la veridicità» di Schopenhauer sono finalizzati, per il Nietzsche
della Terza inattuale, a un’unica decisione: «Io voglio rimanere
mio!» (SE 4).
A dire la verità, di ciò v’è ancora traccia nella prima parte della
terza sezione della Genealogia, in cui, diversamente che del pic-
colo commediante gregario Wagner, dell’eroe-guerriero Scho-
penhauer si dice pur sempre:
quando un vero filosofo rende omaggio all’ideale ascetico, uno spi-
rito realmente piantato su se stesso come Schopenhauer, un uomo e un
cavaliere dallo sguardo bronzeo, che ha il coraggio di essere se stesso [c.n.],
che sa di essere solo (...), che significa tutto questo? (GM III 5)
Di fatto, le considerazioni asketiche svolte in GM III 7-10 da
noi precedentemente analizzate si svolgono anche nel nome di
Schopenhauer, nella cui tipicità filosofica rientrano anche elemen-
ti positivi dell’ideale ascetico, come l’indipendenza (ad esempio
l’orrore per il matrimonio e i figli), la libertà, l’ozio, la solitudine,
la moderazione, il governo delle passioni, la serenità, che appar-
tengono – come si è visto – alle condizioni favorevoli di un’al-
tissima spiritualità. Schopenhauer, annota Nietzsche en passant,
«non era pessimista, quantunque lo desiderasse» (cfr. GM III 7),
poi lo paragona agli «antichi Cinici», e ne sottolinea l’indomabile
irriducibilità polemica (ibidem). Più sotto sempre di sfuggita egli
giunge a menzionare lo Eis heauton (cfr. GM III 19 e Schopen-
hauer 2003), il diario segreto di Schopenhauer, andato perduto,
ma la cui ricostruzione consente di cogliere fino a che punto, ri-
volgendosi “a se stesso”, egli non parlasse affatto il linguaggio del
prete asceta, bensì, manifestamente, quello del filosofo-saggio5.
5 «In ogni epoca c’è stata nelle nazioni civili una stirpe di monaci naturali, gente
che, cosciente di possedere capacità intellettuali superiori, ha anteposto a ogni altro bene
la formazione e l’esercizio di queste, e quindi ha condotto una vita contemplativa, cioè
attiva in senso spirituale, i cui frutti sono poi andati a vantaggio dell’umanità. Essi hanno
rinunciato di conseguenza alla ricchezza, al guadagno, alla fama terrena, ad avere una fa-
miglia propria: così vuole la legge di compensazione (...). Possedendo un grado più elevato
di coscienza, quindi un’esistenza superiore, la mia saggezza di vita consiste nel mantenere
puro e imperturbabile il godimento di essa, e a tale scopo non pretendere nient’altro» (Scho-
penhauer 2003: 59-60, c.n.).
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206 Giovanni Gurisatti
Viceversa, resta vero – e lo si è detto con chiarezza – che il ruo-
lo tipologico preponderante affidato a Schopenhauer nella Gene-
alogia è appunto quello del prete asceta, non del saggio asketico,
e ciò, in fondo, in piena coerenza con quanto Schopenhauer stes-
so afferma della propria saggezza di vita, ufficialmente relegata
in una dimensione popolare ed empirica secondaria rispetto al
suo «più alto punto di vista metafisico ed etico» (Schopenhauer
1998: 423), culminante nell’ascesi mistica. Ciò non toglie che al
tipo umano Schopenhauer – se se ne vuole rispettare la comples-
sità caratterologica –, così come alla sua opera – se se ne vuole
rispettare la complessità teorica e filologica – non appartiene solo
il tipo umano del prete asceta, ma anche, in modo complemen-
tare, il tipo umano del filosofo saggio, quindi non solo l’ascesi
mistica ma anche l’askesis intramondana.
6. La saggezza di Dioniso
Traiamo quindi alcune conclusioni dal percorso fatto, e af-
frontiamo l’ultima questione rimasta aperta, quella cioè del rap-
porto tra ideale ascetico, ideale aristocratico e ideale estetico.
a) È innegabile la presenza, in GM III, di un’attenzione di
Nietzsche per il rapporto positivo tra ideale ascetico inteso come
askesis e vita filosofica nel senso autentico del termine, di cui
quell’ideale è una “condizione di possibilità”. Che per Nietzsche
questo, nel 1887-1888, fosse un problema aperto è dimostrato
non solo dalle pagine di Ecce homo, ma anche da un passaggio
del penultimo paragrafo di GM III in cui egli si ripromette di
riaffrontare «in maniera più radicale e rigorosa» il problema
del significato dell’ideale ascetico in un altro contesto, cioè nel-
la sezione Per la storia del nichilismo europeo dell’opera, ancora
in fase di approntamento, La volontà di potenza. Saggio di una
trasvalutazione di tutti i valori (GM III 27). Ora, se, alla luce
della prospettiva da noi proposta, si considera quanto Nietzsche
afferma nel celebre frammento di Lenzer Heide datato 10 giu-
gno 1887 – che quindi precede di circa un mese la stesura della
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Sull’utilità e il danno dell’ideale ascetico per la filosofia 207
Genealogia – e intitolato appunto Il nichilismo europeo, il risul-
tato non può sorprendere: «Quali uomini si riveleranno allora i
più forti?», si chiede Nietzsche alludendo all’umanità futura del
nichilismo compiuto, e risponde:
i più moderati [c.n.], quelli che non hanno bisogno di princìpi di fede
estremi, quelli che non solo ammettono, ma anche amano una buona
parte di caso, di assurdità, quelli che sanno pensare, riguardo all’uomo,
con una notevole riduzione del suo valore, senza diventare perciò piccoli
e deboli: i più ricchi di salute, quelli che sono all’altezza della maggior
parte delle disgrazie e che quindi non hanno tanta paura delle disgrazie –
gli uomini che sono sicuri della loro potenza e che rappresentano con con-
sapevole orgoglio la forza raggiunta dall’uomo. (NF 1887, 5[71], § 15)
Questo manifesto elogio, anch’esso epocale, della “modera-
zione” unita alla forza, alla salute, al coraggio e alla potenza – che
ne esclude l’univoca riduzione a sintomo di debolezza, malattia,
viltà e rinuncia – ci consente due ulteriori considerazioni:
b) mentre l’ideale ascetico del tipo umano del prete asceta si
contrappone diametralmente – come sua malattia morale – all’i-
deale aristocratico del guerriero affermativo (nobile, virile, forte,
potente, dominatore, prevaricatore, predatore, ecc., «tutto per-
vaso di vita e di passione», GM I 10), l’ideale del saggio aske-
ta, proprio in virtù della sua moderazione, può essere non solo
compatibile con l’ideale del guerriero, ma anzi più che mai utile
– in quanto sua salute – al filosofo-guerriero stesso, nella misura
in cui, come si è visto, gli consente quel dominio (che non è ri-
mozione) e quel governo (che non è repressione) delle passioni
che, solo, purifica qualsiasi arte marziale da ogni pernicioso res-
sentiment. Poiché esiste un ressentiment della forza, e non solo
della debolezza (la «morale da schiavi»), la morale aristocratica
può esplicarsi nella sua più autentica potentia solo se il nobile, il
potente, il dominatore è al tempo stesso saggio, moderato, asceti-
co ed esercita l’autarkeia, l’ataraxia, l’enkrateia: «Se si disprezza,
non si può fare guerra» ammonisce Nietzsche, e comunque per
essere un buon guerriero «non è lecito avere i nervi…».
c) Infine, si è detto che la contrapposizione tra l’ideale ascetico
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208 Giovanni Gurisatti
del prete asceta e l’ideale estetico dell’artista dionisiaco costitui-
sce l’origine e la meta della terza dissertazione, ed è infatti all’arte
– come “antagonista tout court, volontà opposta e opposto ideale
dell’ideale ascetico” – che Nietzsche ritorna nei paragrafi conclu-
sivi della Genealogia:
L’arte, in cui appunto la menzogna si santifica e la volontà d’illusione
ha dalla sua la tranquilla coscienza, è in maniera molto più radicale del-
la scienza contrapposta all’ideale ascetico: lo avvertì l’istinto di Platone,
il più grande nemico dell’arte che l’Europa abbia fino a oggi prodotto
(...). Un vassallaggio artistico al servizio dell’ideale ascetico è perciò la
più effettiva depravazione di un artista che possa esistere. (GM III 25)
In effetti, nulla più dell’ideale ascetico sembrerebbe incom-
patibile con l’ideale estetico libero, libertario, affermativo, esu-
berante, vitale, creativo, plastico, ebbro, eccessivo, danzante,
giocoso, ecc., dell’artista dionisiaco.
Qui la prospettiva di Nietzsche si allarga, assumendo tonalità
epistemologiche e ontologiche ampie, in quella delineata dal cele-
bre capitolo Come il ‘mondo vero’ finì per diventare favola del Cre-
puscolo degli idoli. «La volontà di verità ha bisogno di una critica»
scrive nella Genealogia «in via sperimentale deve porsi una volta
in questione il valore della verità…» (GM III 24)6. Alla costrittiva
volontà di verità e di veracità cui sono strettamente legati l’ide-
ale ascetico e la moralità cristiani – nonché la scienza del dotto,
anch’esso “tipo umano” ascetico nel senso della stanchezza e della
decadenza – si contrappone la volontà di menzogna, di illusione e
di apparenza dell’artista dionisiaco, per il quale «esiste soltanto un
vedere prospettico, soltanto un “conoscere” prospettico» (GM III
12). Per l’artista dionisiaco «la volontà di parvenza, di illusione,
di inganno, di divenire e mutare è più profonda, “più metafisica”
della volontà di verità, di realtà, di essere» (NF 1888, 14[18]).
Tuttavia proprio questa liberazione estetico-dionisiaca del-
le apparenze (ovvero delle maschere), per non mutarsi in mera
commedia arbitraria delle prospettive e delle interpretazioni – al-
6 A tale questione è dedicato il contributo di Pietro Gori al presente volume.
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Sull’utilità e il danno dell’ideale ascetico per la filosofia 209
trimenti detto: in relativismo deteriore7, tanto assoluto quanto
autocontraddittorio – necessita di un katechon etico-pratico, che,
nel caso dell’artista, solo l’ideale ascetico del saggio asketa può
fornire, senza ricadere nei limiti moralistici dell’ideale ascetico
del prete asceta, il che costituirebbe un controsenso. Se infat-
ti – come altrove già abbiamo cercato di indicare (Gurisatti:
2013a) – da un lato la volontà artistica (l’ideale estetico) di il-
lusione, opposta alla volontà di verità, contribuisce a sradicare
l’apparenza da qualsiasi fondamento stabile – in campo teoretico
nell’esercizio della conoscenza, in campo pratico nell’esercizio
dell’esistenza – aprendo alla pluralizzazione irreferenziale delle
maschere, dall’altro lato solo il permanere di un contrappeso eti-
co non moralistico (l’ideale asketico) impedisce che tale positivo
sradicamento si ribalti in cattiva infinità dell’interpretazione. Se
si vuole una filosofia interpretativa davvero sana, tra aisthesis e
askesis deve stabilirsi un circolo est-etico virtuoso ed equilibrato.
In ciò consisterebbe la saggezza di Dioniso.
Insomma: proprio in virtù della sua moderazione, che però
non ha nulla del moralismo dell’ideale ascetico del prete asceta,
l’ideale ascetico del saggio asketa può essere non solo compatibile
con l’ideale estetico dell’artista dionisiaco, ma anzi più che mai
utile – in quanto sua salute – al filosofo-artista stesso, nella misura
in cui è in grado di costituire un pendant etico della sua esuberanza
estetica. L’artista dionisiaco, infatti, può essere bensì creativo nel-
la menzogna, esuberante nella maschera, ebbro nell’apparenza,
danzante nell’illusione, giocoso nell’inganno, quanto vuole, ep-
pure, per poter esercitare al meglio questa sua altissima spiritua-
lità prospettica e interpretativa, dev’essere anche capace, a nostro
avviso, di praticare quel “certo ascetismo”, che è anzitutto cura e
governo di sé. Zarathustra stesso ne è un esempio.
Il protagonista della liberazione delle apparenze, in definitiva,
dev’essere a sua volta asketicamente libero da, con e per se stes-
so – nel contempo grande attore, regista e spettatore di se stes-
7 Sul prospettivismo “morale” di Nietzsche e la sua contrapposizione con una forma
di “relativismo forte” cfr. Gori/Stellino 2014.
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210 Giovanni Gurisatti
so – in modo tale che la sua est-etica dell’esistenza, basata sulla
volontà di apparenza, menzogna, illusione, inganno, non diventi
una grottesca parodia, anzi, una farsa di se stessa, come accade
nel “mago” Wagner dello Zarathustra e della Genealogia della
morale, il commediante, falsario, mentitore par excellence, il cui
ideale ascetico il saggio Zarathustra ha ragione di temere come la
propria più terribile malattia.
Bibliografia
Gori, Pietro e Paolo Stellino: 2014. O perspectivismo moral nietzschia-
no, in: «Cadernos Nietzsche» 34/1, pp. 101-129.
Gurisatti, Giovanni: 2002. Caratterologia, metafisica e saggezza. Lettura
fisiognomica di Schopenhauer, Padova, Il poligrafo.
Gurisatti, Giovanni: 2004. Eudemonologia e soteriologia. Le due gran-
di correnti della filosofia pratica schopenhaueriana, in: «Intersezioni»
XXIV/2, pp. 281-309.
Gurisatti, Giovanni: 2007. Schopenhauer maestro di saggezza, Costabis-
sara, Angelo Colla.
Gurisatti, Giovanni: 2013a. Zarathustra e il mago. Il gioco delle masche-
re nell’opera di Nietzsche, in: Lo ‘Zarathustra’ di Nietzsche: C.G. Jung
e lo scandalo dell’inconscio, a c. di M. Gay e I. Schiffermüller, Berga-
mo, Moretti&Vitali, pp. 223-256.
Gurisatti, Giovanni: 2013b. I ‘Senilia’ di Schopenhauer. L’ultima fatica
di Franco Volpi, in: «Odeo Olimpico. Rivista dell’Accademia olim-
pica di Vicenza» XXVIII, pp. 273-291.
Schopenhauer, Arthur: 1859/20037. Il mondo come volontà e rappresen-
tazione [WWV I] e Supplementi al ‘Mondo come volontà e rappresen-
tazione’ [WWV II], a c. di A. Vigliani, Milano, Mondadori.
Schopenhauer, Arthur: 1998. Aforismi sulla saggezza della vita, in: Id.,
Parerga e paralipomena, tomo I, a c. di G. Colli, Milano, Adelphi.
Schopenhauer, Arthur: 2003. L’arte di conoscere se stessi ovvero ‘Eis
heautón’, a c. di F. Volpi, Milano, Adelphi.
Spengler, Oswald: 1924. Nietzsche und sein Jahrhundert, in: Id., Reden
und Aufsätze, a c. di H. Kornhardt, München, Beck, 1937, pp. 110-
124.
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Prospettiva e ascetismo
Una lettura di GM III 12
Carlo Gentili
1.
Al fatto che la filosofia di Nietzsche sia stata intesa prevalente-
mente come una critica della morale si deve probabilmente una
buona parte della sua fortuna. Ad avallare questa interpretazio-
ne si potrebbero naturalmente ricordare le numerose definizio-
ni che Nietzsche dà di se stesso. Ci limitiamo a citare le parole
della prefazione alla seconda edizione di Umano, troppo umano:
«Ecco che già ricomincio a fare quello che ho sempre fatto, io
vecchio immoralista e uccellatore, e parlo in modo immorale,
extramorale, “al di là del bene e del male”» (MA, Prefazione
1); e quelle, ancor più esplicite, della prefazione alla seconda
edizione di Aurora: «In noi giunge al suo compimento, posto
che vogliate una formula – l’autosoppressione della morale» (M,
Prefazione 4). Entrambe queste citazioni, tuttavia, si riferiscono
al medesimo anno, quel 1886 nel quale Nietzsche ripubblica le
sue opere precedenti più importanti dotandole di nuove prefa-
zioni e aggiunte varie e cerca, in tal modo, di dare un’impronta
unitaria alla sua riflessione1. Anche il tema della morale gli si
presenta ora strettamente congiunto alla sua filosofia; con la sua
rilettura, egli ricollega argomenti già presenti, seppure lasciati
talvolta irrisolti, nelle sue prime opere. Per quel che qui ci inte-
ressa, si tratterà di vedere come il problema della morale abbia le
1 Il caso più vistoso è certamente quello della nuova prefazione alla Nascita della
tragedia, la cui ora dichiarata «tendenza antimorale» sarebbe da misurarsi «dal silenzio
cauto e ostile con cui in tutto il libro è trattato il cristianesimo» (GT, Tentativo di auto-
critica 5).
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212 Carlo Gentili
sue radici nell’impostazione teoretica ed epistemologica della fi-
losofia nietzschiana, ossia nel modo in cui è presentata la natura
della conoscenza. Leggiamo, ancora dalla Prefazione di Umano,
troppo umano il monito che Nietzsche rivolge a se stesso:
Dovevi imparare a comprendere ciò che appartiene alla prospettiva
in ogni giudizio di valore: lo spostamento, la deformazione e l’appa-
rente teleologia degli orizzonti e ogni altra cosa che fa parte della pro-
spettiva (…). Dovevi imparare a comprendere la necessaria ingiustizia
di ogni pro e contro, l’ingiustizia come inseparabile dalla vita, la vita
stessa come condizionata dalla prospettiva e dalla sua ingiustizia. (MA,
Prefazione 6)
Attorno alla parola chiave “prospettiva” Nietzsche raccoglie
qui non solo il tema dei valori, e dunque della morale, ma anche
quello della “vita” che già caratterizza i suoi primi scritti2. La di-
mensione teoretica del concetto di “prospettiva” affiora, qui, nel
suo accostamento con l’«apparente teleologia». E che quest’ulti-
ma venga attribuita agli «orizzonti» segnala l’intero nesso proble-
matico come già presente nella filosofia del primo Nietzsche. È
infatti nella seconda Inattuale che, in relazione alla distinzione tra
sentire «in modo storico» e «non storico», egli delinea un concet-
to riconducibile a quello di prospettiva, pur non utilizzando que-
sto termine: «Ogni vivente può diventare sano, forte e fecondo
solo entro un orizzonte»; l’azione, prosegue, dipende «dal fatto
che ci sia una linea che divida ciò che si può abbracciare con lo
sguardo, ciò che è chiaro, da ciò che non è rischiarabile e oscuro»
(HL 1). Se il termine “prospettivismo” compare piuttosto tardi3
2 Valga, per tutti i passi menzionabili, quello celeberrimo della seconda Considera-
zione inattuale: «Certo, noi abbiamo bisogno di storia, ma ne abbiamo bisogno in modo
diverso da come ne ha bisogno l’ozioso raffinato nel giardino del sapere (…). Ossia ne
abbiamo bisogno per la vita e per l’azione, non per il comodo ritrarci dalla vita e dall’azio-
ne (…). Solo in quanto la storia serva la vita, vogliamo servire la storia» (HL, Prefazione).
3 Per la prima volta nel V libro della Gaia scienza (siamo, dunque, ancora nell’anno
cruciale 1886, dato che il V libro viene ultimato entro la fine di quell’anno, pur se la se-
conda edizione dell’opera apparirà solo nel 1887) dove, osservando come le nostre azioni
perdano il loro carattere personale una volta tradotte nella coscienza, Nietzsche scrive:
«Questo è il vero fenomenalismo e prospettivismo, come lo intendo io» (FW 354).
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Prospettiva e ascetismo 213
nell’opera di Nietzsche e il suo uso resta alquanto raro, il termine
“prospettiva”, nel senso specifico che qui interessa, lo troviamo,
dettagliatamente trattato, in un frammento del 1881, in cui – sotto
la premessa che «la nostra conoscenza non è una conoscenza in
sé» ma il risultato di un accumularsi di errori – viene precisato che
questi errori sono «necessari errori ottici, (…) nel caso che tutte
le leggi della prospettiva debbano essere errori in sé». Nel nostro
occhio – «un poeta inconsapevole e, in pari tempo, un logico» –
le cose appaiono come corpi a noi estranei, dotati di esistenza e
persistenza; una tale «immagine rispecchiata dell’occhio» è il fon-
damento della scienza, che è dunque «la nostra potenza poetico-
logica di fissare le prospettive per tutte le cose, mediante la quale
ci conserviamo in vita» (NF 1881, 15[9]). Questa impostazione
di carattere epistemologico viene da Nietzsche immediatamente
applicata alla morale, come si legge in un frammento dello stesso
anno: «A ogni morale appartiene un certo tipo di analisi delle
azioni: sono tutte sbagliate. Ma ogni morale ha le sue prospetti-
ve e i suoi angoli visuali» (NF 1881, 12[195]). Quegli elementi
che Nietzsche ha individuato sul piano epistemologico – “errori
necessari”, “prospettive” ecc. – concorrono quindi alla definizio-
ne della morale, come leggiamo in un frammento più tardo: «La
morale è un errore utile, o meglio (…) una menzogna ritenuta
necessaria» (NF 1888, 15[64]).
Possiamo quindi enucleare, nei testi citati, un contingente di
termini il cui significato appare pressoché intercambiabile: “er-
rori” (“ottici”, “necessari”, “utili”, o anche “azioni sbagliate”),
“immagine”, “menzogna”; il loro valore puramente epistemico è
riconducibile al concetto, apparentemente più neutro, di “pro-
spettiva”. Due dei termini citati – “immagine” e “menzogna” –
hanno già una lunga storia nell’opera di Nietzsche. Il termine
“immagine” lo troviamo già, in un contesto significativo, nella
Nascita della tragedia. Qui è la «“volontà” ellenica» a far nascere
il mondo degli dèi olimpici ponendosi «di fronte uno specchio
trasfiguratore» e creando in tal modo «la sfera della bellezza», in
cui i Greci «videro le loro immagini in uno specchio [Spiegelbil-
der], gli dèi olimpici». Conoscendo «i terrori e le atrocità dell’e-
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214 Carlo Gentili
sistenza», l’uomo greco dovette porre davanti ad essi, per poter
vivere, «la splendida nascita sognata degli dèi olimpici» (GT 3).
“Specchio”, “immagine”, “sogno”, “bellezza” – tutti ugualmente
immagini deformate della realtà – dischiudono quel regno della
“parvenza” che rende la vita possibile. Se considerata nella sua
struttura puramente epistemica, quest’impostazione non è diver-
sa da quella presentata nel già citato frammento del 1881, nel
quale la “prospettiva” è legata alla necessità della “conservazione
in vita”.
Quanto alla “menzogna”4, basterà solo accennare al rilievo che
essa assume nello scritto pubblicato postumo del 1873, Su verità e
menzogna in senso extramorale. Quel che però ci interessa qui sot-
tolineare non è tanto la ben nota definizione del linguaggio come
menzogna – in quanto la parola si fonda sulla «equiparazione di
ciò che non è uguale» (WL 1) – quanto il fatto che, tra gli stru-
menti atti a produrre menzogne, Nietzsche cita in primo luogo
l’intelletto. Esso «è concesso – unicamente come aiuto [Hülfsmit-
tel] – agli esseri più infelici, più delicati e più transitori, allo scopo
di trattenerli per un minuto nell’esistenza» (WL 1). Questa defini-
zione, per così dire al minimo, della funzione dell’intelletto come
mero Hülfsmittel è ciò che consente a Nietzsche di riconoscere
tale funzione tanto nell’uomo quanto nella zanzara. In entrambi
è l’intelletto a produrre quell’errore prospettico, quell’illusione
fondamentale, quel «pathos», che consente loro di vivere senten-
dosi entrambi «il centro (…) di questo mondo» (WL 1). L’intel-
letto è dunque uno strumento che produce prospettive, immagini
illusorie, in una parola finzioni.
Ciò che qui si avverte è un confronto serrato, anche se con-
dotto sotto traccia, con Kant. Torniamo al frammento del 1881
citato in precedenza: «Le nostre leggi sono quelle che noi met-
4 Il termine è naturalmente presente anche nella Nascita della tragedia; in particolare
nel «contrasto» tra la «effettiva verità di natura», rappresentata dal Satiro barbuto, e «la
menzogna della civiltà»; contrasto che Nietzsche definisce «simile a quello che sussiste
fra il nucleo eterno delle cose, la cosa in sé, e tutto quanto il mondo apparente» (GT 8).
Una precisazione, quest’ultima, che dev’essere intesa in riferimento tanto a Kant che a
Schopenhauer: di ciò si dovrà tener conto in merito a quanto diremo più avanti.
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Prospettiva e ascetismo 215
tiamo nel mondo – per quanto l’apparenza insegni l’inverso e
sembri indicare noi stessi come la conseguenza di quel mondo,
quelle leggi come le leggi del mondo nel loro effetto su di noi»
(NF 1881, 15[9]). Oltre alla comparsa della parola “legge” (Ge-
setz), d’inequivocabile provenienza kantiana5, si osserverà come
l’intera frase sembri ricalcare l’argomento che sta alla base della
kopernikanische Wende. Ma il punto decisivo è l’affermazione
che siamo noi a introdurre nel mondo le nostre leggi. Qui il con-
fronto con Kant è evidente, e lo diventa ancor più se consideria-
mo con la dovuta attenzione l’unico luogo nel quale Nietzsche
conduce un esplicito e diretto confronto, sia pure solo allo stato
di abbozzo, con la filosofia di Kant, in particolare con la Criti-
ca della facoltà di giudizio. All’aprile-maggio del 1868 risalgono
alcune annotazioni destinate alla stesura di una Doktorarbeit –
nota successivamente con il titolo convenzionale La teleologia
da Kant in poi – con la quale egli aveva probabilmente pensato,
per un momento, «di laurearsi non in filologia classica, ma in
filosofia» (Schlechta-Anders 1962: 58). Qui leggiamo una ver-
sione più precisa dell’affermazione contenuta nel frammento
citato: «La finalità dell’organico, la regolarità (Gesetzmäßigkeit)
dell’inorganico sono introdotte nella natura dal nostro intellet-
to» (NF 1868, 62[7]). Quanto una tale affermazione sia in li-
nea con Kant, Nietzsche lo constata poco più avanti, quando
osserva che la produzione di «qualcosa di conforme a un fine
(zweckmäßig)» potrebbe essere dovuta solo al «caso» (Zufall),
e conclude: «Egli [sc. Kant] ha ragione: la finalità sta solo nella
nostra idea» (NF 1868, 62[52]). Nietzsche riassume qui ciò che
Kant scrive nella sezione IV dell’Introduzione alla Critica della fa-
coltà di giudizio distinguendo la facoltà determinante di giudizio,
per la quale la legge che sussume il particolare nell’universale è
data a priori dall’intelletto, da una facoltà riflettente di giudizio
che interviene per ricondurre all’unità quelle leggi empiriche che
governano la molteplicità delle forme della natura, le quali non
5 Il testo originale: unsere Gesetze und Gesetzmäßigkeiten («le nostre leggi e confor-
mità a leggi») denuncia in modo ancor più evidente il debito nei confronti di Kant.
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216 Carlo Gentili
potrebbero che essere lasciate indeterminate dalle leggi universa-
li date a priori dall’intelletto. Queste leggi empiriche sono quindi
«contingenti (zufällig) secondo il modo di intendere del nostro
intelletto» e tuttavia, in quanto leggi, devono essere necessarie
secondo un principio dell’unità del molteplice, «sebbene a noi
sconosciuto»; è un tale principio ciò di cui la facoltà riflettente
di giudizio necessita per poter risalire dal particolare della na-
tura all’universale. Questo principio è la «conformità a scopi»
(Zweckmäßigkeit) della natura, del quale occorre supporre che
sia dato da un intelletto – «sebbene non il nostro» – che renda
possibile «un sistema dell’esperienza secondo leggi particolari
della natura». Il concetto della conformità a scopi della natura ci
consente di rappresentare la natura «come se [als ob] un intelletto
contenesse il fondamento dell’unità del molteplice delle sue leggi
empiriche». Lo als ob segnala che non siamo legittimati ad am-
mettere effettivamente un tale intelletto, perché con il principio
della conformità a scopi la facoltà riflettente di giudizio «dà solo
a se stessa una legge e non alla natura» (KdU, Introduzione, IV
[B XXVI-XXVIII])6. Come Kant precisa più avanti, nella Critica
della facoltà teleologica di giudizio, la conformità oggettiva della
natura a scopi può essere assunta solo soggettivamente: per il
principio di causalità – mediante il quale noi interpretiamo le
cose della natura come rapporto di mezzi a scopi – «non abbia-
mo affatto un fondamento nell’idea universale della natura», e
«neppure l’esperienza può provarcene la realtà»; perché questo
fosse possibile, dovrebbe essere intervenuto «prima un ragiona-
mento capzioso (Vernünftelei)» che avesse fatto «scivolare» (hi-
neinspielen) nella natura un concetto di scopo del quale c’è biso-
6 Nel corso del testo verranno utilizzate le seguenti sigle per le opere di Kant: P
= Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik, die als Wissenschaft wird auftreten
können; KrV = Kritik der reinen Vernunft; KpV = Kritik der praktischen Vernunft; KdU
= Kritik der Urteilskraft. Le sigle saranno seguite dal numero del paragrafo o della sezio-
ne e, nel caso di KrV e KdU, dal riferimento alle pagine della prima o seconda edizione
(indicate rispettivamente con le lettere A e B) tra parentesi quadre. Nel caso di P e KpV
si indicheranno invece i numeri di pagina dell’edizione tedesca e della sua traduzione
italiana riportate nella bibliografia conclusiva.
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Prospettiva e ascetismo 217
gno, invece, solo «per rendere comprensibile la natura secondo
un principio soggettivo di collegamento delle rappresentazioni
in noi» (KdU 61 [B 268]). Al § 75 Kant precisa che la conformità
a scopi oggettiva della natura è solo «un principio critico della
ragione». Una cosa è dire che la generazione delle cose della na-
tura è possibile solo mediante una causa che agisce secondo in-
tenzioni; altra cosa è dire: «non posso giudicare» della possibilità
e della generazione delle cose della natura, «secondo la costitu-
zione delle mie facoltà conoscitive», se non pensando una causa
che agisca secondo intenzioni: «Nel primo caso voglio stabilire
qualcosa sull’oggetto (…) nel secondo caso la ragione determina
solo l’uso delle mie facoltà conoscitive». Il primo principio è «un
principio oggettivo per la facoltà determinante di giudizio», il
secondo «un principio soggettivo solo per la facoltà riflettente di
giudizio, quindi una massima che la ragione le addossa» (KdU
75 [B 333-334])7.
Una teleologia della natura dev’essere dunque presupposta al
solo fine di comprendere la natura stessa, di poter avere con essa
un’“esperienza”. Ora, poiché solo l’uomo è in grado di “presup-
porre” un tale sistema di scopi, ciò equivale a dire che la natu-
ra può essere compresa solo a partire dall’uomo. È qui che, nel
suo abbozzo giovanile, Nietzsche individua il vizio fondamenta-
le di antropomorfismo (cfr. Gentili 2010), e la sua critica muove
dal rilievo di una petitio principii: il ragionamento di Kant non
è volto alla possibilità di comprendere la natura, bensì solo il
presupposto di una teleologia, che si dà per acquisito al fine di
una comprensione della natura stessa: «Kant cerca di dimostrare
che siamo costretti a pensare i corpi naturali come premeditati,
cioè secondo concetti di finalità. Io posso ammettere solo che
7 Cfr. anche KdU 67 [B 301]: nel concepire l’idea della natura «come un sistema
secondo la regola degli scopi», per cui «ogni meccanismo della natura secondo principi
della ragione» dev’essere subordinato a quell’idea, il «principio della ragione» spetta alla
natura «come solo soggettivo, cioè come massima»; «va da sé che questo è un principio
non per la facoltà determinante di giudizio, ma per quella riflettente, che esso è regolativo
e non costitutivo, e che noi in tal modo otteniamo solo un filo conduttore per considerare
secondo un nuovo ordine legale le cose della natura».
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218 Carlo Gentili
questo è un modo di spiegarsi la teleologia» (NF 1868, 62[3]).
In realtà, «ciò che è conforme a un fine è l’eccezione. Ciò che è
conforme a un fine è casuale. In esso si rivela una completa man-
canza di ragione» (NF 1868, 62[5]). Spiegare la vita ricorrendo
a cause finali corrisponde a una “umanizzazione” della natura;
e Nietzsche annota a questo proposito: «Esempi di un antropo-
morfismo infantile anche in Kant» (NF 1868, 62[47]). È nella
natura dell’uomo immaginare la vita secondo un’analogia con
la sua stessa esistenza: «L’uomo riconosce nella natura qualcosa
di simile e qualcosa di estraneo, e ne cerca la spiegazione» (NF
1868, 62[54]). Ma è proprio questa disomogeneità tra il simile
e l’estraneo a mettere fuori gioco «una teleologia senza lacune:
la quale non esiste»; contro di essa sta «quella terribile lotta de-
gli individui (che pure manifestano un’idea) e delle specie» (NF
1868, 62[7]). Quest’affermazione rivela lo strumento del quale
Nietzsche si serve nella sua lettura di Kant: Il mondo come volon-
tà e rappresentazione di Schopenhauer, che parla della «lotta per-
petua e implacabile» che caratterizza la varietà dei fenomeni nei
quali la volontà si oggettiva (WWV 226 [232])8. Ed è ancora qui
che Nietzsche trova lo spunto per la sua critica all’antropomor-
fismo e antropocentrismo di Kant. Scrive infatti Schopenhauer:
L’idea dell’uomo, per manifestarsi in tutto il suo valore, aveva biso-
gno di non apparire sola e distaccata, ma di essere accompagnata da
tutta la scala discendente dei vari gradi della natura, attraverso le forme
animali ed il regno vegetale, fino all’inorganico. (ibid.)
Questa attenzione a un mondo della natura nel quale l’uomo
perde la sua posizione di privilegio caratterizzerà in modo deci-
sivo la filosofia del Nietzsche maturo9. Ed è in questo contesto
8 In seguito nel testo WWV = A. Schopenhauer, Die Welt als Wille und Vorstellung.
La sigla sarà seguita dai numeri di pagina dell’edizione tedesca e della sua traduzione
italiana indicate nella bibliografia conclusiva.
9 Ci limitiamo a due esempi significativi, il primo tratto dalla Gaia scienza: «Quan-
do sarà che tutte queste ombre di Dio non ci offuscheranno più? Quando avremo del
tutto sdivinizzato la natura! Quando potremo iniziare a naturalizzare noi uomini, insie-
me alla pura natura, nuovamente ritrovata, nuovamente redenta!» (FW 109); il secondo
dall’Anticristo: «Non deriviamo più l’uomo dallo “spirito”, dalla “divinità”, lo abbiamo
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Prospettiva e ascetismo 219
che si presenta a Nietzsche, per la prima volta, il tema kantiano
della “cosa in sé”, letto dunque anch’esso alla luce di Schopen-
hauer: «La cosa in sé deve manifestare la sua unità nell’accordo
di tutti i fenomeni. Tutte le parti della natura vengono incontro
l’una all’altra, poiché una sola è la volontà» (NF 1868, 62[7]).
È la stessa idea che Schopenhauer esprime con la metafora del-
la «lanterna magica» che mostra immagini diverse pur restando
unica: «Così nella molteplicità dei fenomeni», posti nello spa-
zio «l’uno accanto all’altro», «una e identica è la volontà che si
manifesta» (WWV 226 [232]). A questa data, la “cosa in sé” si
presenta a Nietzsche in conseguenza del concetto kantiano della
conoscenza matematica. Dopo aver citato alla lettera Kant – «“Si
comprende pienamente solo ciò che si può fare da sé e realizzare
secondo concetti”» (NF 1868, 62[40]; cfr. KdU 68 [B 310])10 –
Nietzsche commenta: «Perciò si può comprendere pienamente
solo ciò che è matematico. (Dunque comprensione formale)».
Per tutto ciò che non è matematico «ci troviamo di fronte all’i-
gnoto». La conclusione che ne trae indirizza già agli sviluppi fu-
turi della sua posizione teoretico-epistemologica: «Per far fronte
a questo l’uomo inventa concetti, che però raccolgono solo una
somma di proprietà fenomeniche, non raggiungono la cosa» (NF
1868, 62[40]); dove è evidente che la «cosa» è la “cosa in sé”. E,
se il rapporto tra i fenomeni e la “cosa in sé” è ancora letto alla
luce della «lanterna magica» schopenhaueriana, il punto su cui
giova porre attenzione è quell’«inventa» (erfindet). In una parola,
ricollocato tra gli animali» (AC 14). Per altro, nell’abbozzo del 1868, questo tema mostra
anche risvolti kantiani desunti dalla Storia universale della natura e teoria del cielo, che
Nietzsche non legge direttamente ma conosce attraverso la lettura della Geschichte der
neuern Philosophie di Kuno Fischer (cfr. Gentili 2010).
10 Nella pagina da cui Nietzsche trae la citazione Kant pone la necessità di designare
una causalità della natura «secondo un’analogia con la nostra nell’uso tecnico della ragio-
ne, per avere sott’occhio la regola secondo la quale certi prodotti della natura debbono
essere indagati». In questo modo, mediante l’osservazione e l’esperimento, «noi potrem-
mo produrre da noi come la natura». Se la fisica si occupa delle «disposizioni esterne
della natura», essa può tuttavia considerare solo il loro «meccanismo», mentre il loro «ri-
ferimento a scopi (…) non può affatto esibirlo, perché questa necessità del collegamento
riguarda interamente il legame dei nostri concetti e non la costituzione delle cose» (KdU
68 [B 310]). Si tratta, pertanto, di una comprensione solamente formale.
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220 Carlo Gentili
già a questa data Nietzsche colloca la “cosa in sé” in quell’ambito
delle “invenzioni”, delle “finzioni”, degli “errori” al quale appar-
tengono, in generale, tutti i concetti. Così egli scrive in Umano,
troppo umano, citando di nuovo Kant alla lettera, questa volta
quello dei Prolegomeni:
Quando Kant dice che “l’intelletto non attinge le sue leggi dalla
natura, ma le prescrive a questa”11, ciò è pienamente vero riguardo al
concetto di natura che noi siamo costretti a collegare con essa (natura
= mondo come rappresentazione, cioè come errore), che è però il com-
pendio di una moltitudine di errori dell’intelletto. Le leggi dei numeri
sono totalmente inapplicabili a un mondo che non sia nostra rappresen-
tazione: esse valgono solo nel mondo umano. (MA 19)
La mossa decisiva contro l’antropocentrismo kantiano con-
siste proprio nel mettere in rilievo la natura irrimediabilmente
antropomorfa della nostra conoscenza; vale a dire, il fatto che la
conoscenza umana vale solo in quanto essa sia ridotta alla cono-
scenza dal punto di vista umano; al prezzo, dunque, della perdi-
ta di quella universalità che Kant preservava ritenendo l’uomo
l’unica creatura in grado di considerare la natura secondo un
sistema di fini. Se le leggi della natura, essendo concetti dell’in-
telletto umano, non sono che “rappresentazioni”, appartengono
esse stesse al mondo dei fenomeni dietro al quale la “cosa in sé”
scompare. In questa conclusione la stessa impostazione schopen-
haueriana viene superata da un’altra impostazione, nella quale
l’influenza di Schopenhauer è pure presente: quella della Storia
del materialismo di Friedrich A. Lange. Secondo Lange, infatti,
non solo la “cosa in sé” è inconoscibile, ma di essa non possiamo
dire neppure che esista: si tratta di una pura ipotesi del nostro in-
telletto, la cui attività è interamente determinata da fenomeni in
quanto «il nostro mondo non può essere altro che un mondo del-
la rappresentazione [eine Welt der Vorstellung]»; se, dunque, ci
chiediamo dove stia il fondamento delle cose, la risposta non può
che essere: «nei fenomeni». La “cosa in sé” risulta essa stessa, alla
11 Cfr. P 320 [82].
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fine, una “rappresentazione” del nostro intelletto, e la sua ne-
cessità si radica nell’organizzazione di questo, precisamente nel
principio di causalità. In altre parole, essa si rivela come la causa
(supposta come semplice ipotesi) dei fenomeni; e, con ciò, essa si
sottrae lasciando sul campo, al suo posto, il mondo dei fenomeni:
«Più la “cosa in sé” si volatilizza [verflüchtigt] e si riduce a una
semplice rappresentazione, più il mondo dei fenomeni acquista
realtà» (Lange 1866/1974: II, 498).
In questa riduzione del noumeno ai fenomeni sta la chiave
per intendere il nesso tra la prospettiva teoretico-epistemologica
e quella morale in Nietzsche. Ma, per documentare quest’af-
fermazione, dobbiamo di nuovo risalire brevemente a Kant il
quale, nella Critica della ragion pratica, distingue l’uso dell’in-
telletto mostrato nella «parte analitica della Critica della ragion
pura speculativa» – dove i principi sintetici derivati dai concetti
«potevano esistere soltanto in relazione alla intuizione, che era
sensibile»12 ed era quindi «negata alla ragione speculativa ogni
conoscenza positiva» dei noumeni – da «un mondo dell’intel-
letto puro» nel quale la legge morale si dà a conoscere come ciò
che appare «inesplicabile» a partire dai dati del mondo sensibile.
La legge morale si fonda pertanto sui noumeni – benché que-
sti continuino a non essere conosciuti, perché ogni conoscenza
non può prescindere dall’intuizione sensibile – ed è, quindi, «la
legge fondamentale di una natura soprasensibile», in virtù della
quale una «copia» del mondo dell’intelletto puro «deve esistere
nel mondo sensibile, per altro nello stesso tempo, senza danno
alle leggi di questo» (KpV 50-51 [91-93]). È per superare la dif-
ficoltà di assolvere a questo compito che, successivamente, Kant
si risolve a trattare nello specifico una facoltà di giudicare alla
quale vengono attribuite funzioni in parte diverse e accresciute
12 Cfr. KrV, II, Introduzione I [A 51]: «La nostra natura è cosiffatta che l’intuizione
non può essere mai altrimenti che sensibile, cioè non contiene se non il modo in cui siamo
modificati dagli oggetti. Al contrario, la facoltà di pensare l’oggetto dell’intuizione sensi-
bile è l’intelletto. Nessuna di queste due facoltà è da anteporre all’altra. Senza sensibilità
nessun oggetto ci sarebbe dato, e senza intelletto nessun oggetto pensato. I pensieri senza
contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche».
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222 Carlo Gentili
rispetto a quelle assegnatele nella Critica della ragion pura. La
facoltà di giudizio viene ora riconosciuta come «membro inter-
medio (Mittelglied) tra l’intelletto e la ragione» (KdU, Prefazione
[B V]). Questo Mittelglied deve ricomporre l’«immenso abisso
(unübersehbare Kluft) tra il dominio del concetto della natura, il
sensibile, e il dominio del concetto della libertà, il soprasensibi-
le» (KdU, Introduzione II [B XIX]): ciò che non è possibile me-
diante il solo uso teoretico della ragione. Ma una tale ricomposi-
zione potrà realizzarsi solo in una delle due direzioni possibili: se
non è infatti ammissibile che il mondo sensibile abbia influenza
su quello soprasensibile, si dovrà per contro ammettere che il
secondo abbia influenza sul primo:
Cioè il concetto della libertà deve realizzare nel mondo sensibile lo
scopo assegnato dalle sue leggi [seine Gesetze: dunque le leggi del con-
cetto della libertà], e di conseguenza la natura deve poter essere pen-
sata anche in modo che la conformità a leggi della sua forma si accordi
almeno con la possibilità degli scopi da realizzare in essa secondo leggi
della libertà. (KdU, Introduzione II [B XIX-XX])
Si radica in questa esigenza la necessità di una “facoltà tele-
ologica di giudizio”, ossia della «facoltà di giudicare la confor-
mità a scopi reale (oggettiva) della natura mediante l’intelletto e
la ragione» (KdU, Introduzione VIII [B L]). L’intervento della
ragione, la facoltà del soprasensibile, è qui posto da Kant con
l’intento di salvaguardare la libertà, e dunque la morale, dal con-
dizionamento del sensibile, dal momento che della legge morale
non è in ogni caso consentito avere esperienza.
Quel che fa Nietzsche è una patente contravvenzione del veto
kantiano: se il soprasensibile non è che “rappresentazione” ed
“errore”, rientra esso stesso nel modo dei fenomeni; e pertan-
to, nel rapporto posto da Kant tra sensibile e soprasensibile, è
semmai proprio il primo ad avere influenza sul secondo. Quel-
la conformità a leggi e regolarità in virtù delle quali la ragione
crede di poter comprendere la natura non sono, in realtà, che
proiezioni della misura umana sulla natura stessa. Se per Kant si
può legittimamente parlare di «belle forme» della natura poiché
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– una volta presupposta soggettivamente una conformità a scopi
della natura «nelle sue leggi particolari rispetto all’afferrabilità
[Faßlichkeit] da parte dell’umana facoltà di giudizio» – ci si pos-
sono «aspettare come possibili» prodotti della natura «come se
fossero predisposti» proprio per tale facoltà cosicché essi servo-
no «a intrattenere le facoltà dell’animo» (KdU, 61 [B 267])13,
per Nietzsche, invece, questo nesso tra bellezza e comprensione
– che non lascia fuori neppure l’aspetto morale poiché, come
abbiamo visto, è alla facoltà teleologica di giudizio, in cui ha un
ruolo fondamentale la ragione in quanto facoltà del soprasensi-
bile, che viene riconosciuto l’ufficio di presupporre nella natura
una conformità a scopi – un tale nesso è solo la riprova del ca-
rattere antropomorfico dell’impostazione kantiana: il mondo nel
suo insieme è piuttosto «caos per tutta l’eternità», nel senso
di un difetto di ordine, articolazione, forma, bellezza, sapienza e di
tutto quanto sia espressione delle nostre estetiche nature umane [un-
sere ästhetischen Menschlichkeiten] (…). L’universo non è perfetto, né
bello, né nobile e non vuol diventare nulla di tutto questo, non mira
assolutamente ad imitare l’uomo! (FW 109)14
Acquisire questa consapevolezza non significa tuttavia che
l’uomo debba rinunciare a interpretare il mondo sulla sua pro-
pria misura. L’antropocentrismo – che nell’impostazione kantia-
na si presenta a Nietzsche come mero pregiudizio in quanto, a
13 Cfr. anche KdU, Introduzione VI [B XXXIX]: il fatto che «l’ordine della natura
secondo le sue leggi particolari, in tutta la loro molteplicità ed eterogeneità», sembri
superare, a causa di ciò, «ogni nostra capacità di afferrarlo (Fassungskraft)», e possa ciò
malgrado essere adeguato a quest’ultima, è solo «contingente» (zufällig). Quando ciò
accade, per opera dell’intelletto che introduce in quelle leggi molteplici ed eterogenee
«un’unità dei principi», ciò rappresenta il raggiungimento di un intento che, in quanto
tale, è necessariamente «legato con il sentimento del piacere».
14 Nella frase di Nietzsche è possibile cogliere un’eco di Lange il quale, in un capitolo
in cui il principio della selezione naturale di Darwin viene riletto secondo l’idea kantiana
della teleologia, scrive: «È questo mondo un caso speciale tra innumerevoli mondi ugual-
mente pensabili che rimarrebbero in un caos eterno e in un’immobilità eterna, oppure si
può sostenere che, qualunque sia stata la costituzione originaria delle cose, dovette infine
prodursi, secondo il principio di Darwin, un ordine, una bellezza, una perfezione quali
noi li vediamo?» (Lange 1866/1974: II, 719).
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224 Carlo Gentili
suo dire, viene elevato a misura assoluta – diviene pienamente
legittimo se assunto come “punto di vista”, “prospettiva”. L’uo-
mo è legittimato a sentirsi centro dell’universo nella stessa misura
in cui lo sono la zanzara di Su verità e menzogna o la formica del
Viandante e la sua ombra15. A legittimare tale sentimento non
è più la pretesa superiorità dell’uomo ma l’obiettivo, comune a
qualsiasi essere vivente, della “conservazione della specie” (Ar-
terhaltung). Qui sta la radice del dissolversi della distinzione tra
un «mondo vero» – quello dell’“intelletto puro” e dei noumeni
di Kant, dei principi e delle leggi morali: in una parola, della
metafisica – e un mondo «apparente»: quello della vita sensibile:
«C’è solo un mondo, ed è falso, crudele, contraddittorio, corrut-
tore, senza senso». Per difenderci da esso «noi abbiamo bisogno
della menzogna». Alle «diverse forme di menzogna» l’uomo ha
dato i nomi della filosofia: «la metafisica, la morale, la religione,
la scienza»; «col loro sussidio si crede nella vita» (NF 1887-1888,
11[415]). Nell’efficacia ai fini della Arterhaltung sta l’autentico
valore epistemico delle conoscenze, la cui «forza» «non sta nel
loro grado di verità, bensì nella loro età, nel loro essere incor-
porate, nel loro carattere di condizione di vita» (FW 110). La
Arterhaltung può dare risposta tanto, sul piano teoretico, alla
domanda di Kant sulla possibilità dei giudizi sintetici a priori:
«È tempo di renderci conto che tali giudizi devono essere cre-
duti come veri al fine della conservazione di esseri della nostra
specie» (JGB 11); quanto può, sul piano morale, giustificare il
male: «L’odio, il piacere della perversità, la brama di rapina e
di dominio, e tutto quello che solitamente è chiamato malvagio,
appartengono alla sorprendente economia della conservazione
della specie» (FW 1).
Una volta ricondotta alla sua radice epistemica, la morale pen-
sata «come problema» fa cadere anche ogni obiezione contro di
essa. L’errore degli «storici della morale» consiste, per un verso,
15 Cfr. WS 14: «Forse la formica nel bosco immagina altrettanto fortemente di essere
meta e scopo dell’esistenza del bosco, come facciamo noi quando alla fine dell’umanità,
nella nostra fantasia, ricolleghiamo quasi involontariamente la fine della terra».
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nel presupporre un universale consenso dei popoli civili sui prin-
cipi della morale; ma, per l’altro verso, constatato «che presso
popoli diversi le estimazioni morali sono necessariamente diver-
se», nel concludere «per la non obbligatorietà di ogni morale: le
quali cose sono, entrambe, puerilità parimenti grosse» (FW 345).
Con ciò Nietzsche prende posizione tanto contro l’universalismo
quanto contro il relativismo morale; come è stato osservato, «nel
problema della morale non si tratta (…) di false opinioni né di
vera conoscenza di essa, bensì del valore che essa ha per la vita»
(Stegmaier 2012: 167). Cosicché, anche qualora si provasse che
la morale si è sviluppata «da un errore (…) non sarebbe ancora
toccato il problema del suo valore» (FW 345). Proprio in quanto
“errore”, ma produttivo ai fini della Arterhaltung, la morale svela
la sua “verità” fattuale.
2.
Se il modo in cui Nietzsche affronta il problema della mora-
le ha, alla sua radice, l’impostazione teoretico-epistemologica,
trovandosi quindi inscindibilmente legato alla “prospettiva”,
non desta meraviglia che questo nodo essenziale venga esposto
in un passaggio dell’opera che Nietzsche dedica esplicitamente
a quel problema: la Genealogia della morale e, precisamente, il §
12 della terza Dissertazione: Che cosa significano gli ideali asceti-
ci? L’obiettivo polemico di Nietzsche è, qui, Kant non meno di
Schopenhauer, per lo meno nella misura in cui, a suo giudizio, il
secondo resta sulla via tracciata dal primo a proposito della “cosa
in sé”. Esaminiamo innanzitutto il rapporto che Nietzsche pone,
in generale, tra filosofia e ascetismo: «Incontestabilmente, finché
sulla terra ci saranno filosofi, ovunque siano esistiti filosofi (…)
sussiste una particolare irritazione e astiosità filosofica contro la
sensualità». Ne fornisce la prova proprio Schopenhauer, il quale
«aveva trattato la sessualità come un nemico personale (compreso
il suo strumento, la donna, questo instrumentum diaboli)» (GM
III 7). Non è un caso che i grandi filosofi non fossero sposati:
Eraclito, Platone, Cartesio, Spinoza, Leibniz, Kant e Schopenhauer
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non lo furono. (…) Un filosofo sposato appartiene alla commedia, que-
sta è la mia tesi: e quell’eccezione di Socrate – il malizioso Socrate sem-
bra che si sia sposato ironice, proprio per dimostrare questa tesi. (GM
III 7)
Nel filosofo l’ideale ascetico è motivato dalla volontà d’indi-
pendenza che lo libera dalle costrizioni che il mondo esercita su
di lui. Il suo motto sarà dunque «pereat mundus, fiat philosophia,
fiat philosophus, fiam!» (GM III 7)16; dove l’ultima parola indica
che Nietzsche include, tra questi filosofi, se stesso. L’ideale asce-
tico ha rappresentato, per lo spirito filosofico, un travestimento
necessario per potersi manifestare: «Il prete ascetico ha costitui-
to, fino ai nostri tempi, la ripugnante e cupa forma larvale sotto la
quale soltanto la filosofia ebbe diritto di vivere» (GM III 10). Ciò
che il “prete ascetico” nega è la propria esistenza particolare e
individuale, che viene posta «in relazione a un’esistenza di specie
del tutto diversa», per la quale la vita individuale non ha che «il
valore di un ponte». La vita diviene per l’asceta un errore e un
«cammino sbagliato» e la sua «volontà di potenza» si manifesta
come una forza che vuole «ostruire le sorgenti della forza», rivol-
gendo il suo sguardo «astioso e perfido» contro la «prosperità
fisiologica, in particolare contro la sua espressione, la bellezza, la
gioia» (GM III 11). Una volta che questa volontà ascetica sia pas-
sata nella filosofia, quell’esistenza “di specie del tutto diversa”
diviene il «regno della verità e dell’essere», il cielo della metafisi-
ca. Anche nel «concetto kantiano del “carattere intelligibile delle
cose”» – quello che, come abbiamo visto sopra, Kant chiama il
«mondo dell’intelletto puro» – sopravvive «qualcosa di questa
lasciva disarmonicità ascetica» (GM III 12). Quel che Nietzsche
individua come il risultato di questa disposizione ascetica della
16 Il motto inventato da Nietzsche è una palese rielaborazione del detto «fiat iusti-
tia, pereat mundus» che la tradizione attribuisce all’imperatore Ferdinando I d’Asburgo.
Dato il contesto, tuttavia, è più che probabile che Nietzsche voglia alludere all’uso che
Kant ne fa nello scritto Per la pace perpetua, in cui così è spiegato: «“Regni la giustizia,
dovessero anche perire tutti insieme i furfanti che abitano il mondo”, è un principio giu-
ridico coraggioso, che tronca tutte le tortuose vie tracciate dall’inganno o dalla violenza»
(Kant 1795/1992: 94 [196]).
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Prospettiva e ascetismo 227
filosofia è proprio l’idea della “cosa in sé”, che gli appare come
l’impoverimento del mondo reale e sensibile, il risultato di una
sottrazione delle determinazioni individuali da un’idea di sog-
gettività che si trova ridotta a mera astrazione. Su questa linea,
tuttavia, oggetto della sua critica diviene Schopenhauer tanto
quanto Kant: «D’ora innanzi guardiamoci meglio (…) signori
filosofi, dal pericoloso, antico favoleggiamento concettuale, che
ha impiantato un “puro, senza volontà, senza dolore, atemporale
soggetto della conoscenza”» (GM III 12). La frase che Nietzsche
riporta tra virgolette è una citazione da WWV, § 34, in cui Scho-
penhauer distingue tra una «conoscenza comune delle cose par-
ticolari» e una conoscenza «delle idee». Nella seconda il soggetto
tralascia i rapporti tra le cose fondati sul principio di ragion suf-
ficiente per assurgere «a soggetto conoscente puro, a soggetto che
è al di là dal dolore, di là dalla volontà, di là dal tempo». Egli non
si cura più delle cose come esse sono in relazione tra di loro o con
lui, «ma unicamente e semplicemente di ciò che le cose sono»; e la
cosa particolare diviene, in questa contemplazione, «l’idea della
sua specie», in cui la volontà, ossia «l’in sé dell’idea», si rende in-
dipendente dalla rappresentazione (WWV 256-258 [263-265]).
Nietzsche vede qui all’opera «concetti contraddittori come
“pura ragione”, “assoluta spiritualità”, “conoscenza in sé”». La
contraddizione sta nella pretesa di escludere dal nostro concet-
to della cosa quella percezione sensibile che, sola, rende la cosa
percepibile: «Qui si pretende sempre di pensare un occhio che
non può affatto venir pensato»; si pretende di escludere quelle
«forze attive e interpretative, mediante le quali soltanto vedere
diventa un vedere qualcosa» (GM III 12). Schopenhauer scrive
infatti che, nella conoscenza delle idee, occorre fare in modo che
«l’oggetto sembri esistere da solo, senza nessuno che lo percepi-
sca» (WWV 257 [264]). Qui, tuttavia, Nietzsche sembra voler
opporre a Schopenhauer proprio Kant; ma si tratta, in realtà, di
un Kant che viene opposto a sé stesso. Infatti, «eliminare in ge-
nere la volontà», «sospendere tutte quante le passioni (Affekte)»,
non significherebbe altro che «castrare l’intelletto». Il che sem-
bra un richiamo a Kant, che dichiara «vuoti» i pensieri «senza
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228 Carlo Gentili
contenuto», ossia privi di quegli oggetti che possono essere dati
solo nella sensazione (KrV II, Introduzione I [A 51]; cfr. supra,
nota 12); ma è, nel contempo, un richiamo contro Kant, il quale
dichiara altresì che, se la «materia» dei fenomeni può esser data
solo a posteriori, la loro «forma» deve darsi «a priori nello spiri-
to», e deve dunque «potersi considerare separata [abgesondert]
da ogni sensazione» (KrV I, 1 [A 20]). Che, nel brano citato,
Nietzsche usi il termine Affekte (nella traduzione italiana reso,
forse non del tutto propriamente, con “passioni”)17, suona esso
stesso come un implicito riferimento a Kant. Nell’Estetica tra-
scendentale della Critica della ragion pura, infatti, Kant definisce
la «sensazione» (Empfindung) come «l’azione di un oggetto sul-
la capacità rappresentativa, in quanto noi ne siamo affetti [affi-
ziert]» (KrV I, 1 [B 34-A 20]). Successivamente tuttavia, nella
Logica trascendentale, egli definisce l’intelletto «la facoltà di pro-
durre da sé rappresentazioni, ovvero la spontaneità della cono-
scenza», che è però «la facoltà di pensare l’oggetto dell’intuizione
sensibile» (KrV II, Introduzione I [A 51]; cfr. supra, nota 12).
L’intelletto appare quindi, per un verso, necessariamente legato
all’intuizione sensibile, per l’altro anche, tuttavia, indipendente
da essa, in quanto facoltà spontanea. La posizione di Nietzsche
sembra costringere Kant al vincolo formulato dalle sue stesse pa-
role per cui, se le intuizioni prive di concetti non possono darci
conoscenza, non lo possono però neppure i concetti «senza che
a loro corrisponda in qualche modo una intuizione» (KrV II,
Introduzione I [B 75]). Se, kantianamente, è la sensibilità la facol-
tà – sia pure solo “ricettiva” – che costituisce la fonte originaria
della nostra conoscenza, tutto quanto segue – compresa l’attività
dell’intelletto – resta necessariamente su questa linea. È a questa
linea che Nietzsche dà il nome di “prospettiva”. La definizione
di ciò che un oggetto è non proviene da una facoltà, l’intelletto,
di cui si supponga in qualche modo (secondo Nietzsche con-
17 Fatto salvo, naturalmente, il significato originario del termine “passione” (dal lt.
patior e dal gr. pascho) che è l’“essere passivo”, il “subire”; un significato che, tuttavia,
rimane occultato nell’uso comune del termine.
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Prospettiva e ascetismo 229
traddittoriamente) anche un’attività spontanea, ma dalla presa in
considerazione del maggior numero possibile di “prospettive”
radicate nella vita percettiva sensibile:
Esiste soltanto un vedere prospettico, soltanto un «conoscere» pro-
spettico; e quanti più affetti [Affekte] lasciamo parlare sopra una deter-
minata cosa, quanti più occhi, differenti occhi sappiamo impegnare in
noi per questa stessa cosa, tanto più completo sarà il nostro «concetto»
di essa, la nostra «obiettività». (GM III 12)
Che Nietzsche parli di «obiettività» rivela che ciò che egli
pone qui in questione è proprio la legittimità della “cosa in sé” e,
più esattamente, la distinzione posta da Kant tra l’esistenza e la
conoscibilità della “cosa in sé”. Se, nel brano citato, egli sembra
fare confusione (dal punto di vista dell’ortodossia kantiana) tra il
«concetto» di una cosa e l’«obiettività», questa apparente confu-
sione indica proprio che – a parer suo e, evidentemente, contro
Kant – la pretesa «obiettività» (la “cosa in sé”) altro non può es-
sere che il concetto dell’oggetto che ricade, in quanto tale, nella
“prospettiva”. Se la nostra conoscenza è «soltanto» prospettica,
anche la “cosa in sé” – poiché soltanto ciò che è conosciuto può
essere ri-conosciuto anche come esistente18 – costituisce l’aper-
tura di una prospettiva in cui essa si dà semplicemente come for-
ma vuota19 in cui si raccoglie la totalità dei fenomeni.
Della difficoltà di distinguere tra la “cosa in sé” e il concetto
dell’oggetto – di modo che la prima possa stare completamente
a parte rispetto all’attività conoscitiva dell’intelletto legata alla
sensibilità – si rende conto lo stesso Kant. Nei Prolegomeni egli si
interroga sull’eventualità che l’aver affermato come unica cono-
scenza possibile quella dei fenomeni – «semplici rappresentazio-
18 Cfr. FW 355, in cui il concetto di “conoscenza” (Erkenntnis) è analizzato nella sua
derivazione dal verbo erkennen (“riconoscere”). Cosicché Nietzsche può interrogarsi su
ciò che significa quando uno «del popolo» afferma: «“Lui mi ha riconosciuto” [erkannt]»
e concludere che «conoscenza» (Erkenntnis) non significa altro che questo: «Qualcosa
d’ignoto dev’essere ricondotto a qualcosa di noto. (…) Il noto, vale a dire: ciò cui siamo
così abituati da non meravigliarcene più».
19 Cfr. NF 1885, 40[65]: «“Non il mondo come cosa in sé – esso è vuoto, vuoto di
senso e degno di un’omerica risata!”».
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230 Carlo Gentili
ni della sensitività» – possa procurargli l’accusa di «evidente ide-
alismo» (ossia di non aver fatto un passo oltre Berkeley). Ma una
tale accusa, argomenta Kant, sarebbe plausibile se si affermasse
che non esistono «altri esseri che pensanti» per i pensieri dei
quali non esistessero oggetti corrispondenti fuori di essi. Questo
sarebbe “idealismo”. Poiché, al contrario, egli ha supposto che le
rappresentazioni degli oggetti sono prodotte dalle affezioni che
quegli stessi oggetti producono sui nostri sensi – l’intuizione, è
scritto nell’Estetica trascendentale, ha luogo solo «a condizione
che l’oggetto ci sia dato» e che esso pertanto «modifichi» (affi-
ziere) lo spirito (KrV I, 1 [B 34]) – ciò significa che, se non pos-
siamo dire ciò che quegli oggetti siano “in sé”, possiamo tuttavia
certificare la loro esistenza. «Io ammetto, adunque, certamente
che fuor di noi ci sian dei corpi, cioè cose»; e la parola “corpo”
«significa soltanto il fenomeno di quell’oggetto che è a noi sco-
nosciuto, ma che non per questo è meno reale» (P 288-289 [44]).
Questa spiegazione solleva tuttavia le obiezioni di Schopen-
hauer, secondo il quale Kant, pur essendo nel giusto nel ricono-
scere la “cosa in sé”, cade nell’errore di derivarla dall’intuizione
empirica. Quest’ultima, infatti, «è e rimane veramente nostra sola
rappresentazione; è il mondo come rappresentazione»; possia-
mo giungere «all’essere in sé» di questo mondo solo ricorrendo
«all’autocoscienza, che svela la volontà come l’in sé del nostro
proprio fenomeno» (WWV 588 [606]). L’errore di Kant consiste-
rebbe propriamente nel non aver distinto la conoscenza intuitiva
dalla conoscenza astratta, come si vede nel momento in cui l’og-
getto puramente intuito nella sensazione, in uno stato quindi di
«pura ricettività», diviene propriamente un oggetto – l’«“oggetto
d’esperienza”» (WWV 589 [607]) – grazie all’intervento delle
categorie, ossia dei concetti puri dell’intelletto. Con ciò «la cono-
scenza intuitiva è totalmente abbandonata» ed entra in essa una
classe diversa di rappresentazioni: i concetti astratti. In questo
modo Kant «porta il pensiero già nell’intuizione e pone le basi
per l’irrimediabile mescolanza (Vermischung) di conoscenza in-
tuitiva e conoscenza astratta». Poiché, però, non solo l’oggetto
viene compreso grazie alle categorie dell’intelletto ma, nel con-
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tempo, questi concetti generali hanno per oggetto «cose singole»,
egli porta anche «l’intuizione nel pensiero» (WWV 592 [610]).
Di questa mescolanza appare segnata la stessa “cosa in sé”. Nella
distinzione, posta da Kant, tra la rappresentazione, l’oggetto della
rappresentazione (pensato dall’intelletto tramite le categorie), e la
“cosa in sé” posta al di là del conoscibile, il secondo rappresenta
un «ibrido» (Zwitter) che, se non è la “cosa in sé”, è certamente
«il suo affine più vicino» (WWV 598 [616]), in quanto Kant lo
costruisce «con ciò che egli ha tolto in parte alla rappresentazione
(…) in parte alla cosa in sé» (WWV 600 [618]). Poiché tutto il
processo conoscitivo si avvia con l’intuizione sensibile, anche la
“cosa in sé” porta il marchio di questa “ibridazione”. L’errore di
Kant si colloca quindi, secondo Schopenhauer, a monte: in quella
distinzione tra rappresentazione e oggetto della rappresentazio-
ne che «già Berkeley» aveva dimostrato infondata (WWV 598
[616]). Già nelle pagine precedenti egli si era dichiarato sorpre-
so che Kant non avesse dedotto l’esistenza relativa del fenomeno
«dalla verità semplice, così a portata di mano, innegabile, “nessun
oggetto senza soggetto”» (WWV 586 [603]), nel qual caso sarebbe
stato costretto a constatare che l’oggetto è sempre dipendente e
condizionato dal soggetto. In un primo momento Schopenhauer
pensa che Kant avesse eluso «questo principio berkeleyano» pro-
prio per non incorrere nell’accusa di “idealismo”, incappando
tuttavia, con ciò, nelle contraddizioni che egli rileva nella struttu-
ra complessiva della Critica della ragion pura. Quando però gli ca-
pita di leggere la prima edizione (1781) dell’opera, egli vi scopre
una frase, soppressa nella seconda edizione (1787), che risolve, a
suo dire, ogni contraddizione, in quanto riporta il mondo esterno
alla «pura rappresentazione del soggetto conoscente». La frase,
citata da Schopenhauer, recita:
“Se viene meno il soggetto pensante, l’intero mondo corporeo deve
venire meno, in quanto esso non è che il fenomeno nella sensibilità del
nostro soggetto e una specie delle sue rappresentazioni”. (WWV 586
[604]; cfr. KrV [A 383])
In questo modo, tanto l’intuizione sensibile quanto l’intellet-
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to sarebbero ricondotti sul lato della rappresentazione, da cui
sarebbe invece liberata la “cosa in sé”, assegnata alla volontà in
quanto “in sé” del fenomeno che può essere colto solo nell’au-
tocoscienza.
Non è questo il luogo in cui analizzare la fondatezza della cri-
tica di Schopenhauer. Ci preme piuttosto rilevare che queste pa-
gine, che si leggono nell’appendice del Mondo intitolata Critica
della filosofia kantiana, sono ben note a Nietzsche: compresa la
citazione del passo omesso da Kant. È infatti una risposta proprio
al problema lì posto da Kant quanto leggiamo in un frammento
del 1881: «Un mondo senza soggetto – è possibile pensarlo? Ma
si pensi ora tutta la vita annullata d’un colpo; perché tutto il resto
non potrebbe continuare a muoversi tranquillamente, ed essere
così come ora lo vediamo?». Poiché il soggetto pensante è l’uo-
mo, il venir meno del mondo corporeo una volta eliminato l’uo-
mo che lo pensa appare a Nietzsche la conferma del vizio antro-
pomorfico di Kant. Del pari è una risposta a Kant l’affermazione
che leggiamo subito dopo: «Posto che i colori siano soggettivi
– niente ci dice che essi non sarebbero pensabili oggettivamente»
(NF 1881, 10[D82]). Nei Prolegomeni Kant aveva sostenuto che
la sua dottrina non può dirsi idealistica tanto quanto non può
ritenersi idealista «colui che vuol far valere i colori non come
qualità che ineriscono all’oggetto in sé ma soltanto come modifi-
cazioni inerenti al senso della vista». Se, però, Kant ricava da ciò
che le proprietà che costituiscono l’intuizione di un corpo appar-
tengono solo al suo fenomeno e questo non significa che l’esisten-
za della cosa venga «tolta» (aufgehoben) – come fa l’“idealismo”
–, «ma soltanto si mostra che non possiamo affatto, attraverso i
sensi, conoscerla come è in sé» (P 289 [45]), Nietzsche fa invece
un deciso passo oltre Kant affermando che niente può escludere
che il noumeno coincida con il fenomeno: «La possibilità che il
mondo sia simile a quello che ci appare non è affatto eliminata,
quando riconosciamo i fattori soggettivi». Se è data questa coin-
cidenza, non c’è più alcun bisogno di privilegiare la posizione
dell’uomo identificando questi “fattori soggettivi” esclusivamen-
te con il pensiero (sia esso quello delle categorie o la “cosa in
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Prospettiva e ascetismo 233
sé” semplicemente pensata). Per di più, «volersi rappresentare il
mondo senza soggetto» – «rappresentare senza rappresentazio-
ne» – è una contraddizione che solo il pensiero può formulare:
occorrerebbe pur sempre, infatti, «eliminare il soggetto con il
pensiero» (das Subjekt wegdenken). Questo wegdenken è mani-
festamente possibile solo all’uomo. Ma, se si elimina l’uomo sog-
getto pensante, ecco che la certificazione dell’esistenza del mon-
do corporeo può essere fornita da qualsiasi altro essere vivente.
Mirando evidentemente troppo basso nel numero, in riferimento
a quello che proprio Kant chiama le infinitamente «molteplici
forme della natura» (KdU, Introduzione IV), Nietzsche anno-
ta che «forse, vi sono centinaia di migliaia di rappresentazioni
soggettive»; se, dunque, si «elimina col pensiero» (wegdenken)
il mondo umano, «resta quello delle formiche» (NF 1881, 10[D
82]). Ed è, questa, l’applicazione diretta di un pensiero di Scho-
penhauer, il quale osserva che – se l’impressione non è che «una
pura sensazione nell’organo di senso» che viene trasformata in
rappresentazione mediante l’applicazione del principio di causa-
lità (dunque mediante una prestazione basica dell’intelletto, sen-
za che intervengano i concetti e i pensieri, legati, secondo quan-
to Kant stesso afferma, alla “spontaneità” dell’intelletto stesso,
ossia a una sua fraintesa, secondo Schopenhauer, indipendenza
dall’intuizione) e delle forme intuitive dello spazio e del tempo
– allora questa rappresentazione può essere distinta dall’oggetto
solo «se ci si pone la questione della cosa in sé, mentre se se ne
prescinde è identica con esso». Con ciò «l’ufficio dell’intelletto
e della conoscenza intuitiva è compiuto (…). Perciò anche l’ani-
male ha queste rappresentazioni» (WWV 591-592 [609-610]).
In linea con questa impostazione è la conclusione del frammento
di Nietzsche, che accoglie l’affermazione fatta da Kant nel passo
omesso citato da Schopenhauer ma la applica non già all’uomo,
bensì all’animale, perché anch’esso è capace di sensazioni: «E se
si pensasse di eliminare tutta la vita tranne la formica: davvero
da questa dipenderebbe l’esistenza? Sì, il valore dell’esistenza di-
pende dall’essere senziente» (NF 1881, 10[D82]).
Facendo un passo oltre Kant, Nietzsche fa però un passo an-
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che oltre Schopenhauer. Se, infatti, l’obiettivo di quest’ultimo
è pur sempre di salvaguardare la “cosa in sé”20, limitandosi a
criticare il modo in cui Kant vi giunge, per Nietzsche, più radi-
calmente, la “cosa in sé” non esiste o è, al massimo, una mera
finzione21 postulata dalla metafisica22. Già in un frammento del
1872-1873 è possibile cogliere il suo distacco da Schopenhauer:
«Se noi riconduciamo l’intero mondo intellettuale sino allo sti-
molo e alla sensazione, questa percezione poverissima fornisce
una spiegazione irrisoria». Ancor più netta è l’osservazione im-
mediatamente successiva: «La proposizione (…) non vi è sog-
getto senza oggetto, né oggetto senza soggetto, è perfettamente
vera, ma di una estrema banalità». Posto il problema in questi
termini, la conclusione rigorosamente sviluppata non può porta-
re che all’irrilevanza della “cosa in sé”: «Non possiamo affermare
nulla riguardo alla cosa in sé, poiché sotto i nostri piedi abbia-
mo tolto il punto di appoggio [Standpunkt] fornito da chi cono-
sce, cioè da chi misura». Un tale «essere che misura» è l’uomo,
dato che Nietzsche ipotizza una derivazione del termine Mensch
(“uomo”) da messen (“misurare”). Ma, contro la pretesa centra-
lità di questo essere, Nietzsche gioca nuovamente la carta della
critica dell’antropomorfismo: «Anche la pianta è un essere che
misura». Le proprietà delle cose – «che cosa siano le cose» – «ci
interessano non già in se stesse, ma in quanto agiscono su di noi»
(NF 1872-1873, 19[156]).
È a partire da qui che Nietzsche comincia a immaginare una
funzione della conoscenza scientifica che approderà all’idea di
una gaia scienza. Come si ricorderà, in GM III 12 egli parla della
necessità di impegnare «quanti più affetti» e «quanti più occhi»
20 Cfr. NF 1885, 34[82]: «Schopenhauer credette di aver trovato – in una facoltà già
sufficientemente stimata, la volontà – lo stesso e anche di più [sc. rispetto alla “intuizione
intellettuale” di Schelling], ossia la “cosa in sé”».
21 Cfr. NF 1885, 38[14]: «La “cosa” è solo una finzione, la “cosa in sé” è addirittura
una finzione contraddittoria e illecita; ma anche il conoscere, quello assoluto e quindi
anche quello relativo, è del pari solo una finzione!».
22 Cfr. GD, I quattro grandi errori 3: «Per non parlare della “cosa in sé”, dell’horren-
dum pudendum dei metafisici!».
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nella determinazione di una cosa, in modo da giungere a una
supposta completezza del «vedere prospettico». In una parola,
ciò significa, come abbiamo già rilevato, che solo in una tale sup-
posta completezza di tutte le prospettive possibili noi potremmo
determinare ciò che la cosa sia, giungendo all’identificazione di
fenomeno e noumeno. Questo compito potrebbe essere porta-
to a termine solo da una scienza puramente descrittiva. Ad essa
Nietzsche accenna in un frammento ancora del 1872-1873, nel
quale parla della conoscenza scientifica come di una forma di
«rispecchiamento» (Wiederspiegelung) che si sviluppa in parallelo
con lo svilupparsi dell’uomo: «L’immagine del mondo diventa
dunque sempre più vera e più completa». Ponendosi come conti-
nuazione del processo naturale, questa conoscenza produrrà una
«graduale liberazione da ciò che è troppo antropomorfico» (NF
1872-1873, 19[158]). Successivamente, tuttavia, proprio questo
modello di scienza gli appare in linea con il concetto tradiziona-
le, che mira alla conoscenza positiva delle cose: noi chiamiamo
«“spiegazione”» ciò che è in realtà solo «“descrizione”». Di-
cendo che una cosa (l’effetto) segue a un’altra (la causa), ancora
«non abbiamo compreso nulla»; descrivendo le cose, non faccia-
mo altro che proiettarvi «la nostra immagine»: la scienza è «la
più fedele umanizzazione possibile delle cose» (FW 112).
Non è pertanto possibile ottenere, con questo modello di
scienza, una descrizione della natura che prescinda dall’uomo;
non è neppure possibile sommare tutte le possibili prospettive
che appartengono alla sfera del vivente. L’identificazione di fe-
nomeno e noumeno si rivela irrealizzabile. Da questa irrealizza-
bilità emerge l’idea di una gaia scienza: «Ridere di se stessi come
si dovrebbe, se si volesse ridere procedendo da tutta la verità [aus
der ganzen Wahrheit heraus]»; da quest’ultima non può esse-
re esclusa nessuna prospettiva legata al vivente, e non ne può
quindi emergere che la nostra «sconfinata abiezione di mosca e
ranocchio». Solo quando avremo appreso a ridere della nostra
pretesa di conoscere, quando il riso sarà «alleato alla saggezza,
forse allora ci sarà, se non altro, una gaia scienza» (FW 1). In una
scienza come questa, la “cosa in sé” non scompare, ma si presen-
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ta essa stessa come prospettiva: «Il “che cos’è ciò?” è un dar sen-
so, visto da un’altra cosa. L’“essenza”, l’“entità” sono qualcosa
di prospettivistico e presuppongono già una pluralità. Alla base
c’è sempre un “che cos’è ciò per me?” (per noi, per tutto ciò che
vive, ecc.)» (NF 1885-1886, 2[149]).
La partita non è però, con ciò, ancora chiusa. Che cosa impe-
direbbe, infatti, di ridurre la pluralità delle prospettive a semplici
punti di vista soggettivi (il “per me”)? Che non esistano fatti ma
solo interpretazioni è riconducibile alla soggettività delle inter-
pretazioni? «“Tutto è soggettivo”, dite voi», ma aggiungere il sog-
getto all’interpretazione è già un’interpretazione: «In quanto la
parola “conoscenza” abbia senso, il mondo è conoscibile; ma esso
è interpretabile in modi diversi, non ha dietro di sé un senso, ma
innumerevoli sensi. “Prospettivismo”» (NF 1886-1887, 7[60]).
Dunque la pluralità di senso è già data nel mondo. Ora, tuttavia,
come posso cogliere questa pluralità di senso se la mia conoscenza
è puramente prospettica, se ogni mio atto conoscitivo è compreso
ogni volta nei limiti della prospettiva? Come posso avere consa-
pevolezza che la mia conoscenza è prospettica, se proprio il fatto
che sia prospettica non mi consente di intenderla come tale? E,
in aggiunta: che cosa significa ancora “conoscenza”, date queste
premesse? Per garantire questa possibilità dovrebbe esistere un
punto di vista più elevato dal quale poter concludere che, appun-
to, la mia conoscenza è prospettica. Nell’aforisma 374 (Il nostro
nuovo infinito) del quinto libro della Gaia scienza Nietzsche nega
con decisione l’esistenza di un tale punto di vista: definire fino
a che punto l’esistenza sia prospettica non può essere stabilito
«nemmeno attraverso la più diligente analisi» perché, in quest’a-
nalisi, «l’intelletto umano non può fare a meno di vedere se stesso
sotto le sue forme prospettiche e soltanto in esse. Non possiamo
girare con lo sguardo il nostro angolo» (FW 374). Questo appro-
do scettico, quasi un esito afasico, della concezione nietzschiana
della conoscenza, è tuttavia possibile solo se si mantiene quanto
meno la consapevolezza che la nostra conoscenza è prospettica. Il
che è consentito dalla consapevolezza che le prospettive sono infi-
nite; che, se è impossibile raccogliere tutte le prospettive fenome-
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niche fino a farle coincidere con il noumeno, quest’ultimo resta
tuttavia come ipotesi puramente negativa e regolativa che guida
la nostra conoscenza. La “cosa in sé” di Kant diviene il “nuovo
infinito” di Nietzsche: è l’ultima partita che la “cosa in sé” può
ancora giocare. Come ha scritto Volker Gerhardt, «ogni essere
comprende della realtà sempre e soltanto la sua porzione speci-
fica, e questa porzione è per lui l’intero». Se non esiste «alcuna
prospettiva complessiva assoluta che circoscriva tutte le altre»,
essa tuttavia, proprio in quanto si sottrae, può essere considerata
tra quelle che Kant definiva le «“condizioni trascendentali”» del
conoscere (Gerhardt 2006: 141-142).
Benché il giudizio di Nietzsche sullo scetticismo appaia on-
divago – ora celebrato come imprescindibile strumento teo-
retico contro i dogmatismi della metafisica e i pregiudizi della
morale, ora condannato come malattia della volontà che inibi-
sce le istanze legate alla vita – il risultato della sua impostazione
teoretico-epistemologica si colloca decisamente nel segno della
scepsi. Nell’esito afasico di questa scepsi, il riso della gaia scien-
za si sostituisce alla volontà di affermare e di conoscere. Questo
esito è già chiaramente indicato in un aforisma del Viandante e
la sua ombra, in cui un vecchio domanda allo scettico Pirrone:
«Oh amico! Tacere e ridere – è ora questa tutta la tua filosofia?»;
«Non sarebbe la più cattiva» è la risposta di Pirrone (WS 213).
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Gaia scienza e ideali ascetici
(GM III 23-28)
Helmut Heit
Al termine della Genealogia della morale, Nietzsche sviluppa
l’idea secondo la quale la scienza non si presenta affatto come
un antagonista dell’ideale ascetico, ma al contrario come la sua
forma più sublime. Tale prospettiva è strettamente connessa alla
concezione di una scienza gaia, alla quale egli fa ripetutamente
riferimento nella Genealogia. Al fine di chiarire il rapporto tra
scienza e ascesi è innanzitutto necessario comprendere cosa sia-
no e cosa significhino gli ideali ascetici, e in secondo luogo cosa
sia e cosa possa significare la scienza. Per quanto riguarda la se-
conda questione, tenterò di distinguere, sulla base dell’esemplare
analisi di un testo di Max Heinze, la forma ascetica della scien-
za da quella “gaia”. Ponendo particolare attenzione alla filoso-
fia della scienza di Nietzsche, risulta evidente che la polemica
con la volontà di verità istituzionalizzata non appare unilaterale
e, contrariamente alla lettura fornita da Charles Larmores, nem-
meno inconsistente. La “gaia scienza” rappresenta un’occasione
storico-culturale, sviluppatasi attraverso una lunga, accurata e
rigorosa ricerca della verità. Ora che la fede e la certezza della
conoscenza della verità si sono fatte fragili, la gaia scienza come
forma di filosofia potrebbe assumersi il compito di delineare un
nuovo “perché” alternativo agli ideali ascetici perdurati sinora.
1. Gaia scienza come compenso della serietà laboriosa
Lo scritto polemico Genealogia della morale può a buon dirit-
to venire considerato come un libro sobrio e persino scientifico,
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come un «vero e proprio trattato», nel quale Nietzsche perviene
«ad uno dei punti più alti della propria arte dell’argomentazione»
(Höffe 2004: 7). Egli sembra anche mantenere un atteggiamento
generalmente aperto nei confronti della scienza e delle sue pre-
tese di validità1. La Genealogia della morale si presenta al lettore
quasi come uno studio finalizzato a un’indagine storico-culturale
sull’«origine dei nostri pregiudizi morali» (GM, Prefazione 2),
che fa vanto tanto del suo «addottrinamento storico e filologico»,
quanto della sua sensibilità per i «problemi psicologici» (GM,
Prefazione 3). Già il suo titolo promette “logoi” sulla “genesis”, e
in apertura della prima Dissertazione si parla addirittura di «sa-
crificare ogni idealità alla verità» (GM I 1). Non a caso Nietzsche
pone la nuova opera esplicitamente in connessione con lo scritto
giovanile, talora definito positivistico, Umano, troppo umano, che
avrebbe inaugurato la fase dello spirito libero e del cosiddetto
Réealismus2. Anche nella Genealogia vi sono tracce che trovano
esplicita risonanza in Rée, ossia che ora, in seguito al compimen-
to della religione e della metafisica, e «da quando hanno scritto
Lamark e Darwin, i fenomeni morali possano essere riportati
altrettanto bene a cause naturali» (Rée 1877/2004: 127). A dif-
ferenza delle «ipotesi inglesi costruite sulle nuvole», Nietzsche
indirizza expressis verbis l’attenzione sul «grigio, il documentato,
l’effettivamente verificabile, l’effettivamente esistito» (GM, Pre-
fazione 7). Questo suona come un programma, che da altri sarà
praticato in modo più dettagliato e anche più “grigio”, come nel
caso di Foucault, che nei suoi studi archeologici e genealogici si
1 Maudemarie Clark (1990: 103), dal momento che sembra non distinguere né co-
gliere differenze di grado tra critica alla scienza e critica alla verità, interpreta questo
atteggiamento positivo verso la scienza come prova che Nietzsche, al più tardi nella Ge-
nealogia, abbia rivisto le sue precedenti critiche alla verità.
2 Per il termine Réealismus si veda la lettera a Paul Rée del 10 agosto 1878, così
come Ruckenbauer (2002: 37-83). Significativamente Nietzsche sottolinea inoltre nel-
la Prefazione del 1886 alla seconda parte di Umano, troppo umano il legame di questo
scritto con i precedenti lavori e pensieri risalenti intorno al 1870 (MA II, Prefazione 1).
Secondo Karl Schlechta e Anni Anders questa osservazione «va presa sul serio lettera per
lettera», ed essi sottolineano lo sforzo di Nietzsche per far emergere delle continuità nella
sua opera (Schlechta/Anders 1962:11).
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fermerà letteralmente «ai dettagli e alle coincidenze» (Foucault
1971/2000: 72). D’altro canto, all’interno della Genealogia si cer-
cano invano indagini di questo tipo. Ci sono, è vero, osservazioni
sul concetto di estlós (vero, nobile) in Teognide di Megara (GM
I 5), si parla di una «storia bimillenaria» della rivolta degli schiavi
nella morale (GM I 7), i concetti di “colpa”, “coscienza”, “do-
vere” vengono messi (vagamente) in connessione con la sfera dei
“debiti-diritti” (GM II 6), e la filosofia dei Vedanta viene citata
dal commentario di Paul Deussen (GM III 17); tuttavia, il testo
fornisce ben poche ricostruzioni storiche riconducibili al modello
della scienza “normale” e corroborate da fatti verificabili. I pol-
verosi dettagli di una precisa ricerca scientifica delle «condizioni
e delle circostanze» dalle quali certi pregiudizi morali «sono nati
e si sono andati sviluppando e modificando» (GM, Prefazione 6)
non sono posti al centro di questo scritto polemico. Guardando
al contenuto effettivo della Genealogia si può dire piuttosto che,
in ultima analisi, a Nietzsche importava svolgere in questo scrit-
to qualcosa di diverso e forse «molto più importante» di «una
congerie di ipotesi mie o altrui sull’origine della morale» (GM,
Prefazione 5), sia ciò concepito sulle nuvole o sul grigio. Al posto
di concreti studi storici e analisi metodologiche di casi esempli-
ficativi e di fonti, Nietzsche delinea un campo di ricerca in base
a discussioni paradigmatiche, solleva questioni fondamentali e
indica le direzioni delle loro soluzioni. Proprio in questo senso,
nella significativa osservazione posta al termine della prima Dis-
sertazione, egli espone un programma di ricerca interdisciplinare
al quale possano prendere parte gli studiosi di differenti ambiti.
La Genealogia della morale è in realtà un invito alla ricerca ben
più che una soluzione della stessa (Fett 2001).Questo non solo è
dovuto al fatto che un singolo ricercatore risulterebbe sopraffat-
to da un simile inaudito progetto di studi storico-morali, ma ri-
sulta anche dalla concezione che Nietzsche aveva della gerarchia
(Rangordnung) delle scienze e del ruolo specifico della filosofia in
essa. Di questa gerarchia egli parla molto chiaramente nella nota
al termine della prima Dissertazione: «Tutte le scienze devono
ormai elaborare in via preparatoria il compito futuro dei filosofi:
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intendendo questo compito nel senso che il filosofo deve risol-
vere il problema del valore, deve determinare la gerarchia dei va-
lori» (GM I, Nota). Le singole specifiche scienze assumono così
un carattere strumentale e, in quanto le Dissertazioni della Ge-
nealogia rappresentano tali singoli studi scientifici, Nietzsche le
caratterizza retrospettivamente come lavori «preliminari» (EH,
Genealogia della morale). Solo la filosofia si interroga sistemati-
camente sul “perché” e si confronta come unica disciplina con
la sfida di intraprendere una gerarchia degli obiettivi d’azione,
anche dell’azione del ricercatore. Questo compito superiore ga-
rantisce allo stesso tempo alla filosofia una posizione privilegiata
nella gerarchia delle scienze3. Sul compito specifico della filosofia
si tornerà più avanti. Per il momento ci si limita a considerare che
la Genealogia della morale non vuol essere il libro di un erudito
specializzato, ma il libro di un filosofo; quindi, non si tratta in
senso stretto di un libro scientifico.
Tuttavia, come mostrano i passaggi analizzati finora, le scienze
assumono nella Genealogia della morale una posizione importan-
te. In quanto studi storico-morali – ai quali Nietzsche, oltre all’e-
timologia e alla linguistica, vuole includere anche la medicina e
la fisiologia – essi forniscono le competenze necessarie che sono
fondamentali per una «critica dei valori morali» (GM, Prefazio-
ne 6). In quanto tali, apportano un contributo significativo per
affrontare i problemi morali seriamente, così come per affrontare
la loro critica e la loro trasvalutazione. In questo modo viene
proposta una nuova definizione di scienza, che va oltre la sua
mera funzione specialistica. Utilizzando il nome della sua Gaia
scienza (ampliata nel 1887 con un sottotitolo, un quinto libro
e un’appendice di canzoni), Nietzsche parla di questa ulterio-
re dimensione della scienza: «La gioiosa serenità (Heiterkeit) o,
per dirla nel mio linguaggio, la gaia scienza – è un premio: un
premio per una lunga, coraggiosa, laboriosa e sotterranea serietà
3 Su questo tema Tilman Borsche (2012) ha fornito un contributo significativo, che
sottolinea in particolare il carattere autoriflessivo e antidogmatico della filosofia della
scienza di Nietzsche.
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che indubbiamente non è cosa di tutti» (GM, Prefazione 7). In
questo passaggio enigmatico viene accennata una considerazione
storico-culturale che sarà di supporto per l’esposizione successi-
va, sebbene né l’espressione “gioiosa serenità” né “gaia scienza”
stiano al centro delle seguenti Dissertazioni. Al contrario, al ter-
mine dello scritto, la scienza viene chiamata in causa nel conte-
sto d’azione del non troppo sereno ideale ascetico. Ciò non di
meno, questo nesso, nella lettura qui proposta, risulta centrale.
La combinazione, indicata nella prefazione dell’opera, di gioiosa
serenità e serietà, ovvero la gaia scienza come premio e risulta-
to di una laboriosa serietà, rivela il suo pieno significato solo in
connessione con le osservazioni sulla scienza e gli ideali ascetici
svolte al termine della Genealogia della morale.
2. Ideali ascetici come lavoro per amore del lavoro
La terza Dissertazione della Genealogia della morale si incen-
tra sostanzialmente su due questioni: «che significano gli ideali
ascetici?» (GM III 1) e «dove si trova la volontà opposta in cui
si esprimeva un ideale opposto?» (GM III 23). Solo nel conte-
sto del secondo quesito le scienze giocano un ruolo di rilievo,
anche se non particolarmente positivo. La proposta di adottare
la scienza contemporanea come una sorta di contro-ideale viene
decisamente respinta da Nietzsche. Per capire questa diagnosi
radicale è necessaria una più profonda comprensione degli ideali
ascetici stessi, ed è quindi opportuno riferirsi anzitutto alla prima
questione: «che significano gli ideali ascetici?». In primo luogo, è
sorprendente che Nietzsche non chieda cosa siano gli ideali asce-
tici, ma cosa essi significhino. Il “significato” di cui si parla qui
non riguarda certo la questione del riferimento (Referenz), per
come può intenderla una moderna filosofia del linguaggio di ma-
trice fregeana. Già relativamente al concetto di pena Nietzsche
aveva individuato in maniera inequivocabile ciò che anche Hegel
prima di lui e Adorno dopo di lui hanno sottolineato: «tutti i
concetti, in cui si condensa semioticamente un intero processo,
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si sottraggono alla definizione; definibile è soltanto ciò che non
ha storia» (GM II 13). Quanto detto vale ancora di più per i
cosiddetti “ideali ascetici”, il cui significato non muta solo sto-
ricamente, ma anche in relazione agli uomini o ai tipi umani. Se
nel mondo che ci concerne in quanto esseri mortali ci siano cose
rilevanti senza storia, noi potremmo lasciarle da parte. I feno-
meni culturali, come ad esempio gli ideali umani, hanno natu-
ralmente una storia. Fissare attraverso una definizione qualcosa
che è invece storico-dinamico può effettivamente essere utile per
la pratica comunicativa, ma semplifica, falsifica e nega la stori-
cità del fenomeno in questione opponendosi a una sua migliore
comprensione, pur sapendo che le cose stanno diversamente. Di
conseguenza, Nietzsche non ci fornisce alcuna determinazione e
ancor meno alcuna definizione dell’estensione dei momenti es-
senziali e accidentali degli ideali ascetici. Piuttosto, nella terza
Dissertazione il concreto procedere tiene conto della storicità
e della pluralità del significato degli ideali ascetici attraverso lo
sviluppo di una genealogia di tipi esemplari4. Già l’uso del plu-
rale nel titolo della terza Dissertazione indica che nella locuzio-
ne “ideali ascetici” si condensa una sintesi, il cui significato può
venire alla luce solo attraverso un approccio multiprospettico5.
Con “significato” si intende probabilmente quale funzione, quali
vantaggi-svantaggi e quali effetti gli ideali ascetici abbiamo per
determinati tipi umani e perché ricevono da questi praticamente
o esplicitamente attenzione o addirittura apprezzamento. In que-
4 Le “decise tipizzazioni” utilizzate da Nietzsche anche in altre parti della Genealogia
sono state valutate criticamene: «È possibile respingerle come iperboli unilaterali, ma vi
è del metodo. Nietzsche spinge le unilateralità a tal punto che esse sono immediatamente
riconoscibili come tali. Le sue tipizzazioni sono scorci prospettici, concetti che non ritrag-
gono, ma tracciano netti contorni che dovrebbero far emergere ciò che secondo la sua pro-
spettiva è significativo» (Stegmaier 1994: 89). Tuttavia, i tipi di esemplari di Nietzsche non
corrispondono unicamente al suo personale punto di vista. Piuttosto mettono da un lato in
primo piano importanti aspetti di fenomeni storici, e dall’altro evitano celate falsificazioni,
che derivano dalla pretesa rappresentazione definitoria. Proprio nella loro iperbolicità i
tipi nietzscheani fanno emergere la verità, perché «solo l’esagerazione è vera» (Horkhei-
mer/Adorno 1944: 142) – un’affermazione ovviamente esagerata di per sé.
5 D’altro canto Nietzsche parla di “ideale ascetico” (GM III 1) al singolare fin dall’i-
nizio, e nel corso della terza Dissertazione è sempre il singolare a prevalere.
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sto senso, l’ideale ascetico “significa” qualcosa che fa indovinare
«ciò che sta nascosto dietro di lui, sotto di lui, in lui, ciò di cui
esso è l’espressione provvisoria, non chiara, sovraccarica d’inter-
rogativi e di fraintendimenti» (GM III 23).
Per giungere a una prima nozione preliminare degli ideali asce-
tici, si può dire che essi, in quanto “ideali”, portino a espressione
valori e obbiettivi, contrassegnino qualcosa verso cui indirizzarsi
e quindi indichino al di là delle condizioni attuali. Al contempo,
Nietzsche connota tali ideali come “ascetici” e li mette così in re-
lazione alla rinuncia, all’astinenza e alla disciplina. Come diviene
chiaro in GM III 2, gli ideali ascetici si intrecciano in particolare
con l’inibizione della sessualità, ma non corrispondono a essa.
L’alternativa alla disinibizione sessuale la vedono solo «gli scia-
gurati porci» (GM III 2) nel rigoroso ascetismo, quando nella
castità riconoscono il suo opposto e lo venerano. Al contrario,
proprio l’equilibrio tra animale e angelo sedurrebbe i ben riusciti
(die Wohlgeratenen) all’esistenza. A tal proposito, il rapporto tra
ascetismo e ideale non è al momento chiaro. Werner Stegmaier
presume a riguardo che l’ascesi sia necessaria per tendere a un
ideale, «e che per questo l’ideale sia ideale ascetico» (Stegmaier
2004: 154). Questo è senz’altro corretto, giacché un certo gra-
do di ascesi fa parte delle condizioni per la realizzazione di ogni
ideale, ma ciò non comporta che gli ideali stessi siano compiuta-
mente ascetici, e che quindi tale attributo ne costituisca la speci-
ficazione. A questo punto si fa strada un’ulteriore considerazione
di Stegmaier, secondo il quale, paradossalmente, un ideale spe-
cificamente ascetico diviene attrattivo in virtù della sua irrealiz-
zabilità: «il fatto che non possa essere raggiunto non solo non lo
svaluta, ma motiva a maggiori sforzi per la sua realizzazione, e
questo più da esso si è lontani» (Stegmaier 2004: 155). A questa
conclusione giunge anche Charles Larmore: «ciò che Nietzsche
vuol denotare col generico termine degli ideali ascetici, è la con-
vinzione di avere un obbiettivo mai completamente raggiungibile
verso il quale si deve tendere perseveranti, coscienziosi e disposti
a fare sacrifici» (Larmore 2004: 166). Pertanto, agli ideali asce-
tici appartiene una certa mancanza di misura, un’irrequietezza
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permanentemente percepita come inadeguatezza, così come una
forte tensione verso il futuro e il progresso, e in questo senso an-
che verso l’aldilà. Nella misura in cui gli ideali ascetici consistono
in questa tensione verso obbiettivi irraggiungibili, essa stessa as-
sume la funzione di un vero e proprio valore. Ecco che la pratica
della forma di vita ascetica non è più solo un mezzo, ma di fatto
l’intero contenuto e lo scopo dell’ideale ascetico. Vedremo come
la ricerca scientifica della verità corrisponda a questa vocazione.
Allo stesso modo, non si sottolineerà mai abbastanza che gli
ideali ascetici o quantomeno l’ascesi non sono in Nietzsche in
alcun modo di per sé connotati in senso negativo, ma hanno un
aspetto positivo sia per la cultura in quanto tale, sia per specifici
tipi umani. Il loro significato dipende in particolare dal fatto che
essi rappresentino, per un determinato tipo, solamente un mez-
zo per un fine personale, o che invece finiscano per occupare il
posto di quello stesso fine. Questa alternativa diventa chiara nel
confronto tra i filosofi, presso i quali gli ideali ascetici giungono
già alla «questione più seria» (GM III 5), e i preti, presso i quali
soltanto l’ideale ascetico diventa «una cosa seria» (GM III 11)6.
Il filosofo si pone positivamente nei confronti degli ideali asceti-
ci, poiché questi fanno parte della sua condizione esistenziale in
quanto libero pensatore, «egli con questo non nega “l’esistenza”,
piuttosto afferma in essa la sua esistenza e unicamente la sua esi-
stenza» (GM III 7). Alla sua esistenza appartengono solitudine e
deserto, libertà dalle preoccupazioni e responsabilità, pace inte-
riore come esteriore e una disposizione controllata delle passioni
interne, dove «tutti i cani [sono] messi per benino alla catena»
(GM III 8). Anche un certo distacco dal mondo fa parte di que-
ste condizioni, per Nietzsche, che comprende se stesso e i pro-
pri lettori in queste condizioni: «noi filosofi abbiamo soprattutto
bisogno di un’unica quiete: quella lontana da ogni “attualità”»
6 Nietzsche non presta alcuna ulteriore attenzione al significato opportunista, con-
fortante e civettuolo degli ideali ascetici per signore o per la normale massa dei disgra-
ziati e degli scontenti. All’artista, cioè sostanzialmente a Wagner, dedica alcuni paragrafi,
giungendo alla conclusione che gli ideali ascetici non avessero in sostanza per lui “alcun
significato” (Guéry 2004: 137, cfr. GM III 5).
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(GM III 8). In questo senso le tre «pompose parole» degli ideali
ascetici «povertà, umiltà, castità» corrispondono alle «tre cose
abbaglianti e chiassose» che il filosofo evita: «la gloria, i principi e
le donne» (GM 8 III). D’altro canto, vi sono qui delle indicazioni
per una svolta produttiva, che risulta di interesse relativamente
alla questione centrale circa il rapporto tra ascetismo e scienza,
poiché i filosofi «pensano in definitiva al sereno ascetismo di un
animale divinizzato e divenuto alato» (GM III 8). Essi sono per
Nietzsche «ponti verso l’indipendenza» (GM III 7), e quindi
mezzi per un fine personale più alto. In questo senso Nietzsche
constata che «una dura e serena rinuncia spontaneamente voluta
appartiene alle condizioni favorevoli di un’altissima spiritualità,
come pure alle sue più naturali conseguenze» (GM III 9). Così,
per il filosofo l’ideale ascetico non significa solamente un presup-
posto e una conseguenza della propria esistenza, ma si intreccia
con la gioiosa serenità e con la divinizzazione. Questa dimen-
sione gioiosa suggerisce anche una connessione tra filosofia e
scienza, che potrebbe, in opposizione alla “scienza della serietà”,
assumersi effettivamente il compito di un’alternativa agli ideali
ascetici.
Nei preti, invece, l’indagine relativa al significato dell’ideale
ascetico non rinviene alcuna traccia di gioiosa serenità. «Solo a
questo punto, dopo esserci concentrati sul prete ascetico, affron-
tiamo seriamente da vicino il nostro problema: che cosa significa
l’ideale ascetico? Ora facciamo sul serio: siamo ormai faccia a
faccia con il vero e proprio rappresentante della serietà in gene-
rale?» (GM III 11). Senza entrare qui troppo nei dettagli circa
lo specifico contributo che il prete offre alla filosofia culturale
della Genealogia della morale, la sua serietà che si contrappo-
ne alla potenzialmente gioiosa ascesi dei filosofi documenta le
possibilità di significato fondamentalmente diverse degli ideali
ascetici. Nel tipo del prete, al quale Nietzsche accosta il filosofo
Eugen Dühring (GM III 14, cfr. Stegmaier 2004: 157), gli ideali
ascetici acquisiscono un significato profondo e pericoloso nel-
la storia della cultura. Il «prete è il modificatore di direzione del
ressentiment» (GM III 15), in lui gli ideali ascetici si mostrano
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come «istinto di protezione e di salute di una vita degenerante»
(GM III 13) e come espressione di malattia. Ma per il prete l’a-
scetismo non è più soltanto al servizio della protezione e della
conservazione; piuttosto, il risentimento diviene qui creativo e
produce una volontà di vivere paradossalmente ostile alla vita,
che consiste nel perpetrare se stessa come ideale ascetico: «qui
si consuma un tentativo di impiegare la forza per ostruire le sor-
genti della forza» (GM III 11). Con l’ausilio dell’ideale ascetico,
il prete coltiva il dolore dell’esistenza e la giustifica come tensio-
ne imperfetta verso obiettivi irraggiungibili. Gli sforzi presenti,
le sconfitte, le debolezze, il dolore, le scoraggianti avversità non
vanno solamente sopportate, ma accolte come sforzi e prove ne-
cessarie sulla strada per l’ideale; vengono in definitiva convertite
da obiezioni a contrassegni di una vita ben riuscita. Con ciò il
prete riesce da una parte a dare un senso alla sofferenza, poiché
«ciò che propriamente fa rivoltare contro la sofferenza non è la
sofferenza in sé, bensì l’assurdità del soffrire» (GM II 7). Inoltre,
il prete offre diverse pratiche ed esercizi per lo più di successo
per evitare una depressione suicida. Queste comprendono l’at-
tenuazione generale del sentimento vitale (GM III 17), il lavoro
eccessivo e insensato, ma anche una dose di piccoli piaceri, come
ad esempio l’amore per il prossimo (GM III 18). Il suo mez-
zo più potente e più pericoloso è l’entusiasmo, l’«aberrazione
del sentimento» (GM III 19). Mezzo ed espressione dell’ideale
ascetico possono essere anche le manifestazioni apparentemente
estreme di un sentimento vitale indomabile, come è particolar-
mente evidente nella complessa strumentalizzazione del senso di
colpa. D’altra parte, nonostante questo contributo, il prete non
è in definitiva un medico; egli porta «unguenti e balsami, non v’è
dubbio; ma ha prima bisogno di ferire per poter essere medico»
(GM III 15). Con l’ausilio della sua complessa strumentazione
palliativa e consolatoria egli non solo non coglie la causa prima
del dolore, ma al contrario la esalta e la rinnova. Tra l’altro, assu-
me così il ruolo privilegiato di pastore nella sua «concentrazione
e organizzazione dei malati (…) (– la designazione più popolare
di ciò che è la parola “Chiesa”)» (GM III 16). I preti universa-
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lizzano così gli ideali ascetici, che altrimenti avrebbero significati
concreti unicamente per determinati tipi concreti, e li universa-
lizzano verso una forma generale della rappresentazione e della
concezione del mondo assieme all’orientamento morale all’inter-
no di esso. Nel tipo del prete l’ideale ascetico giunge così a se
stesso. Esso dà all’azione e al pensiero umani una destinazione
(se stesso), così come dà un senso alla vita e al dolore. L’influsso
dominante dell’ideale ascetico sulle pulsioni vitali e sugli affetti
passa così da essere un mezzo concreto e parzialmente utile a
essere uno scopo indipendente e un massimo ideale, dal momen-
to che, in assenza di un altro e più potente ideale, non sarebbe
altrimenti possibile indicare a che scopo tutto lo sforzo debba
risultare in ultima analisi valido.
3. Scienza ascetica come zelo senza scopo ovvero
idealismo credente
Anche se una genealogia non può essere una confutazione di
giudizi normativi, è tuttavia chiaro che Nietzsche non proponga
di rivalutare gli ideali ascetici e veda anzi come problematiche le
prospettive che essi aprono e il loro effetto sul piano culturale.
Su questo sfondo egli pone un secondo insieme di questioni alla
fine della terza Dissertazione: «Dov’è il contrapposto di questo
sistema chiuso di volontà, meta e interpretazione? Perché manca
il contrapposto? … Dov’è l’altra “unica meta”?» (GM III 23).
Riprendendo una risposta in uso nei suoi tempi, Nietzsche giun-
ge così a parlare della scienza, che ha come obbiettivo una co-
noscenza della verità oggettiva e sobria: «Mi si dice che [questo
contrapposto] non manca, che non solo ha ingaggiato una lunga
fortunata battaglia con quell’ideale, ma che già in tutto quanto
è più importante si sarebbe imposto su quell’ideale: ne sarebbe
una testimonianza la nostra scienza tutta quanta» (GM III 23).
Pensare alla scienza come “controparte” di una visione del mon-
do dominata dai preti potrebbe apparire cosa ovvia, nel tardo
Ottocento. Diverse narrazioni storico-culturali facevano riferi-
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mento a una posizione mutata delle scienze, in base alla quale
l’umanità da origini primitive e infantili si sarebbe sviluppata
attraverso un processo graduale che spesso viene messo in pa-
rallelo con le fasi della vita dell’uomo, e che nella fase storico-
culturale dell’Europa contemporanea avrebbe raggiunto una
sobrietà e virilità adulte. Varianti di questa storia del progresso
si possono trovare in numerosi autori del Diciannovesimo seco-
lo; per esempio, Nietzsche aveva studiato a fondo i libri di John
William Draper7. Di particolare rilievo è la formulazione della
legge delle tre fasi di Comte: dopo una fase mitico-religiosa e una
fase filosofico-metafisica, l’umanità entra finalmente in una fase
scientifico-positiva. Elementi centrali di queste narrazioni sono
le considerazioni etnografiche sulle culture primitive, le con-
trapposizioni culturali con la chiesa contemporanea e il trionfo
tecnologico-sociale delle scienze naturali. Dopo la confutazione
dei tradizionali sistemi religiosi e metafisici – come giustamente
riassume Werner Stegmaier –, le scienze dovrebbero «prendere
ora il posto della religione e della morale, e lo scienziato dovreb-
be sostituire il prete» (Stegmaier 1994: 193). Dal momento che
le precedenti forme di rappresentazione e concezione simbolica
del mondo hanno perso la loro funzione persuasiva e vincolante,
è la scienza, o addirittura, nello specifico, gli scienziati, a doversi
assumere il compito di stabilire i principi dell’orientamento cul-
turale. Nietzsche si domanda se le scienze siano all’altezza del
compito, e se queste “scienze moderne” e “filosofie della verità”
abbiano il «coraggio di sé, la volontà di sé sino a oggi s’è cava-
ta d’impaccio abbastanza bene senza Dio, trascendenza e virtù
negatrici» (GM III 23). Contro questa immagine sicura di sé, e
7 Nella biblioteca di Nietzsche si trovano ancora i testi di John William Draper
da lui comperati nel 1875: Geschichte der geistigen Entwickelung Europas. (Leipzig: Wi-
gand, 1871) und Geschichte der Conflicte zwischen Religion und Wissenschaft (Leipzig:
Brockhaus, 1875). In entrambi gli studi, Draper ripercorre la concorrenza tra religione
e scienza dagli inizi della ricerca scientifica nell’antica Grecia (nella quale solamente la
Biblioteca di Alessandria viene da lui considerata come «fucina di una ricerca rigorosa-
mente scientifica»), attraverso la medievale «età della fede» sino alla contemporanea «età
della ragione».
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sebbene Nietzsche si sia dichiarato in questo scritto un amico
delle scienze, egli non accorda ad esse questa centrale funzione
culturale: «oggi la scienza non ha assolutamente alcuna fede in
sé – e ovunque essa è ancora passione, amore, ardore, sofferenza,
non costituisce l’antitesi di quell’ideale ascetico, ma piuttosto la
sua stessa forma più recente e più nobile» (GM 3 23).
Con questa formulazione Nietzsche differenzia due funzioni
di scienza, ovvero due tipi di scienziato, che nei paragrafi se-
guenti verranno ulteriormente analizzate. Da un lato egli vede un
«popolo d’operai abbastanza a modo e modesto» (GM III 23),
e dall’altro gli «ultimi idealisti» e «tisici dello spirito» (GM III
24). Per comprendere la sua filosofia della scienza è fondamen-
tale tener presente questa distinzione8. Nietzsche vede la stra-
grande maggioranza degli scienziati e delle pratiche scientifiche
del suo tempo fare ricerca “da piccole nicchie”, soddisfatti «di
fare qualcosa di molto utile» (GM III 24) attraverso un lavoro
rigoroso, così da affrontare metodicamente i problemi scientifici.
Si può certamente pensare alla pratica di soluzione di enigmi,
che secondo l’analisi di Thomas Kuhn caratterizza la ricerca del-
la “scienza normale”, per cui si ha fiducia di poter risolvere un
determinato problema seguendo le regole stabilite all’interno di
un paradigma fisso9. Nietzsche rispetta senz’altro queste ricer-
che dettagliate e specializzate («del loro lavoro io mi rallegro»,
GM III 23) e non nega l’utilità di tale ricerca, né la validità dei
suoi risultati. In pratica, non assume alcun atteggiamento anti-
scientifico, ma esclude la possibilità di una visione del mondo
scientifica indipendente, che si configurerebbe come alternativa
8 Anche nel sesto paragrafo di Al di là del bene e del male Nietzsche opera questa
distinzione. Da un lato colloca la grande filosofia come “autoconfessione del suo autore”,
che testimonia «in quale disposizione gerarchica (Rangordnung) i più intimi istinti della
natura siano posti gli uni rispetto agli altri» Dall’altro lato l’erudito è un «piccolo mecca-
nismo d’orologeria che, caricato a dovere, svolge alacremente il suo bravo lavoro» e ha il
suo vero interesse al di fuori della ricerca «semmai nella famiglia o nel guadagno o nella
politica; è anzi quasi indifferente che il suo piccolo congegno venga applicato a questo o
a quell’altro settore della scienza e che il giovane lavoratore, “pieno di speranze”, faccia
di sé un buon filologo o un esperto di funghi o un chimico» (JGB 6).
9 Cfr. Kuhn 1969: 49-56.
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all’ideale ascetico. Piuttosto, per Nietzsche «la valentia dei nostri
dotti migliori, la loro smorta diligenza, la loro testa giorno e not-
te fumigante, la loro stessa maestria di mestiere» (GM III 23) è
l’indizio di un’attività essenzialmente priva di direzioni, che non
ha alcun ideale al di sopra di sé. In questo senso la scienza è un
nascondiglio, nasconde in sé «l’inquietudine della stessa assenza
di ideali, il soffrire la mancanza del grande amore, l’insufficienza
di una involontaria moderazione» (GM III 23). Di sicuro le spe-
culazioni di questo tipo sugli stati d’animo degli scienziati “nor-
mali” sono difficilmente dimostrabili, ma non sembrano di per
sé implausibili. La giovane generazione scientifica (una parola
che avrebbe sicuramente avuto il favore di Nietzsche), auspica
attraverso lo zelo e la competenza, così come attraverso la for-
tuna e le buone relazioni, di guadagnare un posto fisso e venire
infine confermata. Il professore ordinario, al contrario, aspetta
che gli sia assegnato un particolare ambito di ricerca, attende il
successivo accreditamento, il segno del crescente prestigio nella
comunità scientifica di appartenenza, oppure anche solo la pen-
sione. Per quanto riguarda la questione del perché, anche solo
del perché delle scienze, egli ha al massimo un’opinione persona-
le. Nietzsche pone accanto al tipo degli operosi-eruditi-disinte-
ressati, gli “ultimi idealisti” tra gli scienziati contemporanei, che
si credono comunque rappresentanti di un altro ideale (GM III
24), anche se essi, nel loro agire, esercitano la medesima sobrietà
dei filosofi. Di conseguenza, non sorprende che Nietzsche carat-
terizzi in genere con un certo apprezzamento anche questo tipo
di «spiriti duri, severi, temperati, eroici, che costituiscono l’ono-
re della nostra età», con la sua «esigenza di pulizia intellettuale»
(GM III 24). In realtà, egli riconosce se stesso in questi spiriti,
egli conosce da vicino il loro ateismo e scetticismo, e apprezza
«quella veneranda moderazione filosofica (…) quel voler restare
inchiodati dinanzi all’effettuale, al factum brutum» e «quel rinun-
ciare all’interpretazione in generale» (GM III 24). Nietzsche in
definitiva non riconosce anche in questo secondo tipo nessun
contro-ideale. Sottolineando il loro “voler stare inchiodati” in-
nanzi ai piccoli fatti e al tentativo di rinunciare a valutazioni e
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interpretazioni, così come ad arrogarsi traduzioni, essi portano
ad espressione uno scetticismo ancor più radicale di quanto si
trovi presso gli eruditi meno idealisti. Giacché essi vogliono aste-
nersi da qualsiasi giudizio, portano al massimo «l’autodisprezzo
dell’uomo» (GM III 25). Allo stesso modo, fanno ciò sulla base
di una credenza doppiamente problematica: il fatto che credano
è già di per sé problematico, nel senso che nella fede viene ad
espressione un atteggiamento fiducioso e acritico verso ciò che
si crede. Quello che credono è problematico perché la loro fede
nel valore assoluto della verità e la loro ferma volontà a riguardo
«è la fede nell’ideale ascetico stesso» (GM III 24), quand’anche
nella sua forma più sublime e raffinata. Perciò si differenziano
così dagli autentici spiriti liberi, «poiché credono ancora alla ve-
rità…» (GM III 24). Questa fede, allora, è ciò che unisce e col-
lega indissolubilmente idealisti e scienziati nella pratica e nella
virtù dell’ascesi. Al contrario, la “nostra diffidenza” insegna a
prendere in considerazione solo una fede particolarmente forte
ed ermeticamente protetta, come indizio dell’improbabilità di
ciò che si crede: «noi “uomini della conoscenza” siamo da tem-
po divenuti diffidenti verso ogni sorta di credenti» (GM III 24).
Questa diffidenza, perfino nella sua distanza critica di fronte a
ogni ingenuità, evidentemente un prodotto della volontà di veri-
tà, si indirizza ora alla fede nel valore della verità stessa.
Le scienze dunque non si pongono come alternativa agli ide-
ali ascetici, e questo per due ragioni: in primo luogo la scienza
non può produrre alcun ideale opposto, poiché «ha sotto ogni
aspetto innanzitutto bisogno di un ideale di valore, di una po-
tenza creatrice» (GM III 25). Come faranno significativamente
più tardi Max Weber, Robert Merton e altri, la scienza viene
qui considerata come istituzione neutra dal punto di vista dei
valori anche da Nietzsche. Le scienze non possono decidere cosa
vale la pena conoscere e cosa no per mezzo della scienza stessa.
Sebbene siano le scienze a porre nuovi problemi, e con ciò esse
stimolino gli interessi conoscitivi, la questione del se e del per-
ché si voglia ricercare e sapere specificamente qualcosa si pone
al di fuori della ricerca scientifica e non trova risposta attraver-
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254 Helmut Heit
so conoscenze scientifiche. Anche al di là della concreta pratica
scientifica, la scienza ci può istruire sui mezzi idonei per il rag-
giungimento dei nostri scopi, oppure su incoerenze e discrasie
tra obbiettivi diversi, ma non può porre questi stessi scopi. Intesa
in questo modo – strumentalmente – un’immagine del mondo
puramente scientifica non è possibile, poiché non vi sono mezzi
per stabilire valori. Tenendo in considerazione il valore, al quale
le scienze intrinsecamente si riferiscono, ossia la verità, si dimo-
stra per Nietzsche come in ciò non sia da vedere propriamente
un contrapposto dell’ideale ascetico, «anzi nell’intimo processo
formativo di quello essa rappresenta ancora, in sostanza, addi-
rittura la forza propulsiva» (GM III 25). Questa è la seconda
ragione per cui le scienze non si oppongono all’ideale ascetico,
dal momento che essi «riposano invero sullo stesso suolo», si ba-
sano comunemente «sull’identica sopravvalutazione della verità
(più esattamente: sull’identica fede nella insuscettibilità di valu-
tazione e di critica da parte della verità», e possono pertanto es-
sere messe in questione solo congiuntamente: «una svalutazione
dell’ideale ascetico trae inevitabilmente dietro di sé anche una
svalutazione della scienza» (GM III 5). Le citazioni della Gaia
scienza e i contenuti di GM III insistono su tale svalutazione dei
valori, e hanno perciò il fine comune di porre quantomeno in
questione la volontà di verità. Cosa comporti la questione del
valore della verità e quale compito ci competa nella forma di una
“gaia scienza” è l’oggetto dei prossimi due capitoli10.
4. Volontà di verità come ascesi intramondana
Il discorso «sul valore morale della scienza» pronunciato
da Max Heinze in occasione dell’avvicendamento al rettorato
all’Università di Lipsia il 31 ottobre 1883 costituisce un buon
riferimento per considerare in maniera più concreta il significa-
10 Sulla problematizzazione della verità in GM III 24 e 27 si veda anche il contributo
di Pietro Gori al presente volume.
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to della volontà di verità per l’autocomprensione della scienza
da parte dei contemporanei di Nietzsche. Il testo in questione
si trova nella biblioteca privata di Nietzsche ed è sicuramente
un dono da parte dell’autore. Se Nietzsche abbia letto il testo
non è così rilevante, poiché in questo contesto esso svolge piut-
tosto una funzione esemplare. Nietzsche aveva conosciuto Max
Heinze nel 1861, a Schulpforta, quando egli divenne suo tutore
in seguito alla prematura scomparsa di Robert Buddensieg. Nel
1874 furono colleghi per un anno a Basilea, al qual proposito
Nietzsche alla sua partenza si espresse in maniera non troppo lu-
singhiera: «Che quel povero sciocco di Heinze sia uscito di scena
sono proprio contento, alla lunga era una cosa insopportabile.
E in generale tutta la congrega dei professori tedeschi. Heinze
però è un esemplare eccezionalmente limitato di questa razza già
di per sé non molto affascinante e piuttosto povera di contenu-
ti» (lettera a E. Nietzsche, 19.04.1875). Dopodiché mantennero
per il resto della vita rapporti formalmente educati. Nietzsche
fece sempre pervenire a Heinze copie gratuite dei suoi libri e
infine Heinze, in quanto tutore di Nietzsche, tenne un discorso
di fronte alla sua tomba. Nonostante i suoi commenti sprezzanti
sulla banda professorale tedesca, Nietzsche nel 1883 sondò co-
munque la possibilità di una cattedra di filosofia a Lipsia. Da
Heinze ricevette ben presto una valutazione informale ma chiara:
«Heinze, attualmente rettore dell’Università, mi ha detto a chia-
re lettere che a Lipsia la mia domanda non verrà accolta (e sicura-
mente in nessuna delle Università tedesche); e che la facoltà non
ardirà proporre il mio nome al Ministero – a motivo della mia
posizione nei riguardi del Cristianesimo e delle mie idee su Dio.
Bravo! Questo modo di vedere le cose mi ha fatto ritrovare il mio
coraggio» (A H. Köselitz, 26.08.1883). Evidentemente questo at-
teggiamento rafforzò Nietzsche nella convinzione della validità e
dell’importanza della sua critica. Heinze stesso nel suo discorso
per il rettorato espresse delle considerazioni sul rapporto tra re-
ligione, verità e scienza, del tipo che egli nella lettera attribuisce
alla facoltà e al ministero.
Dando il via al suo discorso programmatico sulla questione
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di un valore morale delle scienze, Heinze fornisce brevemente
alcune risposte classiche. Per Kant solo il retto volere può essere
considerato pienamente buono, Rousseau nega esplicitamente
la questione e anche la dottrina “patologica” del pessimismo e
parte dalla considerazione «che la conoscenza e la felicità non
aumentano in proporzioni uguali» (Heinze 1883: 19). Giacché
la scienza ha creato una varietà di mezzi che facilitano la vita e
alleviano i mali degli uomini d’oggi, c’è «al giorno d’oggi per il
singolo la possibilità di acquisire un relativo benessere, che in
media è maggiore rispetto al passato». Utilizzando un’implici-
ta equazione tra benessere e felicità, Heinze conclude così che
«in generale non si può pensare a una riduzione della felicità del
genere umano» (Heinze 1883, 20) e sottolinea, in linea con la
concezione comune del suo tempo, i vantaggi pratici della scien-
za e della tecnologia. In ogni caso nella storia della filosofia sono
state prevalenti le correnti che hanno posto in stretta connessio-
ne la conoscenza e la felicità, a partire dalla tesi socratica «virtù
è conoscenza» (Heinze 1883: 21), fino alla Wissenschaftslehre di
Fichte (Heinze 1883: 25). La morale non è però un privilegio
delle scienze, poiché ognuno dovrebbe «nella sua professione
riconoscere la volontà di Dio, compiere il proprio dovere e av-
vicinarsi all’idea morale» (Heinze 1883: 26). Tuttavia, Heinze fa
notare che, partendo dal sublime soddisfacimento dell’aspirazio-
ne umana a conoscere nelle scienze, si può capire perché Platone
e Aristotele riconobbero in ciò la perfezione più alta dell’uomo.
Del resto è ancora oggi evidente una posizione speciale delle
scienze «perché da essa dipende lo sviluppo della conoscenza
e in seguito a questa anche l’aumento del benessere e della mo-
ralità del genere umano» (Heinze 1883: 26). In quanto istitu-
zioni culturali, Heinze attribuisce alle scienze una straordinaria
importanza per un maggiore sviluppo e una maggiore elevazione
tecnologica e morale della società. In questo modo egli sembra
sostenere l’idea che le scienze posseggano una forma di “autoco-
scienza”, e potrebbe senz’altro appartenere a coloro che dicono
che il contro-ideale cercato da Nietzsche non manca affatto.
Relativamente alla sua determinazione del rapporto interno tra
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scienza e morale, si rivela però anche in Heinze il legame con
gli ideali ascetici. La «virtù principale del cristiano e dell’uomo
è l’umiltà, una virtù che gli scienziati potrebbero e dovrebbe-
ro apprendere in modo particolare» (Heinze 1883: 27). Nello
splendido concetto di “ideale ascetico” non si esprime soltanto
un atteggiamento umile dello scienziato nei confronti delle sue
prestazioni individuali, ma anche verso le possibilità della stessa
della scienza: «L’idea di scienza come visione completa dell’ordi-
ne legittimo e sistematico della totalità delle cose non viene mai
raggiunta, all’uomo è posto con essa un compito senza fine, e solo
riguardo ad essa l’anelito verso un sempre ulteriore miglioramen-
to può essere continuamente tenuto vivo, ma allo stesso tempo
rimane vigile la consapevolezza delle barriere che da sempre si
sono interposte all’uomo come all’umanità. Quindi l’idea del me-
raviglioso risultato raggiunto dall’uomo non può nascere, o alme-
no non può mantenersi continuamente» (Heinze 1883: 27).
Heinze esprime così un atteggiamento che si lega alla consa-
pevolezza generale nel passaggio dalla comprensione classica
della scienza a quella moderna, e che Gregor Schiemann (1997),
aveva caratterizzato come «perdita di certezza nella verità»
(Wahrheitsgewissheitsverlust). La sua caratteristica principale è
la visione limitata e il carattere essenzialmente fallibile di tutte
le conoscenze scientifiche. L’ideale della ricerca della verità è
dunque una idea regolativa alla quale noi possiamo al massimo
avvicinarci11. Nella formulazione di Heinze questo atteggiamento
umile mostra allo stesso tempo le caratteristiche dell’ideale asceti-
co: sebbene, o proprio perché, l’idea della scienza non possa mai
essere realizzata, la ricerca scientifica della verità da mezzo con-
creto diviene compito infinito, e la tensione perennemente tenuta
desta diviene fine a se stessa. Anche la forma che questa tensione
assume ha il carattere del lavoro ascetico, giacché il ricercatore
scientifico deve mantenere una doppia libertà: in primo luogo si
11 Questo cambiamento dell’immagine della scienza come ipotetico-deduttiva invece
della tradizionale concezione assiomatico-deduttiva nella seconda metà del XIX secolo
viene descritta con particolare chiarezza da Alwin Diemer (1968).
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libererà da se stesso, egli «cerca, senza alcun vantaggio esterno
in mente, la verità», ed impara «a porre in secondo piano i pro-
pri stessi interessi e a porsi al servizio di un potere superiore più
generale» (Heinze 1883: 28). In secondo luogo si emanciperà da
autorità e pregiudizi sociali. Nonostante l’obbiettivo della verità
non venga positivamente e definitivamente raggiunto attraverso
questa presa di distanza, ciò non di meno si intravede una conse-
guenza pratica: «Se i discepoli della scienza subordinano se stessi
e tutto il resto all’idea della scienza, allora presso questi anche in
campo morale la legge prevarrà facilmente sull’arbitrio personale,
e la regola universale su quella individuale» (Heinze 1883: 28). Al
termine di queste argomentazioni Heinze giunge a parlare anche
di Martin Lutero come modello di questa tensione verso la verità,
e chiede infine la benedizione di Dio per i lavori del nuovo anno
accademico, ma questo si può tralasciare. È fondamentale inve-
ce che Heinze intenda la scienza come una ricerca disciplinata
della verità e allo stesso tempo sia convinto che, per quanto ci
sforziamo per questo ideale, alla fine non riusciremo mai a rag-
giungerlo. Allo stesso tempo, la continua ricerca della verità viene
giustificata dai suoi “effetti collaterali”, in particolare attraverso
l’educazione a una morale dell’impegno consapevole del proprio
dovere e attraverso le crescenti possibilità tecnologiche, che deri-
vano dal continuo aumento di conoscenze specialistiche. Il lavoro
del progresso scientifico è infinito, sia che la ricerca sia fine a se
stessa (ovvero senza un proprio ideale), sia che sia al servizio di
altri interessi, generalmente economici. La stretta connessione
tra scienza e ideali ascetici con i tratti fondamentali di un’etica
del lavoro capitalistico-protestante è stata sottolineata da Babette
Babich: «Il modello sociale di regolamentazione e impersonali-
tà che caratterizza il nostro mondo del lavoro e dell’impresa è il
criterio esplicito non solo del capitalismo, ma anche dell’efficien-
za scientifica» (Babich 1994: 193). La scienza è, tanto nella sua
pratica quanto nella sua teoria, una forma di ascesi intramonda-
na, in quanto si adatta alle modalità produttive del capitalismo,
insieme al quale essa inaugura il suo trionfo mondiale nel XIX
secolo. Questi sforzi inesausti e ricchi di sacrifici per un costante
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Gaia scienza e ideali ascetici 259
incremento di efficienza in campo scientifico aumentano attraver-
so la volontà di verità, il cui valore stesso come idea puramente
regolativa non viene messo in questione . Qui Nietzsche ricono-
sce nell’ulteriore avanzamento dello scetticismo illuminato un’ir-
rinunciabile premessa per superare gli ideali ascetici.
5. Il valore della verità in una gaia scienza
Il passo più importante verso il superamento degli ideali asce-
tici e verso la realizzazione di veri spiriti liberi e di una vera gaia
scienza viene riconosciuto da Nietzsche nel raggiungimento di
una svalutazione (Wertabschätzung) della verità. Nonostante
Nietzsche lasci quantomeno aperto il risultato di una simile sva-
lutazione, non pochi vedono nella mera messa in discussione del
valore della verità un procedimento problematico, se non incoe-
rente o autocontraddittorio12. Questa critica è stata presentata in
maniera particolarmente decisa da Charles Larmore in relazione
alla conclusione della Genealogia. Nietzsche avrebbe sollevato
una serie di questioni molto buone, ma la sua trattazione sareb-
be «in ultima analisi superficiale» (Larmore 2004: 168). Larmore
riassume una di queste questioni come segue: «Perché la verità
dovrebbe essere così importante, apparire così imprescindibile
da renderci difficile immaginare una vita in cui non ci possia-
mo orientare secondo opinioni che teniamo per vere?» (Larmore
2004: 167). Già il modo in cui qui viene tradotta l’esigenza di
Nietzsche di una svalutazione della verità, rimanda a una serie di
problemi che si situano tra le tesi di Nietzsche e la critica di Lar-
more: la questione del valore viene identificata con la questione
dell’importanza ovvero dell’apparente necessarietà, la verità vie-
ne identificata con la qualità delle opinioni; il problema della ve-
rità appare come il problema psicologico di orientamento verso
ciò che crediamo essere vero, e l’istanza chiarificatrice dovrebbe
indicare quale vita possiamo immaginare. Come si vedrà, que-
12 Cfr. Heit 2009.
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260 Helmut Heit
sti cambiamenti e traduzioni non sono in ultima analisi adatti a
comprendere e criticare adeguatamente il legame che Nietzsche
pone tra volontà di verità e ideale ascetico.
Il nucleo dell’ideale ascetico (conformemente all’interpreta-
zione esposta anche qui) consiste per Larmore «nell’avere un
obbiettivo mai completamente raggiungibile, verso il quale la
coscienza deve costantemente tendere e sacrificarsi» (Larmore
2004: 166). A mio avviso, Larmore non contesta il fatto che la
verità possa essere intesa come un valore irraggiungibile al qua-
le tuttavia si deve tendere, anche se egli intende chiaramente la
verità come qualcosa di cui possiamo disporre positivamente. Il
motivo per cui egli reputa fuorviante la connessione degli idea-
li ascetici con la volontà di verità è altro e più profondo: il va-
lore di verità non si configura come atto arbitrario dell’uomo,
ma piuttosto come un obbligo, che noi possiamo evitare solo a
patto di non pensare più razionalmente: «Il legame con la veri-
tà non è così estraneo al pensiero, come Nietzsche ipotizza qui.
Al contrario, il pensiero è in definitiva incomprensibile se non
lo si pensa come indirizzato verso la verità. Si può addirittura
dire che questo rapporto necessario tra pensiero e verità abbia
il carattere di un obbligo. Giacché come si potrebbe in genere
pensare, senza sentirsi obbligati ad osservare almeno in una certa
misura ciò che si ritiene già vero?» (Larmore 2004: 169). In que-
sta domanda vaga e retoricamente formulata già si preannuncia
la linea centrale di ragionamento che Larmore sviluppa nel corso
del testo. A questo proposito l’esatto significato del sentimento
dell’obbligo viene trattato purtroppo con altrettanta poca preci-
sione così come la limitazione relativizzante secondo la quale si
dovrebbe tener conto almeno in certa misura del proprio modo
di ritenere vero qualcosa. Larmore analizza piuttosto il caratte-
re specifico dell’obbligo alla verità, e questo dimostra che egli
implicitamente intende l’ideale ascetico solo come convenzione
arbitraria – infatti l’integrazione diventa perspicua solo attraver-
so la direzione della sua critica. Sebbene la verità sia un valore,
non si tratterebbe di un valore convenzionale o facoltativo. A
differenza di altri obblighi, la costrizione del pensare alla verità
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Gaia scienza e ideali ascetici 261
non è soggetta all’arbitrio umano, ma sarebbe piuttosto condi-
zione necessaria del pensiero stesso. Perciò, per Larmore un pen-
siero senza valutazione della verità non solo è incomprensibile,
ma neanche realizzabile per noi: «Senza la verità quale punto di
riferimento essenziale il pensiero è semplicemente impossibile»
(Larmore 2004: 171). Tuttavia, quando Nietzsche mette appa-
rentemente in discussione questa impossibilità, non sembra esse-
re quel filosofo particolarmente acuto (tiefblickender) che punta
criticamente il dito contro un «residuo d’ideale» (GM III 27).
Piuttosto che essere una «lacuna di ogni filosofia», agli occhi di
Larmore l’obiezione che finora non esisterebbe alcuna «coscien-
za di quanto la stessa volontà di verità abbia prima bisogno di
una giustificazione» (GM III 24) discredita lo stesso pensiero di
Nietzsche: «Ciò che Nietzsche non ravvisa è che alcuni obblighi,
il riconoscimento di certi valori come appunto della verità, sono
così profondamente ancorati nel pensiero, che costituiscono le
condizioni della sua possibilità. Tali valori non sono creati dal
pensiero. Al contrario, solo sotto la loro guida il pensiero si può
orientare». (Larmore 2004: 172). Data l’importanza fondamen-
tale di questa obiezione per la comprensione della filosofia di
Nietzsche e della volontà di verità, vale la pena di soffermarsi un
momento su questa citazione. Sarà anche da chiarire che cosa
si possa intendere con il discorso di certi obblighi e certi valori,
nonché del profondo ancoraggio di tali obblighi nel pensiero.
Innanzitutto, bisogna domandarsi da dove provengano questi
obblighi, dal momento che essi – contrariamente a quanto so-
stenuto da Kant – non vengono creati dal pensiero. Con la sua
metafora dell’ancoraggio Larmore vuole probabilmente dire che
dobbiamo considerarci sottomessi a questi obblighi di pensie-
ro «per poter pensare in modo coerente» (Larmore 2004: 171).
La tensione verso la verità viene così riportata in modo astori-
co e aprioristico alla sua funzione necessaria di pensiero per il
pensiero (coerente) stesso13. Al contrario, Nietzsche segue nel-
13 A riguardo Larmore afferma occasionalmente che senza l’orientamento alla veri-
tà «il pensiero» è complessivamente «in definitiva incomprensibile» (169) o addirittura
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262 Helmut Heit
la sua genealogia della volontà di verità il paradigma scientifico
del proprio tempo, che prevede di dedurre le forme categoriali
della conoscenza umana del mondo e le condizioni del nostro
uso della ragione dal processo naturale, storico e culturale del-
la storia umana. In questa naturalizzazione e storicizzazione di
Kant Nietzsche segue Lange ed altri. Così, le forme del pensie-
ro umano non diventano un mero gioco facoltativo dell’arbitrio
individuale, e non viene neppure smentita la loro funzionalità
generale, così come da una derivazione storico-naturale della vi-
sione dell’uomo non deriva che l’individuo potrebbe cambiare
arbitrariamente il proprio spettro ottico, oppure che l’occhio
umano sia sostanzialmente inutile. Larmore resta debitore di un
certo tipo di risposta sulla provenienza delle leggi del pensiero.
La tesi che il pensiero possa “trovare la propria strada” solo sulla
base di un orientamento alla verità non contraddice l’idea per cui
il valore della verità sarebbe creato dal pensiero. Funzione e ori-
gine sono due cose differenti dal punto di vista teorico-evolutivo.
Attraverso questa falsa disgiunzione Larmore dà l’impressione
che si potrebbe eliminare la questione dell’origine di determinati
obblighi semplicemente rimandando alla loro indispensabilità.
Ancor più importante delle questioni citate sopra è la doman-
da se l’orientamento alla verità non sia di per sé un obbligo di
pensiero non modificabile e assoluto la cui violazione porta ine-
vitabilmente a incoerenze. Parlando di incoerenza, Larmore non
caratterizza, a differenza di altri critici, alcuna contraddizione
logica, pragmatico-linguistica o performativa, bensì un conflitto
psicologico: «Non ci si può ingannare con piena coscienza del
fatto che si sia computo un atto di autoinganno» (Larmore 2004:
170). Questa dichiarazione non è immediatamente comprensi-
bile. Innumerevoli illusioni ottiche dimostrano che è possibile
vedere o addirittura dover vedere linee tremolanti o cerchi ro-
tanti, senza la necessità di cogliere in modo pienamente consa-
«impossibile» (171), senza di esso non si potrebbe «pensare coerentemente» (171), il
pensiero non può «trovare la sua strada» (172). Probabilmente egli non vede differenze
rilevanti tra queste modalità espressive.
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pevole che si tratta di un autoinganno. Possiamo anche essere
consapevoli di un inganno, senza che questo inganno scompaia o
perda ogni significato. Possiamo infine essere più o meno sicuri
del fatto che si tratti di un inganno o meno. Ciò è dovuto al fatto
che tra la certezza della verità e la certezza assoluta dell’inganno
c’è una molteplicità di gradazioni e sfumature. Si può dimostra-
re che con l’aiuto di una comprensione della verità non binaria
anche l’autoinganno consapevole può venire pensato coerente-
mente. Mentre noi crediamo più o meno, ma non abbiamo nes-
suna certezza assoluta, che esista la materia nera, che le aziende
private abbiano a cuore solo i loro profitti, oppure che una certa
persona sia il partner per la vita, possiamo anche tenere aperta la
possibilità di essere caduti in un inganno. Possiamo anche essere
sicuri che si tratti di un punto di vista semplicistico o esagerato, e
in senso stretto sbagliato, che noi tuttavia utilizziamo e conside-
riamo appropriato. Allo stesso modo, nella realtà di tutti i giorni
così come nella pratica scientifica, operiamo per idealizzazioni,
tipizzazioni, approssimazioni e semplificazioni, la cui sostanziale
falsità può apparire chiara. Anche in ambito della costruzione di
teorie scientifiche il confine tra verità e inganno non è così peren-
torio, come Larmore crede quando afferma che «proprio come
non ci si può ingannare senza credere che l’illusione sia vera, così
gli scienziati non possono fare propria alcuna ipotesi senza avan-
zare la pretesa che questa “interpretazione” sia corretta» (Lar-
more 2004: 175). Questa opinione dimostra che la concezione
della natura ipotetica e provvisoria della conoscenza scientifica,
che alla fine dell’Ottocento si caratterizza come opinione preva-
lente degli storici della scienza – e dei filosofi –, non ha ancora
trovato un consenso generale. A questo proposito, secondo il
giudizio esemplare di Max Heinze, l’autocomprensione di uno
scienziato illuminato consiste proprio nel fatto di non essere più
convinto della verità assoluta e inconfutabile della propria in-
terpretazione. Un tale atteggiamento addirittura si opporrebbe,
con il suo dogmatismo, all’obbiettivo del progresso scientifico.
L’atteggiamento epistemico con il quale si adotta un’ipotesi non
è infatti più quello della certezza, ma della migliore credibilità
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a disposizione. Solo attraverso la perdita di certezza nella verità
si apre lo spazio per pensare a una valutazione della volontà di
verità e di conseguenza anche a una scienza “gaia”.
Considerando le prove raccolte finora per una gaia scienza,
alcuni momenti tipologici diventano riconoscibili in modo sia
positivo che negativo. Come i filosofi gioiosi e pronti alla ri-
nuncia, così anche la gaia scienza non rinuncerà agli strumenti
dell’ascesi, della concentrazione e del distacco. La volontà di ve-
rità sublimata dal punto di vista storico-culturale permane come
ideale di onestà intellettuale. Questa onestà invita tuttavia a uno
scetticismo che si radicalizza contro le condizioni classiche del-
la ricerca scientifica della verità. In contrasto con il modello di
Sisifo della contemporanea ricerca ascetica della verità, la gaia
scienza sa che deve esaminare da sé i propri valori e i propri
obbiettivi. La caratteristica più importante di questo nuovo
atteggiamento scientifico è quindi un grado di consapevolezza
superiore. Allo stesso tempo essa è “scienza” nel senso che ri-
spetta la somma dei piccoli fatti, sa disporli vantaggiosamente
in una gerarchia ed integrarli in una visione del mondo. Questa
visione del mondo, invece, non è già fissata del tutto, bensì offre
all’uomo un ricco spazio di possibilità e di forme – e in ciò la
gaia scienza trova la propria gioiosa serenità. Se e come una tale
alternativa sia possibile nella pratica, può essere dimostrato solo
sperimentalmente.
Traduzione dal tedesco di A. Giacomelli
Bibliografia
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Porre in questione il valore della verità
Riflessioni sul compito della tarda filosofia
di Nietzsche a partire da GM III 24-27
Pietro Gori
I paragrafi conclusivi della terza dissertazione della Genealogia
della morale hanno una funzione rilevante nell’economia dell’in-
tera opera. Essi di fatto fungono da chiusura non solo della sezio-
ne, ma di tutto il libro, e possono essere letti come vero e proprio
“snodo” del pensiero maturo di Nietzsche. Nelle ultime pagine
della Genealogia, infatti, Nietzsche tira le fila di una riflessione
svolta in particolare dopo la pubblicazione dello Zarathustra e
legata per molti aspetti alla revisione delle sue opere giovanili in
vista della loro seconda edizione (La nascita della tragedia, i due
volumi di Umano, troppo umano, Aurora e la Gaia scienza). Que-
sta riflessione viene poi indirizzata da Nietzsche verso il progetto
editoriale e filosofico che sfocerà nel trittico di testi composti nel
1888 (Anticristo, Crepuscolo degli idoli e Ecce homo). Il nucleo
concettuale attorno al quale tutto questo ruota è in particolare
la questione della verità, o meglio della «volontà di verità», che
Nietzsche individua come fondamento della cultura europea e
della sua morale – a suo avviso responsabile principale «del fatto
che una in sé possibile suprema istanza e magnificenza del tipo
uomo non è mai stata raggiunta» (GM, Prefazione 6) –, alla cui
disamina e critica la Genealogia è complessivamente dedicata.
Il presente contributo si concentrerà sull’idea che il contenu-
to dei paragrafi conclusivi della Genealogia rappresenti il centro
di una rete di concetti che costituisce l’intelaiatura della tarda
filosofia di Nietzsche. Se letta nel contesto della sua produzione
nel periodo 1886-18881, la problematizzazione della verità an-
1 Per una contestualizzazione della Genealogia negli scritti maturi di Nietzsche cfr.
Stegmaier 1994: cap. 3.
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268 Pietro Gori
nunciata in particolare in GM III 24 e 27 dimostra la propria
rilevanza e centralità, in quanto passaggio fondamentale per por-
tare a maturazione le istanze critiche del pensiero di Nietzsche
e permettere la realizzazione della «filosofia dell’avvenire» di cui
Al di là del bene e del male doveva costituire il preludio.
1. Ideale ascetico e volontà di verità
La questione della verità emerge al termine della disamina che
Nietzsche compie dell’ideale ascetico. Dopo essersi occupato
delle sue manifestazioni religiose e artistiche, Nietzsche chiama
in causa il terzo elemento che, con arte e religione, completa l’o-
rizzonte culturale Europeo: la scienza moderna. In quanto «fi-
losofia della realtà [che] crede soltanto a se stessa, possiede il
coraggio di sé, la volontà di sé e sino a oggi s’è cavata d’impaccio
abbastanza bene senza Dio, trascendenza e virtù negatrici», la
scienza si presenta come il «contrapposto» dell’ideale ascetico,
e di essa si è comunemente portati a pensare che «già in tutto
quanto è più importante si [sia] imposta» su quest’ultimo (GM
III 23). Ma questa è una visione falsata, secondo Nietzsche, in
quanto la scienza moderna non solo «non costituisce l’antitesi di
quell’ideale ascetico, ma [ne è] piuttosto la sua stessa forma più
recente e più nobile» (ibid.)2. Scienza e ideale ascetico non sono
infatti che manifestazioni di un principio fondamentale, che
Nietzsche individua quale radice della cultura europea nel suo
complesso e al quale dà il nome di “volontà di verità”. In GM
III 25 leggiamo infatti che «scienza e ideale ascetico riposano in-
vero sullo stesso suolo (…): sull’identica sopravvalutazione della
verità (più esattamente: sull’identica fede nella insuscettibilità di
valutazione e critica da parte della verità)».
Secondo quanto Nietzsche aveva già sostenuto in FW 344 (ap-
partenente al quinto libro della Gaia scienza e quindi coevo alla
2 Sul rapporto tra scienza e ideale ascetico si veda anche il contributo di Helmut
Heit in questo volume.
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Porre in questione il valore della verità 269
Genealogia), non esiste «una scienza “scevra di presupposti”»,
e anche «la scienza riposa su una fede» nel momento in cui non
abbandona «la convinzione che “niente è più necessario della ve-
rità, e che in rapporto a essa tutto il resto ha soltanto un valore
di secondo piano”». Nella Genealogia, Nietzsche recupera l’idea
che la scienza – e in generale la nostra conoscenza – riposi su di
una «fede metafisica»3 e, attraverso una citazione dello stesso FW
344, fa emergere la questione relativa alla volontà di verità. È
proprio su quest’ultima, infatti, sulla «fede in un valore metafisi-
co, in un valore in sé della verità», che la scienza fonda le proprie
basi, così come qualsiasi altra forma di descrizione e interpreta-
zione del mondo (GM III 24). Il principio è esattamente quello
posto dall’ideale ascetico, l’identificazione della verità col divino,
l’idea che essa sia per noi l’istanza suprema, incondizionata e in-
contestabile. Un aspetto, questo, che secondo Nietzsche nessuna
filosofia ha finora mai saputo e voluto affrontare, dal momento
che proprio «l’ideale ascetico è stato fino a oggi padrone di ogni
filosofia», e quindi non vi erano i presupposti perché si guardasse
criticamente alla verità, «non era in alcun modo lecito alla verità
essere problema» (ibid.).
Questa «lacuna» propria delle filosofie passate costituisce il
terreno sul quale Nietzsche intende costruire il suo pensiero ma-
turo. In quanto aspetto che, nell’epoca dominata dalla metafisica
platonica e cristiana, non poteva essere messo in alcun modo in
discussione, la fede nella verità è il principale elemento destinato
a crollare nel momento in cui si affermi la morte di Dio. Nella
parte di FW 344 citata in GM III 24, infatti, Nietzsche invita a
riflettere sulle conseguenze di tale evento, su cosa rimanga della
3 La posizione di Nietzsche rispetto al sapere scientifico va contestualizzata per es-
sere adeguatamente compresa. Molto sinteticamente si può dire che, contrariamente a
quanto si pensa, il suo atteggiamento non è in principio avverso alla scienza in generale.
Quello che egli critica è infatti in particolare l’orientamento meccanicistico delle scienze
naturali della propria epoca, che nasconde una metafisica sostanzialistica non diversa da
quella individuabile in ambito religioso. Come si dirà tra breve, questa critica è in partico-
lare in linea con quanto sostenuto in ambito scientifico da alcuni autori contemporanei a
Nietzsche, tra i quali risalta in particolare Ernst Mach, di cui si è certi che Nietzsche abbia
conosciuto l’opera per lo meno dopo il 1886. Cfr. su questo, tra gli altri, Gori 2009 e 2014.
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270 Pietro Gori
verità, prima identificata con Dio, nel momento in cui quest’ul-
timo «si rivela come la nostra più lunga menzogna»4. E continua
affermando che
a partire dall’istante in cui la fede nel Dio dell’ideale ascetico è ne-
gata, esiste anche un nuovo problema: quello del valore della verità. – La
volontà di verità ha bisogno di una critica – con ciò determiniamo il
nostro proprio compito –, in via sperimentale deve porsi una volta in
questione il valore della verità… (GM III 24)
Per comprendere adeguatamente la connessione tra critica del-
la verità e morte di Dio occorre fermarsi un momento a riflettere
su quest’ultimo concetto, che può essere inteso nel senso forse
meno poetico ma altrettanto efficace come un disincanto post-po-
sitivistico nei confronti della descrizione del mondo. Non bisogna
infatti dimenticare che Nietzsche vive nell’epoca in cui la scienza
si affranca dai principi del meccanicismo newtoniano e prende la
strada che porterà, tra gli altri, al convenzionalismo di Poincarè
e al relativismo di Einstein. Come è stato oramai ampiamente di-
mostrato dagli studi sulle fonti del suo pensiero, Nietzsche si in-
teressa al dibattito in corso e, stimolato prima di tutto dalla Storia
del materialismo di Friedrich Lange, legge testi scientifici di varia
natura, dalla chimica alla biologia, dalla teoria della conoscenza
all’astronomia (cfr. Heit/Heller 2014). In particolare, seppur in-
direttamente, Nietzsche condivide le posizioni antimetafisiche di
Ernst Mach, che grande parte ebbe ad esempio nello svolgimento
della psicologia scientifica e che contribuì a mettere in questione
le potenzialità esplicative della scienza, influendo profondamente
sulle prospettive della filosofia scientifica del primo Novecento5.
Sulla base dei numerosi spunti che Nietzsche raccoglie da quel
dibattito, egli arriva a formulare un’epistemologia prospettivistica
4 Werner Stegmaier (1994: 49 ss.) mostra bene come in FW 344 la messa in que-
stione della verità conseguente alla caduta di Dio, suo garante supremo, si estenda al
piano della morale. In generale, Stegmaier osserva che negli aforismi di apertura di FW
V Nietzsche espone alcune delle tematiche principali sulle quali si concentrerà in GM e
che seguono dall’evento europeo della morte di Dio (cfr. in particolare FW 343).
5 Per un confronto tra le posizioni di Nietzsche e Mach in epistemologia e psicologia
si vedano Hussain 2004 e Gori 2015, 2012 e 2009.
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Porre in questione il valore della verità 271
che insiste prima di tutto sul carattere relativo e funzionale – o
addirittura pragmatico – della verità, e quindi contesta che a essa
venga attribuito un valore assoluto. In altre parole, Nietzsche re-
spinge il «pregiudizio morale» per cui «la verità abbia maggior
valore dell’apparenza» (JGB 34).
All’epistemologia di Nietzsche è dedicato il paragrafo succes-
sivo del presente contributo, che permetterà di rendere conto
di quale fosse il percorso di riflessione che Nietzsche aveva alle
spalle nel momento in cui in GM III 24 egli annuncia di aver in-
dividuato nella volontà di verità un luogo cruciale per il pensiero
occidentale – riprendendo quanto affermato in apertura di Al di
là del bene e del male, quando scrive che «il problema del valore
della verità ci si è fatto innanzi. (…) E si potrebbe mai credere
all’impressione, nata, in definitiva, in noi, che il problema non sia
stato finora mai posto – che siamo stati noi per primi ad averlo
intravisto, preso di mira, osato?» (JGB 1)6. Prima di passare a
questo, è però opportuno un chiarimento sul rapporto tra epi-
stemologia e assiologia in Nietzsche.
Nel sottolineare la centralità della riflessione epistemologi-
ca di Nietzsche per la sua filosofia matura, non si vuole negare
l’importanza che per lui ha sempre avuto la questione morale.
La stessa lettura della morte di Dio come posizione conseguente
alla messa in questione del potere esplicativo della conoscenza
(umana in generale e scientifica in particolare) non vuole certo
circoscrivere quel concetto entro la sola sfera teoretica. È nostra
intenzione, piuttosto, mettere in luce come Nietzsche trovi nelle
questioni epistemologiche un fondamento solido per la propria
critica della morale europea, e sviluppi quindi sul piano teoretico
gli strumenti critici che gli serviranno per operare un «contro-
movimento» in grado di annullare gli effetti che quella morale
6 Si può ricordare, qui, che nelle intenzioni di Nietzsche la Genealogia doveva fun-
gere da «integrazione e chiarimento» di Al di là del bene e del male (Lettera a C. G.
Naumann, 8.11.1887). Questo spiega il motivo per cui in essa ritornino temi presenti in
JGB, che vede tra i propri contenuti principali la questione del carattere prospettico della
vita e della verità. Ciononostante, resta quantomeno singolare che la Genealogia di fatto
si chiuda con il medesimo annuncio che apre Al di là del bene e del male.
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272 Pietro Gori
ha avuto sull’uomo (cfr. NF 1887-88, 11[411] e JGB 203). Porre
in questione il valore della verità significa quindi per Nietzsche
andare alla radice della morale, in quanto nella volontà di verità
egli individua il fondamento stesso della metafisica occidentale,
il principio logico “puro” che si trova alla base di qualsiasi attri-
buzione di valore. Questo è comunque comprensibile dal modo
in cui Nietzsche introduce la questione nella Genealogia, che oc-
cupa un posto privilegiato, di particolare risalto, comparendo in
chiusura dell’opera. Il problema del valore della verità emerge
infatti nel contesto generale di una critica genealogica della mo-
rale e in quello particolare di una riflessione sull’ideale ascetico,
e a esso si arriva solo al termine di una disamina delle varie forme
in cui quest’ultimo si è storicamente presentato. Solo dopo aver
preso in considerazione e rigettato religione, arte e scienza come
manifestazioni dell’ideale ascetico si raggiunge infatti il nucleo
più profondo e inesplorato di questo ideale (il suo «nocciolo»
(Kern), GM III 27), e si varca la soglia di quell’antro labirintico
nel quale neppure gli spiriti «europei, cristiani» che vogliono dir-
si liberi hanno il coraggio di smarrirsi (GM III 24).
2. L’epistemologia di Nietzsche
L’epistemologia di Nietzsche si fonda prevalentemente sull’i-
dea che l’uomo svolga un ruolo attivo nel processo conoscitivo.
Attraverso i suoi organi di senso e il suo intelletto questi arriva in-
fatti a creare qualcosa, anziché semplicemente replicare uno stato
di cose7. La nostra conoscenza del mondo non rispetta quindi per
Nietzsche i principi della adaequatio rei (cfr. Müller-Lauter 1999:
61), o, per usare una terminologia contemporanea, essa non si con-
forma alla “teoria della corrispondenza” che, secondo William Ja-
7 La teoria della conoscenza di Nietzsche è stata ampiamente studiata. Si veda ad
esempio Grimm 1977 e Clark 1990. La posizione di Nietzsche fu notevolmente influen-
zata dagli studi di fisiologia della percezione svolti nel corso dell’Ottocento, e che egli
conobbe a partire dalla lettura della Storia del materialismo di Lange (cfr. Gori 2009: cap.
1, § 3.4 e Stack 1983: cap. 5).
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Porre in questione il valore della verità 273
mes, caratterizza il senso comune e in base alla quale «un’idea vera
deve copiare la sua realtà», restituendola quindi per come essa è
(James 1907/2011: 93). Al contrario, Nietzsche pensa che non sia
per noi fisiologicamente possibile un rapporto oggettivo e incondi-
zionato con il reale, e ritiene pertanto che non si possa dare alcuna
«conoscenza in sé» (cfr. NF 1881, 15[9]). Seguendo la terminolo-
gia tradizionale – che Nietzsche cerca di superare modificando il
significato dei termini in uso, ma senza con questo abbandonarli
–, la nostra conoscenza del mondo può essere quindi definita solo
come una descrizione erronea e falsificatrice della realtà8.
Tutti questi elementi sono ben evidenti in quanto Nietzsche
scrive in JGB 34, in cui, come anticipato, egli mette in discus-
sione la plausibilità della tradizionale attribuzione di valore alla
verità. Posto che «l’erroneità del mondo, in cui crediamo di vi-
vere, [sia] l’aspetto più sicuro e più saldo di cui possono ancora
impadronirsi i nostri occhi», e che quindi l’ambito della nostra
conoscenza del mondo sia esclusivamente quel «mondo appa-
rente» che la metafisica tradizionale circoscrive a partire da una
contrapposizione con il «mondo “vero”» delle forme immutabili
e assolute9, Nietzsche osserva l’impossibilità di uscire da quella
dimensione, e commenta:
Che la verità abbia maggior valore dell’apparenza, non è più che un
pregiudizio morale; è persino l’ammissione peggio dimostrata che ci sia
al mondo. Si voglia dunque confessare a se stessi quanto segue: che non
ci sarebbe assolutamente vita, se non sulla base di valutazioni e illusioni
prospettiche; e se si volesse (…) togliere completamente di mezzo il
«mondo apparente», ebbene, posto che voi possiate far questo, – an-
che della vostra «verità», almeno in questo caso, non rimarrebbe più
nulla! Sì, che cosa ci costringe soprattutto ad ammettere che esista una
sostanziale antitesi di «vero» e «falso»? Non basta forse riconoscere
8 Per una recente discussione del “falsificazionismo” di Nietzsche, cfr. Riccardi 2011.
9 Del rapporto tra mondo “vero” e mondo “apparente” Nietzsche parla in partico-
lare in GD, La “Ragione” nella filosofia e Come il “mondo vero” finì per diventare favola. In
quest’ultima sezione, in particolare, egli ripropone la logica di annullamento di entrambi
questi piani conoscitivi che espone in JGB 34. Cfr. su questo il commento di Gori e Piaz-
zesi a queste sezioni del Crepuscolo degli idoli in Nietzsche 1889/2012: 160 ss.
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diversi gradi di illusorietà, nonché, per così dire, ombre e tonalità com-
plessive, più chiare e più oscure, dell’apparenza? (…) Per quale ragione
mai il mondo, che in qualche maniera ci concerne, – non potrebbe essere
una finzione? (JGB 34)
L’interrogativo che anima il compito esposto in GM III 24
e 27, la questione morale del perché si attribuisca alla verità un
valore superiore rispetto all’apparenza, si fonda su di un’episte-
mologia in base alla quale non è possibile parlare di “verità” in
senso assoluto, come accesso incondizionato al piano della realtà,
mentre quello che ci è dato conoscere – il “mondo” come risulta-
to della nostra esperienza conoscitiva – non è altro che un insieme
di «valutazioni e illusioni prospettiche». Ancora di più, Nietzsche
ammette che proprio queste falsificazioni e interpretazioni del
mondo possiedano un reale valore per l’uomo, in quanto si sono
dimostrate funzionali alla conservazione della vita. La visione
evolutiva della conoscenza è una caratteristica dell’epistemolo-
gia di Nietzsche fin dalla sua prima, embrionale formulazione
nello scritto pubblicato postumo Su verità e menzogna in senso
extramorale (1873). In questo testo Nietzsche connette le posi-
zioni schopenhaueriane sulla conoscenza umana come «mezzo di
conservazione dell’individuo e della specie» (Il mondo come vo-
lontà e rappresentazione, I, § 27) con la teoria di Gustav Gerber,
ricavandone la ben nota definizione dell’attività intellettiva come
produzione di «metafore» (WL)10. L’idea di fondo è che l’uomo
intervenga sul mondo in maniera creativa e che la conoscenza sia
un’operazione artistica, estetica, di produzione di forme a partire
da un materiale caotico che richiede di essere ordinato per poter
essere gestito. Nell’ambito del suo agire comunicativo, l’uomo
si serve dunque di un’“interpretazione” della realtà percepita,
un’“illusione” di verità, che però, in ragione del suo valore fonda-
mentale per la vita, viene scambiata con quest’ultima11.
10 Il testo di Gerber letto da Nietzsche è Die Sprache als Kunst (2 voll., 1871-1872).
Sull’influsso di Gerber sulla teoria del linguaggio del giovane Nietzsche si veda, tra gli
altri, Meijers 1988.
11 Da qui la celebre definizione secondo cui «le verità sono illusioni di cui si è dimen-
ticata la natura illusoria» (WL).
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Porre in questione il valore della verità 275
La lettura della Storia del materialismo di Friedrich Lange,
che conteneva una trattazione della fisiologia della percezione
che insiste sull’attività di selezione propria degli organi di senso
rispetto agli stimoli provenienti dal mondo esterno, permise a
Nietzsche di formulare in maniera più compiuta questa sua pri-
ma intuizione, muovendo verso la teoria della conoscenza espo-
sta in Umano, troppo umano, dove il carattere metaforico della
descrizione linguistica del mondo lascia il posto alla sua costitui-
va “erroneità”. Presupponendo un intervento attivo degli organi
percettivi sulla realtà, Nietzsche arriva a considerare ogni atto
conoscitivo come una fondamentale falsificazione del mondo, e
il mondo fenomenico come una «rappresentazione del mondo
fabbricata con errori intellettuali e tramandatici in eredità»:
Ciò che noi ora chiamiamo il mondo è il risultato di una quantità
di errori e fantasie che sono sorti a poco a poco nell’evoluzione com-
plessiva degli esseri organici, e che sono cresciuti intrecciandosi gli uni
alle altre e ci vengono ora trasmessi in eredità come tesoro accumulato
in tutto il passato – come tesoro: perché il valore della nostra umanità
riposa su di esso. (MA 16)
Questa concezione evolutiva della conoscenza, che attribuisce
valore alla dimensione fenomenica in quanto essa si è dimostrata
funzionale alla conservazione della specie, viene sviluppata da
Nietzsche negli anni seguenti e costituisce un elemento distin-
tivo della sua epistemologia prospettivistica. Nel riflettere sui
caratteri della nostra esperienza del mondo, Nietzsche osserva
in particolare il fatto che non si dia alcuna conoscenza in sé,
dal momento che ogni rapporto con la realtà è per noi mediato
dall’attività semplificatrice e organizzatrice dei nostri organi di
senso e del nostro intelletto. Per questo motivo Nietzsche osser-
va che lo stesso concetto di “conoscenza” andrebbe inteso in un
senso diverso, per rendere conto di un’attività che egli descrive
nei termini di una «deduzione, che si accresce da millenni, da
tutta una serie di errori ottici – necessari, posto che in generale
vogliamo vivere –, errori, nel caso che tutte le leggi della pro-
spettiva debbano essere errori in sé» (NF 1881, 15[9]). In questa
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276 Pietro Gori
nota postuma Nietzsche ribadisce il valore della falsificazione del
mondo operata dai nostri organi di senso e dal nostro intellet-
to di cui aveva parlato in MA 16, sottolineando il fatto che gli
“errori” siano necessari ai fini della conservazione della specie,
e che quindi debbano essere considerati un «tesoro» per il ge-
nere umano. Ma il luogo in cui la considerazione evolutiva della
conoscenza di Nietzsche è delineata con maggiore chiarezza è
probabilmente l’aforisma 110 della Gaia scienza, intitolato Ori-
gine della conoscenza. In questa sezione Nietzsche osserva prima
di tutto che alcune concezioni proprie del senso comune relative
all’esistenza di entità sostanziali, del libero volere e di un bene
valido universalmente e in sé non sono che «erronei articoli di
fede» tramandati nel corso della storia evolutiva dell’uomo in ra-
gione della loro utilità per la vita. «Per immensi periodi di tempo
– scrive Nietzsche – l’intelletto non ha prodotto altro che erro-
ri: alcuni di questi si dimostrarono utili e atti alla conservazione
della specie», e sulla base di questa utilità si cominciò a valutare
“vero” e “non vero”. L’incorporazione di questi «primordiali er-
rori di fondo», inoltre, è intervenuta secondo Nietzsche sino al
livello sensoriale, tanto che non è possibile per noi accedere a
un livello conoscitivo “im-mediato”. La conclusione di questo
ragionamento è pertanto che «la forza delle conoscenze non sta
nel loro grado di verità, bensì nella loro età, nel loro essere incor-
porate, nel loro carattere di condizione di vita». Vale a dire, una
conoscenza è valida non tanto se offre un accesso alla realtà delle
cose, quanto se si dimostra vantaggiosa per il nostro orientamen-
to nel mondo. Nietzsche ribadirà questa posizione in uno dei
suoi ultimi quaderni, in cui scriverà che la «logica e le categorie
di ragione» sono solamente «dei mezzi per accomodare il mondo
a fini utilitari (…per un’utile falsificazione)», e il «criterio della
verità» che i filosofi individuano in loro non è altro che «l’utilità
biologica di un tale sistema della falsificazione per principio» (NF
1888, 14[153]). Per quanto le nozioni logiche non siano quindi
di per se stesse un «criterio della verità, ovvero della realtà», esse
restano comunque il nostro più efficace strumento per descrivere
il mondo, ed è legittimo che a esse si continui ad attribuire un
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Porre in questione il valore della verità 277
valore di verità, in ragione però solamente della loro utilità per la
conservazione della specie (ibid.).
Non occorre procedere ulteriormente in questa disamina per
svolgere le osservazioni che ci interessano in questa sede. Da
quanto detto è già di per sé evidente che la teoria della conoscen-
za cui Nietzsche fa riferimento metta in discussione la tradiziona-
le concezione della verità e imponga un cambiamento sostanziale
del significato da attribuire a tale nozione. Fondamentalmente,
secondo Nietzsche, non è più possibile pensare alla verità come
al «prendere coscienza di qualcosa che sia “in sé” fisso e deter-
minato». Al contrario, «la verità non è qualcosa che esista e che
sia da trovare, da scoprire, – ma qualcosa che è da creare e che
dà il nome a un processo» (NF 1887, 9[91])12. “Vero” è pertanto
solo il nome che si dà alle forme logiche prodotte dal nostro in-
telletto che maggiormente promuovono la vita e che permettono
all’uomo di intervenire sul mondo prima di tutto orientandosi in
esso, per poi dominarlo attraverso il calcolo e la misura. Ciò che
noi chiamiamo “conoscenza del mondo” non è quindi altro che
un intervento su di esso, un suo condizionamento, laddove non
è possibile alcun tipo di rapporto non mediato e incondizionato
con la realtà. Da questo segue che i termini “vero” e “falso” non
possono più valere quali sinonimi di “incondizionato” e “condi-
zionato”. Anzi, l’intera dimensione della conoscenza rientra nel
secondo caso e la verità può essere giudicata solamente a partire
da una valutazione relativa (e pragmatica) tra le molteplici deter-
minazioni erronee (che, secondo il principio di corrispondenza,
sarebbero state definite “false”). Detto sinteticamente: «La verità
non significa il contrario dell’errore, bensì la posizione di taluni
errori rispetto a taluni altri» (NF 1885, 34[247]).
Questa considerazione conclusiva ci riporta alla questione che
Nietzsche pone in JGB 34, in cui egli affronta il «pregiudizio mo-
12 Questa osservazione di Nietzsche dà sostanza a un possibile confronto tra la con-
cezione nietzscheana della verità e quella di William James (cfr. Gori 2013, in particolare
p. 82). Sulla nuova nozione di verità di Nietzsche come espressione della «volontà di
potenza» e principio dinamico antitetico alla determinazione di una «cosa in sé» cfr.
Stegmaier 1985: 83 s.
10 Gori_267.indd 277 17/09/15 17.44
278 Pietro Gori
rale» secondo cui la verità ha maggior valore dell’apparenza. «Il
problema del valore della verità» (JGB 1 e GM III 24) consiste in
particolare nel rendere conto della nostra volontà di perseguire il
“vero” anziché il “non vero”, una volontà di fatto immotivata, nel
momento in cui questa stessa distinzione è un prodotto dell’inter-
pretazione metafisica tradizionale e non sussiste in sé (cfr. JGB 2).
Ancora in Al di là del bene e del male, Nietzsche osserva come la
considerazione che siano stati «i giudizi più falsi, (…) le finzioni
logiche» a promuovere e conservare la vita, e che quindi occorra
«ammettere la non verità come condizione della vita», determine-
rebbe un progresso per la filosofia, che si porrebbe, «già soltanto
per ciò, al di là del bene e del male» (JGB 4). Far cadere la distin-
zione tra “vero” e “falso” significa in particolare attribuire valore
al “mondo apparente”, in quanto piano delle «valutazioni e illu-
sioni prospettiche» senza le quali «non ci sarebbe assolutamente
vita» (JGB 34). Il progresso della filosofia passa quindi per l’accet-
tazione della tarda epistemologia di Nietzsche, nota col nome di
prospettivismo, da lui espressamente definita come l’idea per cui
il mondo di cui possiamo avere coscienza è solo un mondo di superfi-
ci e di segni, un mondo generalizzato, volgarizzato (…); a ogni farsi della
coscienza è collegata una grande fondamentale alterazione, falsificazio-
ne, riduzione alla superficialità e generalizzazione. (…) Non abbiamo
nessun organo per il conoscere, per la «verità»: noi «sappiamo» (o cre-
diamo, o c’immaginiamo) precisamente tanto quanto può essere vantag-
gioso sapere nell’interesse del gregge umano, della specie. (FW 354)13
Da quanto si è visto si può dire che la teoria della conoscen-
za che Nietzsche elabora comporti la necessità di riferirsi a una
nuova nozione di verità, la quale ammetta il condizionamento
come suo principio fondamentale. La presa di coscienza del ca-
rattere mediato della nostra conoscenza del mondo non porta
quindi Nietzsche alla negazione assoluta di qualsiasi principio
13 Sulla connessione tra il “mondo apparente” e l’elemento prospettico inerente alla
nostra conoscenza del mondo cfr. anche NF 1886-1887, 6[23] e 1888, 14[184]. Per un
approfondimento sul prospettivismo di Nietzsche cfr. Gori/Stellino 2014, Gori 2010,
Cox 1997 e Gerhard 1989.
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Porre in questione il valore della verità 279
veritativo (posizione che potremmo chiamare “nichilismo episte-
mologico”), ma diviene per lui lo stimolo per la creazione di nuo-
vi criteri di valutazione, per la definizione di nuovi principi veri-
tativi. Una volta rifiutato il carattere assoluto della verità, inoltre,
l’attenzione si sposta dall’oggetto – non più “conoscibile” nel
senso tradizionale – al soggetto che impone la propria interpre-
tazione su ciò che conosce e che si deve confrontare con gli altri
soggetti che avanzano istanze in linea di principio egualmente
valide14. L’apertura di questo orizzonte rappresenta il passaggio
più rilevante della tarda filosofia di Nietzsche, il cui prospettivi-
smo negatore del valore in sé della verità si pone in contrasto con
l’intera dimensione culturale europea fondata sull’ideale asceti-
co. Il prospettivismo si contrappone in particolare alla volontà di
verità che anima questo ideale e che «rifiuta di attribuire valore
a quel tipo di verità che possiamo effettivamente conseguire nel
mondo in cui viviamo» (Leiter 2002: 278). A partire dalle quattro
proposizioni poste in chiusura di GD, “Ragione” 6, Brian Leiter
(2002: 279) sostiene conclusivamente che:
La volontà di una conoscenza non-prospettica della verità è ascetica
o negatrice della vita perché priva di valore il mondo in cui viviamo e
che conosciamo, liquidandolo come pura «apparenza»; essa pone come
«vere» tutte le caratteristiche che «contraddicono» la nostra vita; e può
persino (vedi la «terza proposizione») farsi sostenitrice di una moti-
vazione ostile alla vita. Questi rilievi [di Nietzsche] hanno di certo un
carattere speculativo e in qualche modo metaforico, ma rappresentano
almeno in parte la base delle considerazioni che portano Nietzsche a
giudicare la volontà di verità come ascetica.
3. Prospettivismo e trasvalutazione: il compito di Nietzsche
Il percorso teoretico svolto da Nietzsche ha quindi come esito
finale la messa in questione del valore della verità annunciata in
14 In GM III 12 Nietzsche osserva che «esiste soltanto un vedere prospettico, sol-
tanto un “conoscere” prospettico», e lega l’idea di «oggettività» e «completezza» nella
creazione di nozioni e concetti all’accumulo di quante più posizioni possibili.
10 Gori_267.indd 279 17/09/15 17.44
280 Pietro Gori
GM III 24 e l’affermazione di quell’interrogativo – esistenziale
oltre che epistemologico (cfr. FW 357 e GM III 27-28) – con-
seguente alla presa di coscienza del fatto che «niente più si ri-
vela divino salvo l’errore, la cecità, la menzogna, [e] Dio stesso
si rivela come la nostra più lunga menzogna» (FW 344 e GM
III 24). Il prospettivismo di Nietzsche permette in particolare
di abbandonare la «fede metafisica» che anima il pensiero occi-
dentale, «quella fede cristiana che era anche la fede di Platone»
(ibid.); nel far questo, esso fa vacillare l’intero sistema culturale
europeo, manifestando oltretutto il proprio ruolo nel processo di
critica della morale cristiana che Nietzsche ha messo in atto sin
da Umano, troppo umano (cfr. GM, Prefazione 2).
In GM III 27 Nietzsche riprende la questione della volontà di
verità, evidenziando questa volta il suo ruolo “epocale” e con-
nettendola al progetto editoriale e filosofico che portava avanti
in quegli anni (la Trasvalutazione dei valori, qui ancora annun-
ciata sotto il titolo di Volontà di potenza)15. In questo paragra-
fo, Nietzsche insiste in particolare sul fatto che l’ideale ascetico
rechi in sé i germi della propria distruzione, del proprio anni-
chilimento, in quanto la «bimillenaria costrizione educativa alla
verità, che finisce per proibirsi la menzogna della fede in Dio» e
conduce quindi all’ateismo, non è che «una delle ultime fasi di
sviluppo» di quell’ideale (GM III 27). La cultura europea, che
fonda le proprie radici nell’ideale ascetico, è quindi destinata a
collassare in ragione della propria logica interna, ed è per que-
sto che Nietzsche parla di un «autosuperamento dell’Europa»,
al termine del quale si assisterà al crollo del «cristianesimo come
morale»16. Ancor più rilevante è però che in ragione dell’avvenu-
15 Per un’analisi critica del susseguirsi dei progetti editoriali di un’opera intitolata
Volontà di potenza, che Nietzsche elaborò nei suoi quaderni a partire dal 1885, si veda
Montinari 1982: cap. 8 (Nietzsches Nachlaß von 1885 bis 1888 oder Textkritik und Wille
zur Macht).
16 L’Europa in Nietzsche deve essere intesa primariamente come spazio culturale e
spirituale. Carlo Gentili (2014: 121) definisce in particolare l’Europa come «il continente
spirituale creato dal cristianesimo» e, per questo motivo, osserva che la morte di Dio è
per Nietzsche il momento conclusivo di quel sistema culturale: «Posto che il Dio di cui si
proclama la morte è il Dio del cristianesimo, e che il cristianesimo ha dato alla civilizza-
10 Gori_267.indd 280 17/09/15 17.44
Porre in questione il valore della verità 281
ta morte di Dio e del conseguente fatto che l’interrogativo relati-
vo alla volontà di verità sia finalmente stato posto, Nietzsche ri-
tenga che si sia giunti alla soglia di questo avvenimento, e che sia
quindi possibile compiere il passo decisivo per aprire una nuova
fase di pensiero:
Avendo la veracità cristiana tratto una conclusione dopo l’altra, trae
infine la sua più drastica conclusione, la sua conclusione contro se stessa;
ma questo avviene quand’essa pone la questione «che cosa significa ogni
volontà di verità?»… E a questo punto tocco ancora il mio problema
(…): che senso avrebbe tutto il nostro essere, se non quello espresso dal
fatto che in noi codesta volontà di verità sarebbe diventata cosciente a
se stessa come problema? … Per questa progressiva autocoscienza della
volontà di verità, a partire da questo momento – non v’è alcun dubbio
– va crollando la morale: un grande spettacolo in cento atti, che viene
riservato ai due prossimi secoli europei, il più tremendo, il più proble-
matico e forse anche il più ricco di speranza tra tutti gli spettacoli…
(GM III 27)
In questo paragrafo, ancor più che in GM III 24, Nietzsche
insiste sull’importanza della questione della volontà di verità, che
ha per lui un vero e proprio ruolo cruciale nella storia europea,
e si fa carico di portare a compimento un processo di sviluppo
e liberazione spirituale che proprio nella critica al valore in sé
della verità trova la sua arma più devastante. Il tono del discorso
di Nietzsche, inoltre, manifesta la convinzione che si stia facen-
do strada una nuova consapevolezza rispetto alla cultura tradi-
zionale, una coscienza antimetafisica conseguente alla messa in
questione degli antichi principi e che permette di predisporre lo
spazio entro cui operare quel «contromovimento» che prende il
nome di trasvalutazione dei valori (NF 1887-88, 11[411]).
Tutto questo riprende e in parte sviluppa quanto Nietzsche
aveva scritto nella prefazione di Al di là del bene e del male. An-
che in quella sede Nietzsche tirava le fila di un obiettivo che dava
zione europea la sua forma più propria, la “morte di Dio” rappresenta il compimento di
questa civilizzazione» (Gentili 2014: 119). Sul concetto di Europa in Nietzsche cfr. anche
Witzler 2001.
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282 Pietro Gori
per raggiunto dal pensiero occidentale e, guardando oltre tale
traguardo, delineava i contorni di una «filosofia dell’avvenire».
L’attenzione di Nietzsche si concentra in particolare sul «plato-
nismo in Europa», a suo dire una «caricatura» dogmatica della
riflessione sul problema della verità. Platone, osserva Nietzsche,
ha compiuto «il peggiore e il più ostinato e pericoloso di tutti gli
errori» con l’«invenzione del puro spirito e del bene in sé»,
ma ora che esso è superato, ora che l’Europa, liberata da questo
incubo, riprende fiato e per lo meno può godere un sonno più sano,
siamo noi, il cui compito è precisamente quello di vegliare, gli eredi di
tutta quella forza che è stata allevata e ingrandita dalla lotta contro
questo errore. Significherebbe davvero capovolgere la verità e negare il
carattere prospettico, la condizione fondamentale di ogni vita, se si par-
lasse dello spirito e del bene, come ha fatto Platone. (…) La lotta contro
Platone o, per esprimerci in modo più accessibile e adatto al «popolo»,
la lotta contro la secolare oppressione cristiano-ecclesiastica – giacché
il cristianesimo è un platonismo per il «popolo» – ha creato in Europa
una splendida tensione dello spirito come ancora non si era avuta sulla
terra: con un arco teso a tal punto si può ormai prendere a bersaglio le
mete più lontane. (…) Noi, che non siamo né gesuiti, né democratici,
e neppure abbastanza tedeschi, noi buoni europei e spiriti liberi, assai
liberi – noi la sentiamo ancora, tutta la pena dello spirito e la tensione
del suo arco! E forse anche la freccia, il compito, e chissà? la meta…
Alla luce di quanto osservato sopra, ciò che prima di tutto
emerge da questo passo è la contrapposizione tra dogmatismo e
prospettivismo, e il conseguente ruolo giocato da quest’ultimo.
La lotta contro il platonismo è infatti corroborata dall’afferma-
zione del «carattere prospettico» dell’esistenza, che si contrap-
pone alla volontà di individuare un qualsiasi assoluto, sia esso il
vero o il bene in sé. In quanto il modello metafisico di Platone si
trova alla base del cristianesimo e assieme a quest’ultimo costi-
tuisce la radice dell’Europa, il prospettivismo di Nietzsche con-
ferma inoltre il proprio ruolo di strumento in grado di minare
le basi di un intero sistema culturale e viene a essere il punto di
riferimento di quei «buoni europei e spiriti liberi» che – assieme
a lui – Nietzsche individua quali promotori del rinnovamento
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Porre in questione il valore della verità 283
spirituale conseguente alla morte di Dio (di loro si parlerà nella
sezione successiva). L’idea che la «lotta contro Platone» e «la
secolare oppressione cristiano-ecclesiastica» sia giunta a una fase
decisiva e che tutto sia pronto per il necessario crollo del «cri-
stianesimo come morale», attribuisce infine alla questione della
volontà di verità un valore significativo e destinale. In quanto
quest’ultima costituisce il fondamento di quella morale, non è
più possibile procrastinare un compito (Aufgabe) che appartie-
ne agli eredi di questo percorso spirituale e che in GM III 24
Nietzsche fa proprio: «in via sperimentale deve porsi una volta in
questione il valore della verità…».
Il tema del compito è ricorrente nelle ultime opere di Nietzsche
e nel suo epistolario, e si lega in particolare al progetto della Tra-
svalutazione di tutti i valori17. Esso permette quindi di connettere
direttamente la Genealogia tanto alle opere precedenti quando a
quelle che seguiranno, le quali non sono che lo sviluppo finale
del piano editoriale che in GM III 27 Nietzsche annuncia come
in corso di realizzazione. Si prenda ad esempio il Crepuscolo degli
idoli, testo redatto col preciso scopo di creare lo spazio teorico
all’interno del quale fosse possibile svolgere quel progetto (che,
oltretutto, nel 1888 doveva essere stato completato almeno nella
sua prima parte. Cfr. la lettera a H. Köselitz, 27.09.1887 e Gori/
Piazzesi 2012: 9-17): nella prefazione al Crepuscolo Nietzsche defi-
17 In JGB 203, ad esempio, Nietzsche annuncia il «nuovo compito» che permetterà
uno sviluppo spirituale dell’uomo e la creazione di «nuovi filosofi (…), spiriti abbastanza
forti e originali da poter promuovere opposti apprezzamenti di valore e trasvalutare, ca-
povolgere “valori eterni”», contrastando in questo modo il processo di «degenerazione
e immeschinimento dell’uomo» realizzato dalla morale cristiana e dai movimenti demo-
cratici. Cfr. anche NF 1885, 35[30] e 1887-88, 11[411]. Ma è nelle lettere di Nietzsche
del periodo 1887-88 che si nota meglio quanto peso egli attribuisse al progetto della Tra-
svalutazione dei valori, considerando non solo l’impatto che avrebbe avuto sulla cultura
europea, ma anche il suo valore per la propria vita. In diverse occasioni egli parla infatti
di un “destino” che si sta compiendo e considera il completamento della Trasvalutazione
come qualcosa dal quale non può esimersi. Cfr. p. es la lettera a F. Overbeck, 12.11.1887:
«Ho un compito che non mi permette di pensare molto a me stesso (un compito, un de-
stino, o in qualsiasi modo lo si voglia chiamare). Questo compito mi ha fatto ammalare,
ma mi restituirà anche la salute». Cfr. anche, tra le altre, le lettere a M. von Meysenbug,
12.5.1887, a E. Nietzsche, 15.10.1887 e a P. Deussen, 14.9.1888.
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284 Pietro Gori
nisce la trasvalutazione di tutti i valori come «un compito, che è un
destino» (ein Schicksal von Aufgabe) di cui egli intende assumere il
peso, e la cui realizzazione passa attraverso un’auscultazione degli
«idoli eterni» sui quali si regge il sistema di pensiero Occidenta-
le. Questi idoli – Nietzsche lo rivela in Ecce Homo – non sono
che le antiche verità, le credenze consolidatesi nel corso dei secoli
sulla base del modello metafisico platonico-cristiano e del dogma-
tismo a esso intrinseco (EH, Crepuscolo degli idoli 1). Obiettivo di
Nietzsche è pertanto rivelare che i concetti comunemente adottati
dal senso comune prima e dal pensiero filosofico poi mancano di
un contenuto stabile, al contrario di quanto si suppone. Ecco che
quindi la Trasvalutazione si collega con l’epistemologia prospetti-
vistica, in quanto la prima si fonda su una critica della verità che
mette in luce l’inconsistenza ontologica delle nozioni su cui si reg-
ge il sistema culturale dell’Occidente europeo.
L’operazione che Nietzsche intende svolgere nel Crepusco-
lo non è però completamente negativa. O meglio, lo è, ma è al
contempo finalizzata non tanto a una distruzione nichilistica del
sapere, quanto alla preparazione del terreno per la realizzazione
di una nuova cultura. La comprensione di questo aspetto per-
mette di capire meglio anche il contenuto della parte finale della
Genealogia e il senso che Nietzsche attribuisce al crollo della mo-
rale europea. Questo è possibile, in particolare, attraverso una
disamina di due concetti fondamentali per definire in che modo
Nietzsche interpreta gli esiti della morte di Dio nel suo periodo
maturo di riflessione: Heiterkeit e Heimatlosigkeit.
4. Esiti: la gioiosa serenità per la mancanza di patria
L’apertura del Crepuscolo degli idoli pone immediatamen-
te il lettore di fronte alla questione principale che Nietzsche
vuole trattare, quella della trasvalutazione dei valori. Nel farlo,
Nietzsche manifesta un atteggiamento spirituale che egli ritiene
di fondamentale importanza per potersi occupare di tale questio-
ne, e osserva: «Mantenere la propria gioiosa serenità [Heiterkeit]
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Porre in questione il valore della verità 285
in mezzo a una faccenda oscura e di enorme responsabilità non
è una piccola prova di bravura: e tuttavia, che cosa sarebbe più
necessario di una gioiosa serenità?»18. La nozione di Heiterkeit19
ha un valore significativo per la filosofia matura di Nietzsche, e
rimanda al quinto libro della Gaia scienza in generale e al suo
aforisma di apertura in particolare. In FW 343, intitolato appun-
to Quel che significa la nostra serenità, Nietzsche muove proprio
dal «più grande avvenimento recente – che “Dio è morto”, che
la fede nel Dio cristiano è divenuta inaccettabile» per descrivere
l’atteggiamento spirituale che a tale evento deve seguire. Con-
trariamente alla reazione dell’uomo folle che per la prima volta
annuncia la morte di Dio in FW 125 ed esprime la propria pre-
occupazione per la conseguente condizione di disorientamento
epistemico ed esistenziale, i «filosofi e “spiriti liberi”, alla notizia
che “il vecchio Dio è morto”, [si sentono] come illuminati dai
raggi di una nuova aurora; il [loro] cuore ne straripa di ricono-
scenza, di meraviglia, di presagio, d’attesa» (FW 343). Per loro,
infatti, «il mare (…) sta aperto dinanzi, forse non vi è mai ancora
stato un mare così “aperto”» (ibid.), e questo orizzonte libero da
impedimenti non li spaventa, ma anzi è da stimolo per un inter-
vento creativo sul mondo. Il passaggio da FW 125 a FW 343 ri-
vela quindi un mutato atteggiamento di Nietzsche nei confronti
di questo evento capitale, figlio di una consapevolezza maturata
nell’arco di tempo che separa le due edizioni della Gaia scienza.
Un periodo, questo, – è bene ricordarlo – in cui Nietzsche pub-
blica le quattro parti dello Zarathustra, il cui preludio è anticipa-
to proprio nell’aforisma che chiude la prima edizione della Gaia
Scienza (FW 342). A Zarathustra Nietzsche affida esplicitamente
l’incarico di diffondere il verbo della nuova umanità a venire e
i discorsi del profeta persiano rappresentano evidentemente per
lui uno spartiacque all’interno della propria produzione. È dopo
18 Qui, come sopra, si è seguita la versione italiana del Crepuscolo a c. di Gori e Piaz-
zesi, in particolare perché si distingue per il modo in cui viene tradotto proprio il termine
Heiterkeit (cfr. Nietzsche 1889/2012, p. 125).
19 Per una ricognizione della nozione di Heiterkeit in Nietzsche cfr. Stegmaier 2012:
95-101.
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286 Pietro Gori
il completamento di quell’opera (la cui ultima parte era destinata
a pochi, intimi amici ritenuti in grado di comprendere il pensiero
di Nietzsche), infatti, che Nietzsche si impegna in una ripubbli-
cazione e prefazione delle proprie opere, ma soprattutto nell’am-
pliamento della Gaia scienza con una nuova sezione che raccoglie
le istanze critiche del proprio pensiero orientandole verso la sua
proposta filosofica positiva20. In FW V, inoltre, Nietzsche racco-
glie idealmente attorno a sé i propri lettori, gli spiriti a lui affini,
coloro che condividono con lui non tanto il sentimento di criti-
ca nei confronti della metafisica tradizionale, quanto la capacità
di incanalare questa critica in un’azione educatrice che permetta
l’elevazione finale della spiritualità europea (da qui l’ampio uti-
lizzo della prima persona plurale fin dal titolo). La Stimmung di
tutta questa sezione, significativamente intitolata Noi senza paura,
è proprio la Heiterkeit, sentimento che, come si diceva, risponde
al timore provato di fronte al disorientamento dovuto alla perdita
dei tradizionali punti di riferimento con il coraggio di chi, libero
da vincoli, vive con orgoglio la responsabilità di dover percorrere
autonomamente la strada che gli si presenta innanzi – ancora di
più, di dover di trovare o creare la propria strada, giacché, come
insegna Zarathustra, una strada valida per tutti e che esista prima
di essere percorsa «non esiste» (Za, Dello spirito di gravità).
In quanto reazione alla morte di Dio, la sensazione di gioiosa
serenità si lega a un altro concetto che gioca un ruolo impor-
tante nella tarda filosofia di Nietzsche per via della particolare
ricchezza semantica che lo contraddistingue, quello di Heimat-
losigkeit o “mancanza di patria”. La morte di Dio muta infatti
completamente l’orizzonte di senso dell’uomo europeo e lo co-
stringe a una condizione apolide, da intendersi prima di tutto
come affrancamento dai tradizionali sistemi di riferimento e che
Nietzsche interpreta, di nuovo, come valore positivo. L’idea del-
la mancanza di patria può essere certo intesa in un senso letterale
come liberazione da una visione nazionalistica che impedisca lo
sviluppo culturale di un popolo e rappresenti un vincolo coerci-
20 Per un’interpretazione contestuale di FW V si veda Stegmaier 2012.
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Porre in questione il valore della verità 287
tivo per il suo spirito (così Nietzsche presenta le cose, a esempio,
in VM 323). Ma la convinzione di Nietzsche che nella propria
epoca si stia realizzando l’«ascesa di un tipo umano essenzial-
mente sovranazionale e nomade» (JGB 242) ha un significato più
ampio, in quanto l’apertura culturale non è che l’esito, l’applica-
zione sul piano pratico di un atteggiamento esistenziale che con-
trasta ogni forma di assolutismo e non si preclude la ricchezza di
un confronto tra posizioni rivali e alternative.
Così, in FW 377, Nietzsche attribuisce «in un senso eminente
e onorifico» il titolo di «senza patria» a chi si è dimostrato in
grado di reggere il peso della morte di Dio ed è riemerso dall’a-
bisso del nichilismo con rinnovata salute. A costoro – tra i quali
il più delle volte annovera se stesso – Nietzsche dà il nome di
buoni europei21, i «ricchi eredi di un millenario spirito europeo»,
ostili al cristianesimo «proprio perché è nel cristianesimo che ab-
biamo le nostre radici» (FW 377). In questo aforisma Nietzsche
riprende quanto scritto nella Prefazione di Al di là del bene e
del male, l’idea che la lotta contro Platone abbia avviato un pro-
cesso di elevazione spirituale che solo i «buoni europei e spiriti
liberi» continuano a portare avanti. Questo processo consiste in
particolare nel progressivo affrancamento dal dogmatismo pla-
tonico-cristiano sul quale si fonda l’Europa, e la Heimatlosigkeit
di cui parla Nietzsche va quindi interpretata come la capacità di
orientarsi nel mondo senza fare riferimento a principi veritativi
e valori assoluti22. Essa è quindi strettamente collegata alla que-
stione epistemologica sulla quale Nietzsche riflette con insisten-
za, e condivide con quest’ultima gli esiti non nichilistici che egli
ne trae. Così come la critica del «valore metafisico», del «valore
in sé della verità» non si esaurisce in una negazione della possi-
bilità che si diano principi veritativi di qualche tipo (ad esempio
condizionati o prospettici), la mancanza di patria costituisce per
21 Per una disamina del buon europeo di Nietzsche cfr. Gori/Stellino 2015 e Ventu-
relli 2010.
22 Sul concetto di Heimatlosigkeit in Nietzsche e la sua oscillazione tra una prospet-
tiva politica e una «sovrapolitica, filosofica», cfr. Stegmaier 2012: 544 ss.
10 Gori_267.indd 287 17/09/15 17.44
288 Pietro Gori
i buoni europei e per i filosofi dell’avvenire un campo di possibi-
lità cui guardare positivamente, per diventare finalmente creatori
«di nuove tavole di valori» e «legislatori di se stessi» (FW 335).
In quanto soggetti che hanno vissuto la malattia degenerativa
del cristianesimo e da essa sono guariti, producendo le misure
adatte a realizzare una reazione interna e una conseguente muta-
zione fisiologica di tipo opposto23, i buoni europei dimostrano di
potersi costituire come guida del processo di autosuperamento
della morale cristiana e, per questo motivo, possono essere gli
affidatari del compito che Nietzsche circoscrive quale principale
obiettivo della propria filosofia matura24. In questi termini egli
parla di loro anche in FW 357, aforisma che viene ripreso e ci-
tato proprio in GM III 27, e che riporta quindi al luogo inizia-
le del nostro percorso di riflessione. In entrambe queste sezioni
Nietzsche sostiene che «l’ateismo assoluto» non è che la «vitto-
ria finale faticosamente conquistata della coscienza europea, in
quanto è l’atto più ricco di conseguenze di una bimillenaria edu-
cazione alla verità, che nel suo momento conclusivo si proibisce
la menzogna della fede in Dio» (FW 357; in GM III 27 Nietzsche
espone la cosa con poche varianti), e continua osservando che
«la moralità cristiana, il concetto di veracità preso con sempre
maggior rigore (…) ha ormai fatto il suo tempo» ed è destinato a
crollare a causa della sua stessa logica interna. Si prepara quindi
il «più lungo e più valoroso autosuperamento dell’Europa», i cui
eredi sono appunto i buoni europei (ibid.).
L’affrancamento dalla propria patria che a questi ultimi è pos-
sibile, da intendersi nel senso di un rifiuto dei principi sui quali
si regge l’Europa come spazio culturale – primo tra tutti l’ideale
ascetico con la sua volontà di verità –, permette di affermare che
i buoni europei possano dirsi spiriti compiutamente liberi, con-
trariamente agli «spiriti liberi europei, cristiani» che non sanno
23 Nella prefazione alla seconda edizione di Umano, troppo umano II, Nietzsche de-
finisce i buoni europei «sanissimi» e «fortissimi», individui in grado «di percorrere la via
verso una nuova salute». Cfr. Gori/Stellino 2015: § 2.1.
24 Ad essi Nietzsche destina esplicitamente i suoi scritti e il suo pensiero maturo (cfr.
MA II, Prefazione e FW 377).
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Porre in questione il valore della verità 289
invece prendere le distanze «dalla fede nella stessa verità» (GM
III 24). Diversamente da loro, i buoni europei hanno il coraggio
di affrontare la rinuncia dell’ultimo punto di riferimento che re-
sta all’uomo europeo, e di prendere su di sé il peso della proposi-
zione «nulla è vero, tutto è permesso»25, con le sue «labirintiche
conseguenze» (ibid.). Come si è detto, essi infatti portano la mo-
rale cristiana alle sue estreme conseguenze, ed è il modo in cui
costoro si comportano di fronte all’abisso nichilistico che quella
proposizione apre a contraddistinguerli. La posizione degli As-
sassini non può infatti essere per Nietzsche il punto di arrivo del
pensiero, per quanto necessario sia confrontarsi con essa. L’obiet
tivo di Nietzsche è infatti creativo, ma, per quanto egli inviti a
una nuova creazione di valori, comprende che per realizzarla è
necessario liberarsi di tutti i vincoli appartenenti alla precedente
visione del mondo. Ecco che allora l’atteggiamento spirituale dei
buoni europei, la gioiosa serenità conseguente all’accettazione
della propria condizione apolide, esemplifica il modello di filo-
sofo a cui Nietzsche aspira: un individuo in grado di reagire po-
sitivamente agli esiti nichilistici del percorso che conduce al su-
peramento della morale europea e di tramutare il vuoto che trova
aperto sotto i propri piedi in uno spazio di azione creatrice26.
25 Per una discussione sull’attribuzione di questa proposizione a Nietzsche e sul va-
lore nichilistico che essa reca in sé cfr. Niemeyer 1998. Per una sua connessione col tema
del prospettivismo nietzscheano, cfr. Gori/Stellino 2014: 118 ss.
26 Si noti che Nietzsche presenta il percorso di guarigione dalla malattia del nichi-
lismo come un elemento metaforicamente autobiografico. Nella prefazione alla seconda
edizione della Gaia scienza egli parla ad esempio dei «saturnali di uno spirito che ha
resistito con pazienza a una lunga, orribile oppressione (…) e che ora è invaso dalla
speranza di salute, dall’ebbrezza della convalescenza» (FW, Prefazione 1). Ancora, nella
coeva Prefazione di Aurora (scritta anch’essa nel 1886), Nietzsche si presenta come un
«essere sotterraneo» che è «tornato indietro» da un viaggio nelle tenebre (M, Prefazione 1
e 2). La sua strada era in particolare quella della messa in questione della morale: «Allora,
intrapresi qualcosa che non a tutti sarebbe dato di fare: discesi nelle profondità, perforai
il fondo, cominciai a sondare e a scalzare un’antica fiducia, sulla quale noi filosofi, da un
paio di millenni, eravamo soliti edificare come sul più sicuro fondamento (…): cominciai
a scalzare la nostra fiducia nella morale» (M, Prefazione 2). L’esito di questo percorso è
una nuova guarigione e uno sviluppo spirituale che permette a Nietzsche di annoverarsi
tra gli «uomini della conoscenza», nei quali «giunge a compimento (…) l’autosoppressione
della morale» (M, Prefazione 5. Cfr. anche FW, Prefazione 4). Alla Prefazione di Aurora
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290 Pietro Gori
5. Conclusioni
Da quanto si è detto si possono svolgere alcune considerazioni
conclusive sui paragrafi che chiudono la Genealogia della morale
di Nietzsche. Il nucleo teorico che essi espongono è chiaramente
significativo nell’economia del pensiero maturo di Nietzsche, e la
questione della verità che egli pone in particolare in GM III 24
e 27 costituisce il centro di una riflessione che coinvolge per lo
meno tutti i suoi scritti posteriori allo Zarathustra. Come si è vi-
sto, tale questione si collega a tesi esposte in Al di là del bene e del
male e nel quinto libro della Gaia scienza, ma anche a idee che si
riferiscono ai contenuti di opere precedenti e di cui Nietzsche of-
fre uno sguardo retrospettivo nelle prefazioni scritte nel 1886 (ne
è un esempio la questione della «fiducia nella morale» di cui egli
parla nella Prefazione alla seconda edizione di Aurora). Inoltre, il
problema della volontà di verità è prima di tutto funzionale allo
svolgimento della Trasvalutazione dei valori, e collega pertanto
la Genealogia agli scritti del 1888 (in particolare Crepuscolo degli
idoli e Anticristo). Tutto questo non è di certo tenuto nascosto
da Nietzsche, la cui strategia comunicativa insiste anzi particolar-
mente sull’intersezione dei temi da lui trattati, che nella “coda”
a GM trovano un punto di incontro. Egli infatti cita direttamen-
te aforismi della Gaia scienza (in GM III 24 e 27), rimanda al
quinto libro di quest’opera e alla prefazione di Aurora (GM III
24), annuncia di stare approntando un’opera intitolata Volontà
di potenza. Saggio di una trasvalutazione di tutti i valori, all’inter-
no della quale comparirà una sezione intitolata Per la storia del
nichilismo europeo27 (GM III 27). Le sezioni conclusive della Ge-
nealogia sono quindi caratterizzate da questo gioco di rimandi e
anticipazioni costruito allo scopo di concentrare l’attenzione del
lettore su un unico punto focale, verso il quale convergerebbe
Nietzsche rimanda alla fine di GM III 24, per una migliore comprensione del contenuto
di quel paragrafo.
27 Questo titolo rimanda alla nota postuma 5[71] del 1887, conosciuta come fram-
mento di Lenzer-Heide, in cui Nietzsche espone sinteticamente ma in maniera ben strut-
turata una serie di osservazioni sul nichilismo europeo. Cfr. Stegmaier 1994: 49 ss.
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Porre in questione il valore della verità 291
l’intera produzione di Nietzsche. Quest’ultimo è per l’appunto il
«nuovo problema» del «valore della verità», la cui disamina criti-
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Indice dei nomi
Abel G., 65 Comte A., 80, 250
Adorno T., 86n, 243, 244n Constâncio J., 131n, 135n, 147n,
Alcibiade, 79 156n
Anders A., 215, 240n Conway D., 31, 70
Andler C., 73 Cox C., 278n
Archiloco, 56 Crawford C., 165n
Aristotele, 256 Curi U., 75
Aschheim S., 29n Daigle C., 169n
Babich B., 165n, 258 Darwin C., 64, 223n, 240
Baeumler A., 73n Deleuze G., 14, 30, 38n
Bailey T., 149 Derrida J., 165n
Bentham J., 93 Deussen P., 241, 283n
Bergson H., 99 Descartes R., 66, 153
Berkeley G., 230-1 Diemer A., 257n
Bianquis G., 29n Diderot D., 46
Bishop P., 56n Dilthey W., 55n
Blondel E., 61n Dioniso, 49, 50, 72, 174n, 182, 206,
Bornedal P., 31n 209
Borsche T., 242 Dostoevskij F., 59-62
Brennecke D., 71n Draper J.W., 250
Brusotti M., 31n, 159n Dühring E., 60n, 78n, 247
Buddha, 167n, 187, 204 Eckhart M., 204
Buddensieg R., 255 Einstein A., 270
Burckhardt J., 133n, 145n Epicuro, 199
Cacciari M., 165n Epitteto, 199
Campioni G., 160, 162n, 174n Eschilo, 56
Canevari M., 58, 74, 78, 80, 104 Euripide, 56
Giulio Cesare, 128 Ferdinando I d’Asburgo, 226
Chamberlain H.S., 72 Fett O., 241
Chamfort, 46 Fichte J.G., 256
Clark M., 44n, 240n, 272n Fischer K., 219n
Colli G., 255n Forth C., 29
12 indice_nomi_307.indd 307 17/09/15 17.42
308 La Genealogia della morale
Foucault M., 17, 18, 37n, 172n, 240, Janaway C., 31n, 44n, 61n, 64n
241 Jung C.G., 56n
Förster T., 38n. Kant I., 18, 30, 100, 141-4, 159, 162,
Freud S., 316, 186 163, 214-222, 224-234, 237, 256,
Fritzsch E.W., 33, 37 261, 262
Fritsch T., 72 Kemal S., 31n
Gemes K., 156n Kierkegaard S., 99
Gentili C., 169n, 217, 219n, 280n, Kofman S., 163n, 165n, 174n
281n Kojève A., 94n
Gerber G., 274 Köselitz H., 73n, 255, 283
Gerhardt V., 143n, 237 Kuhn T., 251
Gesù, 79 La Boétie E., 95n
Giacoia O. Jr., 147n Lagarde P., 78n
Giacomelli A., 56, 182n Lange F.A., 61n, 220, 221, 223n, 262,
Gillespie M.A., 159 270, 272n, 275
Girotto V., 109 Larmores Ch., 239
Gobineau A., 73 Leiter B., 61n, 125-7, 136, 137, 279
Goethe J.W., 63, 130, 142, 204 Leopardi G., 199
Gori P., 61n, 65n, 169n, 172n, 175n, Liebenfels J.L., 72
208n, 209n, 254n, 269n, 270n, Loeb P., 81
272n, 277n, 278n, 283, 285n, Mach E., 269n, 270
287n, 288n, 289n Machiavelli N., 132-4
Gurisatti G., 59, 190, 203n, 209 Magno E., 167n
Gracián B., 199 Marco Aurelio, 199
Grimm R., 272n Marton S., 29n, 30n, 33, 34n, 37n, 163n
Guéry F., 246n May S., 156n
Hadot P., 164n Mazzucchetti L., 63n
Halpèrine E., 59n, 60n Meijers A., 274n
Hatab L., 31n, 126n, 147n Melville H., 118, 119n
Hegel F.W., 243 Merleau-Ponty M., 169n
Heidegger M., 56n, 99, 101 Merton R., 253
Heinze M., 239, 254-8, 263 von Meysenbug M., 283n
Heit H., 172n, 259n, 268n, 270 Michelini G., 29n
Heller L., 270 Miklowitz P.S., 44n
Heydrich R., 71n Montaigne M., 93, 199, 204
Hobbes T., 108 Montinari M., 155n, 280
Horkheimer M., 244n Morice C., 59n, 60
Höffe O., 240 Musil R., 62
Hume D., 109 Müller-Lauter W., 65, 135n, 272
Hussain N., 270n Naumann C.G., 22, 36, 37, 271
Ibáñez-Noé J., 169 Negri F., 166n
James W., 273, 277n Niemeyer C., 289n
12 indice_nomi_307.indd 308 17/09/15 17.42
Indice dei nomi 309
Nietzsche E., 255, 283n Schank G., 71
Nolte E., 29n Scheler M., 32, 33
Obenauer K.J., 73n Schelling F.W.J., 234
Omero, 56, 183 Schiemann G., 257
Orsucci A., 31, 73n, 171n Schlechta K., 215, 240n
Ottmann H., 135n, 137n Schopenhauer A., 14, 67, 146, 155,
Overbeck F., 23, 60, 283n 156, 159, 161-4, 181-90, 195, 196,
Owen D., 31n 199, 203-6, 214n, 218-20, 225, 227,
Paolo di Tarso, 79 230-4
Parsifal, 160 Sedwick P., 31
Pascal B., 93 Seneca, 199
Pasqualotto G., 80, 154n, 157n von Seydlitz R., 37n
Pelligra V., 114 Sesto Empirico, 121
Penzo G., 73n Simon J., 142n
Pietro, 79 Smith D., 29n
Pievani T., 109 Socrate, 56, 75, 79, 107, 161n, 181,
Piazzesi C., 273n, 283, 285n 184, 226
Pirrone, 237 Sofocle, 56
Platone, 175n, 183, 208, 225, 256, Spencer H., 64
280, 282, 283, 287 Spengler O., 181
Poesche T., 72 Spranger E., 55n, 56n
Poincaré H., 270 Spethmann W., 73n
Pütz P., 29 Spinoza B., 108, 225
Rée P., 64, 240 Stack G., 135n, 272n
Reimer F.W., 63 Stefani M.A., 29
Rey J.M., 98n, 103, 121n Stegmaier W., 31, 37n, 56n, 68, 69,
Ribot T., 131n 76, 135n, 142n, 148n, 177n, 225,
Riccardi M., 173n 244n, 245, 247, 250, 267n, 270n,
Richardson J., 147n 277n, 285-7n, 290n
Le Rider J., 29n Stellino P., 59n, 60n, 157n, 169n,
Ridley A., 31n 209n, 278n, 287-9n
Rohde E., 12 Sturm E., 29n
Rosemberg A., 73n Taureck B.H.F., 73n
La Rouchefoucauld F., 46 Teognide di Megara, 241
Rousseau J.J., 256 Teresa d’Avila, 187
Rovatti P.A., 161n Valéry P., 91, 93, 94, 96, 99, 101, 102,
Ruckenbauer H.W., 240n 116, 117, 121n
Russo M., 62 Venturelli A., 287n
von Salis M., 21, 23 Virchow R., 73n
Salomé L.A., 163n Vivarelli V., 72, 78n
Scapolo B., 103n, 119n Voltaire, 46
Schacht R., 30, 31 Wagner R., 73n, 78n, 159-62, 182,
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310 La Genealogia della morale
183, 190, 205, 210, 246n Witzler R., 281n
Weber M., 253 Wotling P., 58, 174n
Weichelt H., 73n Yovel Y., 56
Wilcox J.T., 44n Zenone, 199
Wittgenstein L., 101, 120, 121n Žižek S., 142
12 indice_nomi_307.indd 310 17/09/15 17.42
Gli Autori
João Constâncio è professore aggregato in filosofia presso l’Univer-
sità Nuova di Lisbona, dove insegna dal 1996, e direttore del Nietzsche
International Lab. È autore di numerosi articoli su Nietzsche, tra cui
On Consciousness: Nietzsche’s Departure from Schopenhauer (Nietzsche-
Studien 40, 2011) e ‘A Sort of Schema of Ourselves’: On Nietzsche’s ‘Ide-
al’ and ‘Concept’ of Freedom’ (Nietzsche-Studien 41, 2012), e del lavoro
monografico Arte e niilismo: Nietzsche e o enigma do mundo (Lisbona
2013). In collaborazione con altri specialisti di Nietzsche ha inoltre cu-
rato la pubblicazione dei volumi Nietzsche on Instinct and Language
(Berlin/ Boston 2011), As the Spider Spins: Essays on Nietzsche’s Criti-
que and Use of Language (Berlin/ Boston 2012), Sujeito, décadence e art:
Nietzsche e a modernidade (Lisboa/Rio de Janeiro 2014) e Nietzsche and
the Problem of Subjectivity (Berlin/Boston 2015).
Carlo Gentili insegna Estetica all’Università di Bologna. Si è oc-
cupato del rapporto tra ermeneutica e fenomenologia e di temi del-
la filosofia tedesca, in particolare del pensiero di Nietzsche. Fa par-
te del comitato scientifico delle «Nietzsche-Studien» ed è membro
della “Friedrich-Nietzsche-Stiftung”. Ha pubblicato: Ermeneutica e
metodica. Studi sulla metodologia del comprendere, Genova, Marietti,
1996; A partire da Nietzsche, Genova, Marietti, 1998; Nietzsche, Bolo-
gna, Il Mulino, 2001 (ed. spagnola Madrid, Editorial Biblioteca Nue-
va, 2004; ed. tedesca Nietzsches Kulturkritik zwischen Philologie und
Philosophie, Basel, Schwabe, 2010); La filosofia come genere letterario,
Bologna, Pendragon, 2003; Il tragico (in collab. con G. Garelli), Bolo-
gna, Il Mulino, 2010. Ha inoltre curato, insieme a Cathrin Nielsen, il
volume Der Tod Gottes und die Wissenschaft. Zur Wissenschaftskritik
Nietzsches, Berlin-New York, De Gruyter, 2010.
Alberto Giacomelli è dottore in ricerca in Filosofia teoretica e
13 autori_311.indd 311 17/09/15 17.41
312 La Genealogia della morale
pratica presso l’Università degli studi di Padova. Ha studiato presso la
Eberhard Karls Universität di Tübingen, la Humboldt-Universität e la
Technische-Universität di Berlino. Collabora con la cattedra di Estetica
del Dipartimento di Filosofia dell’Università di Padova. È membro del
Centro Interdipartimentale “Colli-Montinari” di Studi su Nietzsche e
la cultura europea e del Seminario Permanete Nietzscheano. Ha pub-
blicato la monografia Simbolica per tutti e per nessuno. Stile e figura-
zione nello Zarathustra di Nietzsche (Milano, Mimesis Edizioni, 2012).
Con recensioni e contributi in volumi collettanei nazionali e internazio-
nali ha cercato di mettere in luce il rapporto tra il pensiero di Nietzsche
e l’estetica del XIX-XX secolo, soprattutto di area tedesca.
Pietro Gori è dottore di ricerca in filosofia moderna e contempo-
ranea e dal 2011 svolge attività di ricerca presso l’Istituto di Filosofia
dell’Università Nuova di Lisbona. È autore di due testi monografici
sul rapporto di Nietzsche con la cultura scientifica della sua epoca
(La visione dinamica del mondo. Nietzsche e la filosofia naturale di Bo-
scovich, Napoli 2007 e Il meccanicismo metafisico. Scienza, filosofia e
storia in Nietzsche e Mach, Bologna 2009) e curatore, assieme a Chiara
Piazzesi, di un’edizione italiana commentata del Crepuscolo degli idoli
di Nietzsche (Roma 2012). Sempre su Nietzsche, ha curato assieme
a Paolo Stellino il volume Teorie e pratiche della verità in Nietzsche
(Pisa 2011), e ha infine pubblicato numerosi articoli in riviste inter-
nazionali. È attualmente impegnato in un lavoro di ricerca dedicato
alla psicologia ottocentesca e al monismo neutrale di Ernst Mach e
William James.
Giovanni Gurisatti insegna Storia dell’estetica contemporanea nel
Dipartimento FISPPA dell’Università di Padova. Studioso, traduttore
e curatore di opere di Heidegger e di Schopenhauer, si occupa soprat-
tutto di autori di area tedesca, con particolare riferimento a Walter
Benjamin. In Caratterologia, metafisica e saggezza. Lettura fisiognomica
di Schopenhauer (Il poligrafo, 2002), e in Schopenhauer maestro di sag-
gezza (Angelo Colla, 2007), ha approfondito la tematica del rapporto
tra carattere, comportamento, stile di vita e saggezza. Ne deriva una ori-
ginale rilettura dell’opera schopenhaueriana, che la assimila alla ricerca
di P. Hadot e di M. Foucault sulla “cura di sé” nell’età classica. Nel suo
ultimo lavoro, Scacco alla realtà. Estetica e dialettica della derealizzazio-
ne mediatica (Quodlibet, 2012), in cui la figura di Nietzsche svolge un
ruolo decisivo, solleva la questione di un’etica basata sulla cura di sé
13 autori_311.indd 312 17/09/15 17.41
Gli Autori 313
come opzione preferenziale all’interno della generale perdita di senso
della realtà che caratterizza la società contemporanea.
Helmut Heit dal 2007 lavora presso la Technischen Universität di
Berlino, dove svolge una ricerca dedicata al rapporto di Nietzsche con
il razionalismo occidentale. Nel 2012-13 è stato borsista presso l’Insti-
tute for Advanced Study di Princeton (USA), e nel 2014-15 visiting pro-
fessor a Pelotas (Brasile). Tra i suoi lavori si contano le monografie Der
Ursprungsmythos der Vernunft. Zur philosophiehistorischen Genealogie
des griechischen Wunders (2007) e Grundwissen Philosophie: Frühgri-
echische Philosophie (2011), e la curatela dei volumi Paul Feyerabend:
Naturphilosophie (con Eric Oberheim, 2009) e Nietzsche und die Wis-
senschaften. Natur-, geistes- und sozialwissenschaftliche Kontexte (con
Lisa Heller, 2014).
Scarlett Marton è professoressa all’Università di São Paulo, fon-
datrice del GEN (Grupo de Estudios Nietzsche) e della rivista Cadernos
Nietzsche. È autrice di libri e articoli, pubblicati in Brasile, Europa e
America Latina, sulla filosofia di Nietzsche. Tra questi: Nietzsche e a
arte de decifrar enigmas (São Paulo, 2014), Nietzsche, das forças cósmi-
cas aos valores humanos (Belo Horizonte, 20103), Nietzsche, Kant et la
métaphysique dogmatique, «Nietzsche-Studien», 40 (2011), e Nietzsche
in Brasilien, «Nietzsche-Studien», 29 (2000).
Federica Negri, dopo la laurea in filosofia morale all’Università di
Padova, ha conseguito il dottorato in “Storia delle scritture femminili”
presso l’Università degli studi di Roma “La Sapienza” in cotutela con l’U-
niversité “Charles De Gaulle - Lille III”. Si è occupata a lungo del pensie-
ro di Simone Weil e ha collaborato con la cattedra di “Storia della filosofia
contemporanea” dell’Università di Padova. Autrice di lavori su Simone
Weil (numerosi articoli e la monografia La passione della purezza. Simone
Weil e Cristina Campo, Il Poligrafo, Padova 2005), Friedrich Nietzsche
(Ti temo vicina, ti amo lontana. Nietzsche, il femminile e le donne, Mime-
sis, Milano-Udine 2011), e Maurice Merleau-Ponty (Il punto cieco. Note
su L’occhio e lo spirito di Maurice Merleau-Ponty, Libreriauniversitaria
edizioni, Padova 2013), oltre a numerosi altri saggi su Cristina Campo,
Lou Salomè, e Alain. Attualmente collabora come docente a contratto
(Estetica e Antropologia filosofica) nel corso di laurea in “Scienze e tecni-
che della comunicazione grafica e multimediale” presso lo IUSVE (Istitu-
to Universitario Salesiano Venezia), sedi di Mestre e Verona.
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314 La Genealogia della morale
Jean-Michel Rey, oggi professore emerito, ha insegnato filosofia ed
estetica all’Université de Paris 8 (1969-2008) ed è stato Direttore del
programma al Collège International de Philosophie (1992-1998). Oltre
a numerosi saggi, ha pubblicato, a partire dal 1971, studi su Nietzsche
(ricorderemo l’ormai celebre L’enjeu des signes. Lecture de Nietzsche,
Seuil 1971), Freud, Kafka, Valéry, Péguy, Artaud, Edgar Quinet. Si
ricordano qui le pubblicazioni più recenti: Paul ou les ambiguïtés (édi-
tions de L’Olivier 2008); L’oubli dans les temps troublés (éditions de
L’Olivier 2010); la trilogia dal titolo Histoires d’escrocs: t.1, La vengean-
ce par le crédit ou Monte-Cristo (éditions de L’Olivier 2013), t.2, La ban-
queroute en famille ou Les Buddenbrook (éditions de L’Olivier 2014),
t.3, L’escroquerie de l’homme par l’homme ou The Confidence-Man (édi-
tions de L’Olivier 2014). Infine, i lavori sul problema del credito e della
credenza nella prospettiva di un’ontologia del mondo sociale: La part
de l’autre (PUF, 1998); Le Temps du crédit (Desclée de Brouwer 2002);
Les promesses de l’œuvre (Desclée de Brouwer 2003) e, in italiano, La
religione come istanza critica, a cura di M. Fimiani (Paparo 2013).
Barbara Scapolo è dottore di ricerca in Scienze della Cultura pres-
so la Scuola Internazionale di Alti Studi di Modena. Dal 2006 al 2014
è stata assegnista di ricerca presso il Dipartimento FISPPA (Filosofia,
Sociologia, Pedagogia e Psicologia applicata) dell’Università di Padova.
È membro dell’Équipe des Études P. Valéry di Parigi (ITEM-CNRS)
dal 2006. Ha ottenuto l’Abilitazione scientifica nazionale come profes-
sore universitario di II fascia in “Estetica e teoria dei linguaggi” e in
“Filosofia morale”. Giornalista pubblicista, è membro della redazione
della rivista «QuiLibri» e del comitato scientifico della rivista «Eser-
cizi filosofici». Autrice di numerosi saggi apparsi su riviste nazionali
e internazionali, ha pubblicato le monografie: Comprendere il limite.
L’indagine delle choses divines in P. Valéry (Pellegrini 2007), Esercizi di
de-fascinazione. Saggio su E.M. Cioran (Mimesis 2009); Leggere “Timore
e tremore” di Kierkegaard (Ibis 2013). Sua è inoltre la cura del recente
volume collettaneo Per un sapere della crisi. La dissoluzione del sogno
cartesiano tra Ottocento e Novecento (Aracne 2014). Ha inoltre tradot-
to e curato le seguenti edizioni italiane: di P. Valéry, Storie infrante
(San Marco dei Giustiniani 2006), Lettere e note su Nietzsche (Mimesis,
2010) ed Eupalinos o l’architetto (Mimesis 2011); di E. Cioran e P. Ale-
chinsky, Vacillamenti (Mimesis 2011) e, di K. Löwith, P. Valéry. Tratti
fondamentali del suo pensiero filosofico (Ananke 2012).
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Indice
Prefazione: Humanitas e oltre, di Fabio Grigenti 5
Nota al testo 7
Introduzioni
Leggere la Genealogia della morale di Nietzsche,
di Bruna Giacomini 11
Verso una «resa dei conti con la morale», di Pietro Gori 21
Letture e interpretazioni
Scarlett Marton
Genealogia della morale: dalla premura didattica
ai fini strategici 27
Alberto Giacomelli
La bionda bestia e il prete. Considerazioni su GM I
a partire dalle sue Lebensformen 55
Jean-Michel Rey
Note su alcune forme incompatibili 85
Barbara Scapolo
Credenza, fiducia o conoscenza? Alcune riflessioni
a partire da GM II 13 103
14 indice_315.indd 315 17/09/15 17.41
316 La Genealogia della morale
João Constâncio
Libertà e autonomia dell’individuo sovrano in Nietzsche:
una lettura non-deflazionista 125
Federica Negri
“Faute de mieux” par excellence. L’esito problematico
di GM III 153
Giovanni Gurisatti
Sull’utilità e il danno dell’ideale ascetico per la filosofia.
Ascesi e askesis in GM III 181
Carlo Gentili
Prospettiva e ascetismo. Una lettura di GM III 12 211
Helmut Heit
Gaia scienza e ideali ascetici (GM III 23-28) 239
Pietro Gori
Porre in questione il valore della verità. Riflessioni sul compito
della tarda filosofia di Nietzsche a partire da GM III 24-27 267
Bibliografia 293
Indice dei nomi 307
Gli Autori 311
14 indice_315.indd 316 17/09/15 17.41
Edizioni ETS
Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa
[email protected] - www.edizioniets.com
Finito di stampare nel mese di luglio 2015
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Nietzscheana_new_Nietzscheana 17/09/15 09.41 Pagina 1
nietzscheana
24
collana diretta da
Giuliano Campioni, Maria Cristina Fornari
fondata da
Sandro Barbera, Giuliano Campioni e Franco Volpi
saggi, quaderni, testi
0. Giorgio Colli, Ellenismo e oltre. Einleitung, a cura di Stefano Busel-
lato, con una introduzione di Sandro Barbera [edizione fuori com-
mercio], 2005, pp. 108. [sezione quaderni]
1. Sandro Barbera, Paolo D’Iorio, Justus H. Ulbricht, [a cura di], Friedrich
Nietzsche. Rezeption und Kultus, 2004, pp. 362. [sezione saggi]
2. Sergio Franzese, [a cura di], Nietzsche e l’America, 2005, pp. 292. [se-
zione saggi]
3. Claudia Rosciglione, Homo Natura, 2005, pp. 220. [sezione saggi]
4. Richard Wagner, Sulla vivisezione. Lettera aperta al signor Ernst von
Weber, autore dello scritto «Le camere di tortura della scienza», Tra-
duzione, introduzione e note di Sandro Barbera e Giuliano Campioni,
2006, pp. 48. [sezione quaderni]
5. Maria Cristina Fornari, La morale evolutiva del gregge. Nietzsche legge
Spencer e Mill, 2006, pp. 362. [sezione saggi]
6. Luca Lupo, Le colombe dello scettico. Riflessioni di Nietzsche sulla
coscienza negli anni 1880-1888, 2006, pp. 264. [sezione saggi]
7. Patrick Wotling, Il pensiero del sottosuolo, traduzione di Chiara Piaz-
zesi, 2006, pp. 76. [sezione quaderni]
8. Maria Cristina Fornari [a cura di], Nietzsche. Edizioni e interpretazioni,
2006, pp. 552. [sezione saggi]
9. Friedrich Nietzsche im 20. Jahrhundert. Aspekte seiner Rezeption, a
cura di Sandro Barbera, Renate Müller-Buck, 2006. [sezione saggi]
10. Giuliano Campioni, Nietzsche. La morale dell’eroe, 2008, pp. 156.
[sezione saggi]
Nietzscheana_new_Nietzscheana 17/09/15 09.41 Pagina 2
11. Chiara Colli Staude, Nietzsche filologo tra inattualità e vita. Il con-
fronto con i Greci, 2009, pp. 166. [sezione quaderni]
12. Friedrich Nietzsche, Gli Academica di Cicerone. Appunti preparatori
alle lezioni universitarie 1870-71. A cura e con un saggio introduttivo
di Stefano Busellato, 2009, pp. 170. [sezione testi]
13. Sandro Barbera, Giuliano Campioni, Il genio tiranno. Ragione e do-
minio nell’ideologia dell’Ottocento: Wagner, Nietzsche, Renan, prefa-
zione di Mazzino Montinari, 2009, pp. 218. [sezione saggi]
14. Chiara Piazzesi, Giuliano Campioni, Patrick Wotling [a cura di],
Letture della Gaia scienza - Lectures du Gai savoir, 2010, pp. 384.
[sezione saggi]
15. Giuliano Campioni, Leonardo Pica Ciamarra, Marco Segala [a cura
di], Goethe, Schopenhauer, Nietzsche. Saggi in memoria di Sandro
Barbera, 2012, pp. 708. [sezione saggi]
16. Pietro Gori, Paolo Stellino [a cura di], Teorie e pratiche della verità in
Nietzsche, 2012, pp. 212. [sezione saggi]
17. Donatella Morea, Il respiro più lungo. L’aforisma nelle opere di Friedrich
Nietzsche, 2012, pp. 282. [sezione saggi]
18. Céline Denat, Chiara Piazzesi [a cura di], Nietzsche, pensatore della
politica? Nietzsche, pensatore del sociale?, 2014, pp. 206. [sezione
saggi]
19. Elena Laurenzi, Sotto il segno dell’aurora. Studi su María Zambrano
e Friedrich Nietzsche, 2012, pp. 182. [sezione saggi]
20. Annamaria Lossi, La ragione estetica. Saggio su Nietzsche, 2012,
pp. 172. [sezione saggi]
21. Francesca Manno, Attore e mimo dionisiaco. Nietzsche, Wagner e il
teatro d’avanguardia francese, 2012, pp. 348. [sezione saggi]
22. Stefano Busellato [a cura di], Nietzsche dal Brasile. Contributi dalla
ricerca contemporanea, 2014, pp. 204. [sezione saggi]
23. Annamaria Lossi, Claus Zittel [a cura di], Nietzsche scrittore. Saggi di
estetica, narratologia, etica, 2014, pp. 216. [sezione saggi]
24. Bruna Giacomini, Pietro Gori, Fabio Grigenti [a cura di], La Genealogia
della morale. Letture e interpretazioni, 2015, pp. 320. [sezione saggi]